Archivio Web Noam Chomsky
Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE PRIMA.
VINO VECCHIO IN BOTTIGLIE NUOVE.


Capitolo 1.
LA GRANDE IMPRESA DELLA CONQUISTA.

2. "ABBATTENDO ALBERI E INDIANI".

I coloni inglesi nel Nordamerica seguirono la via tracciata dai loro predecessori britannici in patria. Dai primi giorni della colonizzazione, la Virginia divenne un centro di pirateria e di saccheggio, una base dalla quale compiere razzie ai danni dei mercanti spagnoli e depredare le colonie francesi sulla costa del Maine - e per sterminare gli indiani che, sebbene avessero ben accolto i coloni permettendo loro di sopravvivere, venivano considerati "veneratori del demonio" e "bestie crudeli", e quindi li si cacciava con cani feroci, si massacravano le loro donne e bambini, si distruggevano i raccolti, si spargeva il vaiolo con coperte infette, ed altri metodi che facilmente venivano in mente a quei barbari, freschi delle loro gesta in Irlanda. I pirati nordamericani nel tardo '600 arrivarono ad operare fino al Mare di Arabia. A quel tempo, osserva Nathan Miller, "New York era diventata un mercato di ladri dove i pirati si sbarazzavano del bottino preso in alto mare" mentre "la corruzione... era il lubrificante che oliava le ruote della macchina amministrativa della nazione"; "la concussione e la corruzione ebbero un ruolo cruciale nello sviluppo della società americana moderna e nella creazione di quel complesso meccanismo di intreccio tra il governo e gli interessi economici che tuttora determina il corso dei nostri affari", conclude Miller, ridicolizzando la sorpresa mostrata da tanti alla scoperta dello scandalo Watergate (25).

Successivamente, quando il potere centrale statale si consolidò, soppresse l'uso privato della violenza assumendosene la gestione. Ma i privati mantennero in questo campo certi margini di azione ed il governo li sostenne impedendo a corti straniere di giudicare i cittadini Usa accusati di continuare la tratta degli schiavi. Non era cosa da poco; alla marina militare britannica veniva rifiutato il permesso di ispezionare qualsiasi nave negriera americana, "e le navi della marina militare [Usa] non erano quasi mai presenti [per compiere quest'operazione], con il risultato che la maggior parte delle navi negriere, alla metà dell'800, non solo battevano bandiera americana, ma erano anche di proprietà di cittadini americani". Nel 1992, allo stesso modo, gli Usa avrebbero rifiutato la proposta di Muammar Gheddafi di presentare le loro accuse sul presunto coinvolgimento della Libia in atti di terrorismo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia o a qualche altro tribunale neutrale. Proposta scartata con disprezzo da Washington e dalla stampa, i quali non vedono con favore il ricorso a strumenti che potrebbero diventare eccessivamente autonomi (26).

Quando le colonie britanniche d'America acquistarono la loro indipendenza, in seguito al conflitto tra Inghilterra e Francia da una parte, Spagna ed Olanda dall'altra, il potere dello stato fu utilizzato per proteggere l'industria nazionale, stimolare la produzione agricola, controllare i commerci, monopolizzare le materie prime e togliere la terra agli abitanti originari del paese. Gli americani "si dedicarono ad abbattere alberi e indiani e ad allargare i loro confini naturali", come lo storico diplomatico Thomas Bailey descrisse il progetto nel 1969 (27).

Questo programma e la retorica che ne accompagnò l'attuazione sono accettati senza problemi dagli ideologi del sistema. Non bisogna quindi stupirsi che le denuncie di quei metodi e di quel programma, uditesi negli ultimi anni, abbiano suscitato il loro sdegno. Hugo Grotius, un eminente umanista del '600 fondatore del diritto internazionale moderno, stabilì che la "guerra giusta è quella contro le bestie feroci, e poi quella contro quegli uomini che sono simili alle bestie". George Washington, da parte sua, scrisse nel 1783: "L'estensione graduale delle nostre colonie obbligherà certamente sia il lupo che il selvaggio a ritirarsi; entrambi sono bestie predatrici, anche se di differente aspetto". Sebbene nella retorica ufficiale della 'correttezza politica' George Washington venga considerato un 'pragmatista', egli riteneva invece che l'acquisto delle terre indiane (generalmente tramite l'inganno e l'intimidazione) fosse una tattica più produttiva della violenza. Thomas Jefferson, da parte sua, pronosticò a John Adams che le tribù "retrograde" alle frontiere sarebbero ricadute nella barbarie e nella miseria, avrebbero perso molti dei loro per via della guerra e degli stenti e "saremo obbligati a cacciarli, insieme alle bestie della foresta, sulle Montagne Rocciose"; lo stesso sarebbe dovuto avvenire in Canada dopo la Conquista da lui immaginata, mentre tutti i neri sarebbero stati trasferiti in Africa o nei Caraibi lasciando il paese senza "macchie né miscugli". Un anno dopo la formulazione della Dottrina Monroe, il Presidente lanciò un appello perché si aiutassero gli Indiani "a superare tutti i loro pregiudizi [l'attaccamento, N.d.C.] per la loro terra natia", in modo da "poter divenire i loro benefattori" trasferendoli all'Ovest. Quando gli Indiani non acconsentivano, venivano cacciati con la forza. Il giudice supremo John Marshall elaborò una teoria che tranquillizzò ulteriormente le coscienze dei coloni: "La scoperta [ci] ha conferito il diritto esclusivo di estinguere, o con l'acquisto o con la conquista, il diritto indiano di proprietà"; "quella legge che regola, e che dovrebbe generalmente regolare, i rapporti tra il conquistatore ed i conquistati non era applicabile... alle tribù degli Indiani... feroci selvaggi il cui mestiere era la guerra e la cui sussistenza derivava principalmente dalla foresta".

I coloni, naturalmente, la sapevano più lunga. La loro sopravvivenza dipendeva dalla specializzazione agricola e dalla generosità dei 'feroci selvaggi', ed inoltre conoscevano le norme che regolavano l'uso della violenza. Osservando le guerre tra Narragansett e Pequot, Roger Williams notò che i loro combattimenti erano "molto meno sanguinosi e feroci delle crudeli guerre dell'Europa", nel corso delle quali i coloni avevano imparato il loro mestiere. John Underhill si beffava delle "azioni poco efficaci" dei guerrieri indiani, che "a malapena meritano di essere chiamati combattenti", e delle loro ridicole proteste contro il modo "furioso" di fare la guerra degli inglesi che "uccidono troppi uomini" - senza parlare delle donne e dei bambini nei villaggi indifesi, una tattica europea che si dovette insegnare agli indigeni. Si trattava, come già notato, di aspetti tipici della Conquista del mondo.

Le comode dottrine del giudice Marshall e di altri sono rimaste in auge anche nelle discussioni accademiche dell'era moderna. Il rispettato A. L. Kroeber attribuì agli indiani della Costa Orientale un modo di "fare la guerra folle, che non finiva mai", inspiegabile "dal nostro punto di vista" ma così "importante nell'ambito della [loro cultura] che era praticamente impossibile cambiare", visto che chiunque deviasse da queste orribili usanze "era quasi certamente condannato ad un'estinzione precoce" - "un'accusa severa [che] avrebbe più peso", osserva Francis Jennings, "se fosse sostenuta da esempi o citazioni". Gli indiani non erano certo dei pacifisti, ma dovettero imparare le tecniche della 'guerra totale' e della ferocia dai conquistatori europei, con la loro grande esperienza acquisita nelle regioni celtiche (Irlanda, N.d.C.) ed altrove (28).

Stimati uomini di stato hanno continuato a sostenere questi stessi principi. Theodore Roosevelt, l'eroe di George Bush e di quei commentatori liberal che si entusiasmavano per la sua 'guerra giusta' durante il massacro del 1991 nel Golfo, sosteneva che "la più giusta delle guerre è quella contro i selvaggi", realizzando così il potere delle "razze dominanti del mondo". Il tremendo e vigliacco massacro di Sand Creek (Colorado) del 1864, nazista nella sua bestialità, fu "uno degli atti più giusti e vantaggiosi che mai ebbero luogo sulla frontiera". Questo "missionario dai nobili sentimenti", come lo chiamavano gli ideologi a lui contemporanei, non si occupò solo delle 'bestie predatrici' che venivano cacciate via dalle loro tane all'interno dei 'confini naturali' della nazione americana. Le file dei selvaggi includevano i 'dagos' al sud, i 'banditi malesi' e i 'meticci cinesi' che resistevano alla conquista americana delle Filippine, tutti, come dimostrò ampiamente la loro resistenza, "selvaggi, barbari, gente feroce e ignorante, Apache, Sioux, Boxer cinesi". Del resto lo stesso Winston Churchill non pensava forse che i gas velenosi fossero il giusto metodo da impiegare contro le 'tribù barbare' (in particolare curdi ed afgani)? Ricordando come la diplomazia britannica avesse impedito che la convenzione sul disarmo del 1932 mettesse al bando i bombardamenti sulle aree civili, il rispettato statista Lloyd George, cogliendo il vero senso di quella posizione, la spiegò così: "Abbiamo voluto riservarci il diritto di bombardare i negri". Le metafore ed i miti della 'guerra indiana' del resto riemersero di nuovo durante il conflitto indocinese. Le consuetudini mantengono la loro vitalità, come abbiamo visto nei primi mesi del 1991 e come presto potremmo tornare a vedere (29).

La straordinaria potenza degli Stati Uniti fu evidente sin dall'inizio, suscitando i timori dei 'guardiani dell'ordine stabilito'. Lo Zar ed i suoi diplomatici erano preoccupati per un possibile "contagio di quei principi rivoluzionari", quelle "idee depravate" del repubblicanesimo e dell'autogoverno già parzialmente attuate nel Nordamerica, che "né la distanza né gli ostacoli fisici riescono a fermare". Anche Metternich mise in guardia dalla "inondazione di dottrine perverse e di esempi nocivi" che potrebbero "dar nuova forza agli apostoli della sovversione", e si chiedeva preoccupato "che cosa ne sarebbe dei nostri istituti religiosi, dell'autorità morale dei nostri governi e di quel sistema conservatore che ha salvato l'Europa dalla dissoluzione totale" se quell'onda non fosse arginata. Il marciume avrebbe potuto dilagare, per adottare la retorica dei 'rivoluzionari' americani che, cambiando partito, alla metà del ventesimo secolo assunsero il comando del sistema conservatore (30).

Preoccupazioni comprensibili in quanto, pur con tutti i loro limiti, quelle dottrine e quegli esempi costituirono un importante progresso nell'eterna lotta per la libertà e la giustizia; gli 'uomini saggi' del tempo avevano ragione a temerne la diffusione. Ma i sostenitori di quelle idee del diciottesimo secolo non erano affatto sovversivi e non tardarono a imporre la loro visione di "una democrazia manipolata da una élite" (Richard Morris), dall'antica aristocrazia e, in seguito, dagli interessi economici emergenti: "Una mano solida e responsabile ha preso il timone" sostenne ben presto, compiaciuto, Morris. Così furono presto accantonate le paure più profonde. Gli ex rivoluzionari non mancavano di ambizioni e, come Metternich e lo Zar, temevano i 'cattivi esempi' al di là delle proprie frontiere. La Florida fu al fine conquistata per mettere termine alla minaccia delle "orde miste di Indiani e negri fuorilegge", come John Quincy Adams definì, suscitando l'entusiastica approvazione di Thomas Jefferson, gli schiavi fuggitivi e gli indigeni; questi, cercando di liberarsi dai tiranni e dai conquistatori, potevano infatti costituire un pericoloso precedente. Jefferson ed altri sostennero poi la conquista del Canada per troncare qualsiasi appoggio ai popoli indigeni da parte dei "vili demoni canadesi", come li chiamava il rettore dell'Università di Yale. E se l'espansione al nord e al sud era bloccata dalla presenza britannica, l'annessione dell'ovest continuava inesorabilmente, mentre i suoi abitanti venivano annientati, impudentemente truffati ed espulsi (31).

Il compito di 'abbattere alberi e indiani e di allargare i confini naturali' esigeva che il Nuovo Mondo fosse libero da interferenze straniere. Il nemico principale del tempo era l'Inghilterra, che costituiva un forte deterrente all'espansione dei confini ed era oggetto di un odio incontrollato in molti ambienti americani. La stessa guerra d'Indipendenza era stata una feroce guerra civile, parte di un più vasto conflitto internazionale; per quanto riguarda le sue conseguenze sulla popolazione, non fu molto diversa da quella tra il Nord ed il Sud di quasi un secolo dopo, e provocò un'ondata di profughi dal paese più ricco del mondo che cercavano di sottrarsi alla vendetta dei vincitori. Il conflitto Usa-Gran Bretagna continuò a lungo, inclusa la guerra del 1812. Nel 1837, in seguito al sostegno dato da alcuni americani ad una ribellione in Canada, le forze britanniche attraversarono il confine e diedero fuoco alla nave Usa "Caroline", spingendo il segretario di Stato Daniel Webster a formulare quella dottrina che doveva diventare il fondamento del diritto internazionale moderno: "Il rispetto per il carattere inviolabile del territorio degli stati indipendenti è la base essenziale della civiltà"; la forza può essere usata solo per l'autodifesa, quando la necessità "è immediata, schiacciante e non lascia né la possibilità di usare altri mezzi, né il tempo per riflettere". Durante il processo di Norimberga ci si riferì proprio a quel principio per respingere la giustificazione dei comandanti nazisti che l'invasione della Norvegia era stata necessaria per prevenire un attacco degli Alleati alla Germania. Non c'è bisogno di spendere molte parole per sottolineare quanto gli Stati Uniti abbiano rispettato quella dottrina dal 1837 ai nostri giorni (32).

Lo scontro Usa-Gran Bretagna si basava su un reale conflitto di interessi: gli Stati Uniti volevano espandersi nel continente e nei Caraibi. E la potenza dominante di quell'epoca era preoccupata perché i nuovi arrivati avrebbero potuto costituire una minaccia al proprio potere e ricchezza.

Per quanto vi fosse in Inghilterra una certa simpatia per la causa dei ribelli, i leader del nuovo stato indipendente tendevano a vedere le cose diversamente. La Gran Bretagna "ci odiava e ci disprezzava più di qualsiasi cosa al mondo", scrisse Thomas Jefferson a Monroe nel 1816, dando agli americani "molte ragioni per odiarla più di ogni altra nazione sulla Terra". La Gran Bretagna non solo era nemica degli Stati Uniti ma, come scrisse di nuovo Jefferson a John Adams qualche settimana più tardi, "realmente "hostis umani generis"", nemica della razza umana. "Educati come sono dalla nascita a disprezzarci, insultarci e sfruttarci", rispose Adams, "la Gran Bretagna non sarà nostra amica finché non ne saremo i padroni". Nel 1785 Jefferson aveva proposto ad Abigail Adams un'altra soluzione: "Io penso che forse è la quantità di carne che mangiano gli inglesi a rendere il loro carattere poco incline alla civiltà. Ho il sospetto che sia nelle loro cucine, e non nelle loro chiese, che bisognerebbe intraprendere una qualche riforma". Dieci anni dopo Jefferson espresse la sua ardente speranza che le armate francesi 'liberassero' la Gran Bretagna, migliorandone così sia il carattere che la cucina (33).

L'antipatia, intrisa di disprezzo, era reciproca. Nel 1865 un signore inglese dalle idee progressiste volle finanziare un corso di studi americani all'Università di Cambridge, invitando a turno ogni due anni un docente dell'Università di Harvard. I professori di Cambridge protestarono però contro quello che uno di loro chiamò, con ammirevole intuito letterario, "un bagliore biennale di oscurità transatlantica". Altri trovarono eccessive queste preoccupazioni, dal momento che quei docenti provenivano da una classe che si sentiva anch'essa "sempre più in pericolo di essere travolta, in una democrazia allargata, dal dilagare di elementi inferiori". Ma i più temevano che le lezioni avrebbero seminato comunque "malcontento e idee pericolose" tra gli studenti indifesi. La protesta fu respinta e la minaccia allontanata con una dimostrazione di quella 'correttezza politica' che ancor oggi continua a dominare il mondo accademico, diffidente come sempre degli 'elementi inferiori' e delle loro strane idee (34).

I democratici jacksoniani, ben sapendo che l'Inghilterra era troppo potente per essere affrontata militarmente, invocarono l'annessione del Texas per realizzare un monopolio mondiale sul cotone e mettere gli Stati Uniti in grado di minacciare economicamente Londra ed intimidire l'Europa. Come sostenne il presidente Tyler in seguito all'annessione e alla conquista di un terzo del Messico, gli Usa "assicurandosi il monopolio virtuale sulla pianta del cotone" hanno acquisito "un'influenza sulle vicende mondiali maggiore di quella che avrebbero potuto esercitare con possenti eserciti o forti marine militari. Quel monopolio, adesso assicurato, mette tutte le altre nazioni ai nostri piedi". "Un embargo di un solo anno", scrisse poi, "provocherebbe in Europa più sofferenze di una guerra di cinquant'anni. Dubito che la Gran Bretagna potrebbe sottrarsi a degli sconvolgimenti" interni. E fu proprio il monopolio Usa sul cotone a neutralizzare l'opposizione britannica alla conquista americana dei territori dell'Oregon.

Il direttore del "New York Herald", il più diffuso giornale del paese, esultò perché la Gran Bretagna "era completamente legata ed ammanettata con le corde del cotone" statunitense, "un mezzo con cui possiamo controllare con successo" questi pericolosi rivali. Grazie alle conquiste territoriali che diedero agli Stati Uniti il monopolio sulla più importante materia prima del commercio mondiale, l'amministrazione Polk si vantò che gli Usa potevano ormai "controllare il commercio internazionale ed assicurare così all'Unione Americana importanti vantaggi politici e commerciali". "Tra cinquant'anni il destino della razza umana sarà nelle nostre mani", proclamò un deputato della Louisiana, mentre insieme ad altri prefigurava il "dominio del Pacifico" ed il controllo delle risorse da cui dipendeva l'Europa. Il ministro delle Finanze dell'amministrazione Polk dichiarò al Congresso che le conquiste dei democratici avrebbero garantito "la supremazia sul commercio mondiale".

Il poeta nazionale, Walt Whitman, da parte sua scrisse che le nostre conquiste "spezzano le catene che privano gli uomini persino della possibilità di essere buoni e felici". Le terre del Messico sarebbero state conquistate per il bene dell'umanità: "Cosa mai ha a che fare il Messico, miserabile e pigro... con la grande missione di popolare il Nuovo Mondo con una nobile razza?". Altri riconobbero le difficoltà insite nell'appropriarsi delle risorse del Messico senza doversi anche sobbarcare i suoi "imbecilli" abitanti, "degradati" dalla "mescolanza di razze". La stampa newyorchese, comunque, sperava che quei messicani subissero un destino "simile a quello degli indiani di questo paese - una razza che, prima della fine del secolo, sarà estinta". Articolando i temi cari alla dottrina della predestinazione, Ralph Waldo Emerson aveva scritto che l'annessione del Texas era un fatto naturale: "Non vi sono dubbi che la potente razza britannica che ha conquistato gran parte di questo continente, deve anche dominare quei luoghi e anche il Messico e l'Oregon; nel corso dei secoli poco importerà quando e come tutto ciò sia stato realizzato". Nel 1829, il ministro americano per gli affari messicani Joel Poinsett (responsabile per aver spinto più tardi i Cherokee alla morte e all'estinzione lungo la tragica 'Marcia delle lacrime'), informò quel paese che "gli Stati Uniti sono in uno stato di espansione senza precedenti nella storia del mondo"; e giustamente, come spiegò questo proprietario di schiavi della Carolina del Sud, perché "la gran parte della sua popolazione è più istruita, e superiore a qualsiasi altra per la sua morale ed intelligenza. Se questa è la condizione degli Stati Uniti, è mai possibile che il loro progresso possa essere ritardato, o il loro ampliamento limitato, dalla crescente prosperità del Messico?".

Le preoccupazioni degli espansionisti andavano oltre il timore che un Texas indipendente potesse rompere il monopolio statunitense delle risorse diventandone quindi un rivale; essi temevano anche che potesse decidere l'abolizione della schiavitù, accendendo pericolose scintille di egualitarismo. Andrew Jackson pensava che un Texas indipendente, con una popolazione mista di indiani e schiavi fuggiaschi, avrebbe inoltre potuto essere strumentalizzato dalla Gran Bretagna per "dar fuoco all'intero West". Ancora una volta, i britannici avrebbero potuto lanciare "orde di indiani e negri fuorilegge" in una "guerra selvaggia" contro i "pacifici abitanti" degli Stati Uniti. Nel 1827, Poinsett riferì a Washington che il capo Cherokee "mezzosangue" Richard Fields e il "famigerato" John Hunter avevano "issato uno stendardo rosso e bianco", cercando di stabilire una "unione di bianchi e indiani" nel Texas; Hunter era un uomo bianco allevato dagli indiani che decise di tornare nel West nel tentativo di impedire il genocidio. E non vi è dubbio che il governo di Londra seguisse con attenzione la nascita della loro 'Repubblica di Fredonia'.

Stephen Austin, capo di una vicina colonia bianca, avvertì Hunter dell'insensatezza dei suoi piani perché se il progetto della Repubblica si fosse realizzato, il Messico e gli Stati Uniti avrebbero unito le loro forze per "annientare un vicino così pericoloso e destabilizzante" e non si sarebbero fermati ""neppure di fronte allo sterminio o alla deportazione"". "Gli Usa avrebbero presto spazzato via gli Indiani dal paese e li avrebbero costretti, come sempre era successo, alla rovina e all'estinzione". In breve, Washington avrebbe continuato la sua politica di genocidio (per usare un termine contemporaneo), mettendo fine alla 'pazzia' di una libera società di bianchi e indiani. Austin che aveva eliminato gli "indigeni della foresta" dalla propria colonia, si mosse poi per porre fine alla rivolta che si concluse con l'assassinio di Hunter e Fields (35).

La logica dell'annessione del Texas fu esattamente la stessa che sarebbe stata poi attribuita dalla propaganda americana a Saddam Hussein dopo l'invasione del Kuwait. Ma simili paragoni non sono del tutto esatti. A differenza dei suoi precursori americani del diciannovesimo secolo, non risulta che Saddam Hussein abbia temuto che il sistema dello schiavismo in Iraq potesse essere minacciato da un vicino stato, o che avesse dichiarato pubblicamente la necessità che gli 'imbecilli' abitanti di quel paese dovessero 'essere eliminati' così da permettere la realizzazione della 'grande missione di popolare il Medioriente con una nobile razza' irachena, mettendo 'i destini della razza umana nelle mani' dei conquistatori. E perfino le fantasie più scatenate non potevano attribuire a Saddam un potenziale controllo sul petrolio pari a quello che gli espansionisti americani della metà dell'800 volevano avere sulla più importante materia prima dell'epoca, il cotone. Sono tante le lezioni che si possono imparare da quella storia così celebrata dagli intellettuali.


Note:

N. 25. Miller, "Founding Finaglers". Keay, "Honorable Company", p. 185. Per la Virginia vedi Jennings, "Invasion"; "Empire" (p. 447) sulla guerra batteriologica, dietro ordine della "massima autorità in America, il capo di Stato Maggiore Amherst" a Fort Pitt. Anche Stannard, "American Holocaust", p. 335n.
N. 26. Saxton, "Rise and Fall", p. 41. Mannix e Cowley, "Black Cargoes", p. 274. Alfred Rubin, "Who Isn't Cooperating on Libyan Terrorists?", "Christian Science Monitor", 5 febbraio 1992.
N. 27. Bailey, "Diplomatic History", p. 163.
N. 28. Drinnon, "Facing West", p. 65, 43; White Savage, p. 157, 169-71. Vedi anche 'The Metaphysics of Empire-Building', m.s, Bucknell, 1972. Jennings, "Invasion", p. 60, 149n.n.
N. 29. Chomsky, "Turning the Tide", p. 87 (per Theodore Roosevelt), p. 126 (per Churchill; per ulteriori dettagli, Chomsky, "Deterring Democracy", p. 182n. Omissi, "Air Power", p. 160). Stannard, "American Holocaust", p. 134 (per Theodore Roosevelt). Kiernan, "European Empires", p. 200 (per Lloyd George). Su Bush come erede di Theodore Roosevelt, vedi John Aloysius Farrell, "Boston Globe Magazine", 31 marzo 1991, e molta altra retorica fascista-razzista dell'epoca. Per un campione dalla stampa liberal, vedi i miei articoli su "Z Magazine", maggio 1991, e Peters, "Collateral Damage". Per l'Indocina, Chomsky, "American Power and the New Mandarins", cap. 3, nota 42.
N. 30. Petkins, "Monroe Doctrine", 1, p. 131, 167, 176n. Vedi Chomsky, "Turning the Tide", p. 69.
N. 31. Morris, "American Revolution", p. 57, 47. Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 1.3. Vedi anche Jan Carew, "Monthly Review", luglio-agosto 1992.
N. 32. Sulla guerra civile e l'esodo dei profughi, vedi Chomsky, "Political Economy and Human Rights", parte 2, 2.2. Morris, "Forging", 12n.n. Sull'episodio della "Caroline", comunemente menzionato nelle discussioni sulla Carta dell'Onu, citato dal professore di giurisprudenza Detlev Vagts, 'Reconsidering the Invasion of Panama', "Reconstruction", 1.2, 1990.
N. 33. Lawrence Kaplan, "Diplomatic History", estate 1992.
N. 34. Appleby, "Capitalism", 1n.
N. 35. Hietala, "Manifest Design". Horsman, "Race". Su Fredonia, vedi Drinnon, "White Savage", p. 192, 201-221; enfasi degli autori. Emerson viene citato in Clarence Karier, 'The Educational Legacy of War', m.s., Università dell'Illinois, luglio 1992.


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