Archivio Web Noam Chomsky
Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE SECONDA.
I SOMMI PRINCIPI.


Capitolo 4.
DEMOCRAZIA E MERCATO.

2. IL VOLO DEL CALABRONE.

Non dobbiamo del resto dimenticare che in questi tempi di profonda corruzione intellettuale le dottrine economiche predicate dai padroni, come la democrazia ed i diritti umani, sono strumenti di potere applicabili solo agli altri, in modo che questi possano essere derubati e sfruttati più facilmente. Nessuna società benestante infatti accetterebbe di subire le stesse condizioni, tranne quando comportino un qualche beneficio temporaneo; la storia dell'economia del resto dimostra come proprio la non osservanza di quelle dottrine economiche sia stata una componente importante dello sviluppo di molti paesi industrializzati.

A partire dall'opera di Alexander Gerschenkron negli anni '50, gli storici dell'economia hanno largamente riconosciuto che lo 'sviluppo tardivo' dipende in gran parte dall'intervento dello stato. Il Giappone ed i paesi confinanti di nuova industrializzazione ne sono un classico esempio. In una importante ricerca, 24 autorevoli economisti giapponesi ricordano la decisione presa nel secondo dopoguerra dal Ministero del Commercio Estero e dell'Industria ("Miti") di non seguire le teorie economiche imperanti e di dare alla burocrazia statale "un ruolo preminente nella formazione della politica industriale", "in un sistema piuttosto simile all'organizzazione della burocrazia economica dei paesi socialisti". Ogni settore dell'industria ha un proprio ufficio governativo che opera "in stretto collegamento" con l'associazione degli industriali. Barriere protezioniste, sussidi e concessioni fiscali, controlli finanziari ed una serie di altri mezzi furono impiegati per superare quei problemi del mercato che avrebbero impedito lo sviluppo. Rifiutando le dottrine dominanti, il "Miti" stabilì che "l'autosufficienza a lungo termine del Giappone sarebbe stata rallentata, o persino ostacolata, se questo si fosse concentrato sul suo apparente vantaggio relativo nei settori ad alta concentrazione di manodopera". Secondo gli economisti sarebbe stata proprio la sfida radicale ai precetti economici dominanti ad aprire la strada al miracolo giapponese. Gli specialisti occidentali la pensano allo stesso modo e Chalmers Johnson sostiene a questo riguardo che il Giappone potrebbe definirsi come "l'unica nazione comunista funzionante".

Alcuni hanno suggerito - per scherzo, ma non del tutto - che l'appoggio giapponese alla "Brookings Institution" e ad altri sponsor delle dottrine economiche ufficiali intenderebbe in realtà rafforzare la credibilità della teoria classica a tutto danno dei concorrenti di Tokyo (3).
Lo stesso vale per i paesi di nuova industrializzazione vicini al Giappone.

Nella sua importante ricerca sullo sviluppo economico della Corea del Sud, Alice Amsden cita fattori quali la distribuzione della terra, differenziali tra salari e stipendi equi per gli standard occidentali, l'intervento pubblico su modello giapponese al fine di "alterare i prezzi e stimolare gli investimenti ed i commerci", una forte disciplina del lavoro ma anche, sorprendentemente, del capitale attraverso "limitazioni sui prezzi, controlli sui trasferimenti dei profitti ed incentivi che subordinano la diversificazione in nuove industrie ai risultati ottenuti in quelle precedenti". Più o meno lo stesso è avvenuto, secondo Amsden, negli altri paesi dell'Asia Orientale. L'economista Stephen Smith inoltre sostiene che i dati relativi alla crescita legata alle esportazioni contraddicono la 'nuova ortodossia' neoliberista. Il successo di quelle economie si sarebbe basato "su politiche di intervento nel commercio e nell'industria" che intenzionalmente hanno modificato gli stimoli di mercato facendo prevalere "gli obiettivi di sviluppo a lungo termine sui vantaggi relativi a breve scadenza". L'importante ricerca conclude che "i periodi di rapida espansione delle esportazioni sono quasi sempre preceduti da altri caratterizzati da una forte sostituzione [con prodotti nazionali, N.d.C.] di quelli importati" - una misura questa di intervento dello stato in violazione del mercato (Chenery, et al.). Il paragone tra il Brasile ed i paesi di nuova industrializzazione dell'Asia Orientale è molto significativo. Fino al 1980, essi si svilupparono parallelamente, adottando "politiche di intervento statale per l'industria e l'esportazione" alle quali si accompagnavano misure di sostituzione delle importazioni. Ma la crisi del debito costrinse il Brasile ad adottare la 'nuova ortodossia' del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, dando la precedenza "alla liberalizzazione degli scambi invece che agli obiettivi di crescita interna" e orientandosi, con tragiche conseguenze, all'esportazione delle materie prime. I paesi asiatici di nuova industrializzazione caratterizzati da un maggiore controllo statale sull'economia, bloccando la fuga di capitali e indirizzandoli invece verso gli investimenti, riuscirono ad evitare il disastro del mercato (4).

Nel frattempo la Cina, l'unico paese 'comunista' ad aver tenuto alla larga gli economisti occidentali, era rimasto anche l'unico ad avere un rapido sviluppo economico (insieme ad una dura repressione e nessuna pretesa di democrazia). "Un successo fenomenale sono state le 'imprese di città e di paese', per la maggior parte di proprietà di contadini", che "adesso producono quasi il 20% del P.N.L. cinese, dando lavoro a più di 100 milioni di persone", sostiene il corrispondente finanziario David Francis, citando un portavoce della Banca Mondiale secondo cui queste "continueranno a costituire la più dinamica forma di iniziativa economica sulla scena cinese".
Del resto anche il miracolo economico tedesco dal 1800 in poi non si basò certo sull'osservanza delle dottrine tradizionali. All'indomani della Seconda guerra mondiale il sistema economico della Germania Occidentale comprendeva elementi di 'corporativismo', nel senso di "una concertazione su vasta scala tra datori di lavoro ed i rappresentanti dei lavoratori nelle varie industrie, spesso avviata e alle volte seguita da vicino dallo stato" (Charles Meier). Anche se, come scrive Michael Huelshoff, non bisogna sottovalutare il ruolo delle istituzioni finanziarie centrali, le quali si sono sempre caratterizzate come un "elemento particolarmente importante dell'economia politica tedesca". E non a caso "l'incubo reaganiano dell'economia dell'offerta accompagnata da una sorta di militarismo keynesiano" con la sua "avventatezza fiscale e la rigidezza monetaria" sono state criticate con particolare durezza proprio in Germania (James Sperling). Anche economie più ridotte, ma vincenti, sono ricorse ad un forte intervento statale. Così l'Olanda si basò per la sua ricostruzione postbellica su Cartelli coordinati dal Ministero degli Affari Economici, regolando la produzione, le vendite, l'offerta, i prezzi, eccetera. Non certo tutti dei più di 400 cartelli che ancora operavano nel 1992 sopravviveranno alla Cee, ma il governo ha annunciato la sua intenzione di dare comunque 'via libera' a quei 'cartelli costruttivi' che 'proteggono' le società impegnate nel campo delle nuove tecnologie.

"Un fautore ortodosso del libero mercato definirebbe l'economia tedesca alla stregua di un calabrone, teoricamente incapace di volare", osserva l'"Economist" con perplessità, esaminando le molteplici deviazioni tedesche dall'ortodossia come ad esempio "la presenza negli organismi di controllo di lavoratori esperti e ben pagati", le "industrie giganti, di proprietà delle banche, non infastidite dagli azionisti, al sicuro dai predatori e incuranti dei profitti immediati", le tasse molto alte, "un welfare dalla culla alla tomba" ed altri peccati: "la risposta dell'economia tedesca a questa ricorrente caricatura sta nel suo volo".

Ma non basta a rimettere in discussione le dottrine dominanti.

Ad esempio non sembra affatto che i bassi salari siano stati un elemento determinante nello 'sviluppo tardivo' di tanti paesi, anche se possono essere attraenti per le multinazionali. "Né la Germania né gli Stati Uniti", ricorda Amsden, "si industrializzarono facendo concorrenza alla Gran Bretagna con bassi salari" e lo stesso valse per il Giappone che negli anni '20 insidiò il successo dei tessuti inglesi riuscendo a vendere a prezzi concorrenziali grazie alla modernizzazione degli impianti più che al mantenimento di bassi salari. In Germania, come nelle altre economie di successo, le condizioni di lavoro sono buone ed i salari relativamente alti. Una ricerca condotta dagli specialisti del "Mit" ("Massachussets Institute of Technology") sulla produttività industriale ha rilevato inoltre che la Germania, il Giappone ed altri paesi che hanno mantenuto una "tradizione artigianale", con una maggiore "partecipazione dei lavoratori specializzati alle decisioni sulla produzione", hanno avuto più successo nella storia dell'industria moderna rispetto agli Stati Uniti, con il loro "modello di produzione di massa" basato sulla manodopera non specializzata e sull'emarginazione degli operai da ogni processo decisionale. A questo proposito i ricercatori hanno rilevato come un certo miglioramento della produttività negli Stati Uniti si sia registrato grazie ad un allentamento delle gerarchie, alla concessione di una maggiore responsabilità nelle mani dei lavoratori e ad una loro qualificazione professionale nelle nuove tecnologie.

L'economista David Felix giunge a queste stesse conclusioni paragonando tra loro l'America Latina e l'Asia Orientale. I governi asiatici, che erano meno subordinati all'Europa ed agli Stati Uniti di quanto non fossero le élite latinoamericane, non hanno mai dato grande importanza ai beni di consumo stranieri e così hanno "permesso a vasti settori dell'artigianato locale di sopravvivere, di accumulare e di modernizzare la produzione" e dall'altra sono riusciti a limitare le importazioni con effetti positivi sulla bilancia dei pagamenti. La stessa Amsden attribuisce in parte il successo della Corea del Sud alla maggiore importanza data nelle fabbriche in materia di produzione alle iniziative dei lavoratori più che alle gerarchie manageriali (5).

Tuttavia, non è solo lo 'sviluppo tardivo' a dipendere essenzialmente dalle deviazioni dall'ortodossia economica capitalista. Lo stesso era avvenuto, come abbiamo già visto, agli 'albori dello sviluppo' inglese. E di quello statunitense: le alte tariffe protezioniste ed altre forme di intervento statale avranno anche aumentato i prezzi per i consumatori americani, ma hanno permesso lo sviluppo dell'industria locale, dal settore tessile a quello dell'acciaio e dei computer. Questo risultato è stato ottenuto vietando, nei primi anni dell'indipendenza degli Usa, l'importazione dei più economici prodotti inglesi e poi fornendo alle imprese un mercato garantito dallo stato con sussidi pubblici per la ricerca e lo sviluppo nei settori avanzati, creando e dando vita ad un'industria agricola ad alta concentrazione di capitale. Secondo lo storico dell'economia Mark Bils l'eliminazione delle tariffe doganali nella terza decade dell'800 avrebbe mandato in bancarotta "circa la metà del settore industriale del New England"

Vi furono sì nell'Inghilterra dell'800 alcuni esperimenti di non intervento statale sul mercato, ma furono presto abbandonati. Il libero scambio fu introdotto (selettivamente) ed abolito secondo le esigenze degli interessi dei potentati economici nazionali. Negli Usa, il settore economico privato regolarmente si rivolgeva allo stato per superare i suoi problemi, dando vita fin dal tardo '800 alle burocrazie statali e reclamando protezione e finanziamenti. Con gli anni '30, la fiducia nel funzionamento del capitalismo era praticamente scomparsa ed i paesi avanzati si mossero verso varie forme di sistemi economici integrati dallo stato. "Dovrebbe essere ovvio che dalla Seconda guerra mondiale le spese militari sono diventate la spina dorsale della nostra produzione di merci. Il budget della Difesa poteva essere, e così fu, impiegato per regolare sia la domanda aggregata che la disoccupazione e veniva modificato secondo le necessità del ciclo economico ed usato per raggiungere gli obiettivi di crescita... " (Richard Bartel). Il meccanismo delle spese militari durante la Seconda guerra mondiale aveva del resto convinto i dirigenti industriali della validità del modello keynesiano di intervento statale, e da allora essi non hanno avuto più dubbi sulla necessità che lo stato debba intervenire attivamente per proteggere e finanziare i ricchi ed i settori privilegiati, come è avvenuto in modo particolare durante gli anni di Reagan (6).

Il determinante contributo allo sviluppo industriale della 'mano visibile' - la pianificazione ed il coordinamento della produzione, l'analisi dei mercati, la ricerca e lo sviluppo - emerge chiaramente dagli studi di Alfred Chandler sull'imprenditoria privata degli ultimi 30 anni. Riassumendo ed ampliando l'opera di Chandler, di David Landes e di altri storici dello sviluppo, William Lazonick sostiene che il capitalismo industriale è passato attraverso tre fasi principali: il 'capitalismo proprietario' dell'Inghilterra dell'800, con le sue società a proprietà familiare ed un buon livello di regolazione del mercato; il 'capitalismo manageriale' degli Stati Uniti, con un 'coordinamento amministrativo' a livello di pianificazione e di organizzazione; ed il 'capitalismo collettivo' del modello giapponese, che permette una ancora più efficiente pianificazione e coordinamento a lungo termine. In ciascun caso, l'imprenditoria privata si è sempre appoggiata al potere dello stato, che essa, anche se in modi diversi, largamente controlla. Questi sistemi coordinati dall'interno e sostenuti dallo stato sono poi stati estesi a tutto il mondo dalle società multinazionali (7).

"La sostituzione delle importazioni [tramite l'intervento dello stato] è l'unico metodo finora escogitato per industrializzarsi", osserva l'economista dello sviluppo Lance Taylor. "Sui tempi lunghi, non ci sono transizioni basate sul "laissez faire" [al mercato, N.d.C.]. Lo stato è sempre intervenuto nel processo di formazione di una classe capitalista, trovandosi poi a doverla regolamentare, e quindi a doversi guardare dal non cadere nelle mani di quegli stessi capitalisti; in ogni caso è sempre esistito un forte protagonismo dello stato". Del resto l'intervento pubblico è sempre stato invocato da investitori ed imprenditori per proteggerli dalle forze distruttive del mercato, per assicurare i rifornimenti di materie prime, i mercati e le opportunità d'investimento, ed in generale per salvaguardare e aumentare i loro profitti ed il loro potere (8).

Con la scomparsa di ogni presunta minaccia esterna, Washington ricercò altri modi per poter continuare a sostenere le industrie avanzate del paese. Uno di questi sono le vendite di armi all'estero, che tra l'altro contribuiscono anche ad attenuare la crisi della bilancia dei pagamenti. Quando la guerra fredda giunse alla fine, l'amministrazione Bush da una parte creò un "Center for Defense Trade" con il compito di incentivare le vendite d'armi e dall'altra propose garanzie governative fino ad un miliardo di dollari, sotto forma di prestiti, per acquisti di prodotti bellici statunitensi. Si dice che la "Defense Security Assistance Agency" abbia mandato più di 900 ufficiali in circa 50 paesi per promuovere la vendita di armi Usa. I funzionari del Pentagono fanno risalire questa politica ad una direttiva del luglio del 1990 che ordinava alle ambasciate di assistere gli esportatori di armi americane; su questo sfondo la guerra del Golfo venne fortemente caratterizzata come uno strumento promozionale. Ad un incontro tra il Pentagono e le industrie belliche, nel maggio del 1991, queste ultime chiesero al governo di accollarsi i costi dell'equipaggiamento militare e del personale inviati ai saloni ed alle fiere in tutto il mondo al fine di incentivare le vendite di armi. Il Pentagono, ribaltando una politica seguita da oltre 25 anni, accolse questa richiesta. La prima dimostrazione pubblica di armi Usa finanziata dal contribuente americano ebbe luogo nel giugno del 1991, al Salone Aeronautico di Parigi.
Lawrence Korb della "Brookings Institution", ex vice segretario alla Difesa responsabile della logistica, ha recentemente sostenuto che, pur essendo finita la guerra fredda, le promesse di nuove forniture militari hanno contribuito a tenere alta la produzione delle industrie belliche, con un aumento delle vendite dai 12 miliardi di dollari del 1989 ai quasi 40 miliardi del 1991. Il leggero calo degli acquisti da parte dell'esercito americano è stato più che compensato dalle esportazioni delle società statunitensi private. Da quando "il presidente Bush ha chiesto, lo scorso maggio [1991], moderazione nelle vendite di armi nel Medioriente" scriveva nei primi mesi del 1992 il giornalista dell'"Associated Press" Barry Schweid, "gli Usa hanno esportato in quella regione armi per circa 6 miliardi di dollari", parte di quei 19 miliardi in materiali bellici che erano stati inviati in Medioriente dal giorno della invasione irachena del Kuwait. Le esportazioni di armi americane al Terzo Mondo dal 1989 al 1991 sono aumentate del 138%, facendo degli Usa di gran lunga il principale esportatore di armi. Tali vendite sarebbero state, secondo il portavoce del Dipartimento di Stato Richard Boucher, sin dal maggio del 1991 "in perfetta sintonia con l'iniziativa del Presidente e con le direttive" enunciate nel suo invito alla 'moderazione' - giusta osservazione se si considerano quali fossero le reali intenzioni del presidente americano.

L'appello alla 'moderazione' di Bush coincise significativamente con la celebrazione trionfale della guerra del Golfo, parte integrante di una campagna di pubbliche relazioni sulla nuova era di pace e tranquillità nella quale il mondo, grazie al valore del nostro grande leader, stava entrando. Il 6 febbraio del 1991, il segretario di Stato James Baker dichiarò alla Commissione Esteri della Camera che era giunto il momento di compiere passi concreti per bloccare il flusso di armi verso il Medioriente, "una zona che è già troppo militarizzata". Il 6 marzo, nel suo discorso di fronte ad una plaudente sessione congiunta del Congresso, il Presidente annunciò che il controllo delle vendite di armi sarebbe stato uno dei suoi principali obiettivi postbellici: "Sarebbe tragico se le nazioni del Medioriente e del Golfo Persico dovessero ora, subito dopo una guerra, iniziare una nuova corsa al riarmo".

Sottolineando quanto 'tragico' fosse tutto ciò l'Amministrazione, pochi giorni prima di quel discorso, aveva consegnato alla Commissione Esteri del Senato un elenco riservato di previste vendite di armi, più di metà delle quali destinate al Medioriente, il cui valore aveva superato ogni record; il Congresso venne poi informato di una vendita all'Egitto di ultramoderni aerei da combattimento per 1,6 miliardi di dollari e, una settimana dopo il discorso, dell'invio negli Emirati Arabi Uniti di elicotteri Apache per un valore di 760 milioni di dollari. In seguito, il Pentagono colse l'occasione del Salone Aeronautico di Parigi di quell'anno per un lancio promozionale senza precedenti, nel corso del quale mise in mostra con orgoglio (e speranza) i prodotti che avevano così magnificamente distrutto un paese indifeso del Terzo Mondo. Il segretario della Difesa Cheney quindi rese noti nuovi trasferimenti di armi ad Israele e piani per immagazzinarvi materiali bellici per un valore di 200 milioni di dollari; nel luglio del 1991 vennero annunciate ulteriori vendite di armi, dirette soprattutto verso il Medioriente, per un valore di circa 7 miliardi di dollari.

La Gran Bretagna seguì la stessa strada. La Cina fu allora l'unico paese esportatore di armi a chiedere di stabilire dei limiti alla vendita di materiali bellici al Medioriente, una proposta che non fu neppure presa in considerazione dagli Usa e dai loro alleati (9).

Le iniziative di keynesismo militare non si sono limitate al fornire il sostegno dei contribuenti (alla ricerca ed allo sviluppo di questo settore) e a mantenere un mercato garantito dallo stato. Come rileva William Hartung, mentre gli Usa "sono molto indietro rispetto a paesi come il Giappone e la Germania nella spesa pro capite per gli aiuti all'estero", circa un terzo della relativa voce di bilancio "è destinata a finanziamenti diretti o a prestiti in favore di governi stranieri per l'acquisto di equipaggiamenti militari Usa"; altri programmi 'di aiuti' si propongono lo stesso obiettivo.

Considerazioni di questo tipo, tuttavia, non devono oscurare il ruolo fondamentale del Pentagono (incluse la Nasa ed il Dipartimento dell'Energia) nell'esistenza e sviluppo dell'industria ad alta tecnologia, così come l'intervento statale è determinante nel campo della biotecnologia, dell'industria farmaceutica ed agricola, e di gran parte dei settori più competitivi dell'economia. La stessa amministrazione Reagan, contrariamente a quanto teorizzato, elevò le barriere protezionistiche e compì numerosi interventi per sostenere banche ed industrie in crisi e, più in generale, per rafforzare il potere delle grandi imprese americane.

Secondo le regole del Fondo Monetario Internazionale, gli Stati Uniti, dopo un decennio di follie reaganiane, sarebbero un candidato ideale al quale imporre severe misure di austerità; ma questi sono troppo potenti per sottomettersi a quelle regole, concepite per i paesi più deboli.
Come abbiamo già visto, la Banca Mondiale ritiene che le misure protezioniste dei paesi industrializzati - che procedono di pari passo con la retorica del libero mercato - sottraggono al reddito del Sud una cifra pari al doppio di quel che questi riceve sotto forma di 'assistenza allo sviluppo'. Ciò al di là del fatto che gli 'aiuti' possano rivelarsi dannosi o meno per quei paesi e che, generalmente, si tratta di una forma di promozione delle esportazioni del Nord.

Un esempio in proposito è il progetto "Food for Peace" (Cibo per la Pace) che aveva l'obiettivo di finanziare l'industria agricola Usa, indurre gli altri paesi a "diventare dipendenti da noi per il loro sostentamento" (senatore Hubert Humphrey) e promuovere il 'sistema della sicurezza internazionale' che mantiene l'ordine nel Terzo Mondo, costringendo i governi locali ad usare una pari quantità di fondi per l'acquisto di armamenti (finanziando in tal modo anche i produttori americani di armi).

Un caso ancor più significativo è il Piano Marshall. Il suo obiettivo era di "evitare 'il caos economico, sociale e politico' in Europa, contenere il comunismo (intendendo con questo non l'intervento sovietico ma il successo dei partiti comunisti nazionali), impedire il collasso delle esportazioni americane, realizzare il multilateralismo" e dare un importante stimolo economico "all'iniziativa individuale e all'imprenditoria privata sia nel continente che negli Stati Uniti". Tutto ciò seminando la paura nei confronti di "esperimenti di imprenditoria socialista e di intervento governativo nell'economia" che avrebbero "minacciato l'iniziativa privata" anche negli Stati Uniti (Michael Hogan, nella sua importante ricerca accademica). Come osservò nel 1984 il Dipartimento del Commercio dell'amministrazione Reagan, il Piano Marshall "creò le premesse per massicci investimenti privati Usa in Europa", gettando le basi delle moderne multinazionali. Queste ultime "prosperarono e si ingrandirono grazie alle commesse d'oltreoceano... stimolate inizialmente dai dollari del Piano Marshall" ed erano protette nel caso di "sviluppi negativi" dall'"ombrello della potenza americana", scriveva il "Business Week" nel 1975, lamentandosi della possibile scomparsa di quell'epoca d'oro dell'intervento statale.

L'assistenza ad Israele, all'Egitto ed alla Turchia, i maggiori destinatari di aiuti negli ultimi anni, è determinata del resto dalla loro importanza nel mantenimento del dominio americano in Medioriente, area di grande interesse per le sue enormi riserve petrolifere (10).

L'utilità del libero scambio come arma contro i poveri è testimoniata da uno studio della Banca Mondiale sul riscaldamento della Terra, destinato a "creare un consenso generale tra gli economisti" (appartenenti al club dei ricchi) alla vigilia della Conferenza di Rio del giugno del 1992. Le conclusioni della ricerca vennero riportate in un lungo articolo di Silvia Nasar, corrispondente economica del "New York Times", sotto il titolo "Il capitalismo può salvare l'ozono?" (suggerendo chiaramente una risposta positiva). Qui lo studioso di Harvard Lawrence Summers, importante economista della Banca Mondiale, spiegava che i problemi ambientali del mondo sono in gran parte "conseguenza di politiche distorte basate su grette considerazioni economiche", portate avanti in particolare dai paesi poveri che "stanno praticamente regalando il petrolio, il carbone ed il gas naturale alle popolazioni locali nella speranza di stimolare l'industria e di mantenere bassi il costo della vita per i lavoratori delle città" (Nasar). Se i governi dei paesi poveri avessero il coraggio di resistere alle "fortissime pressioni per un miglioramento delle condizioni economiche" e per allontanare lo spettro della fame, i problemi ambientali diminuirebbero. "La creazione del libero mercato in Russia e negli altri paesi poveri potrebbe contribuire a rallentare il riscaldamento della Terra più di qualsiasi misura che i paesi ricchi potrebbero adottare negli anni '90", conclude la Banca Mondiale - giustamente, visto che i ricchi sicuramente non seguiranno politiche che potrebbero nuocere ai loro interessi. In via subordinata gli economisti del consenso ammettono che "leggi più efficaci" potrebbero ridurre l'inquinamento, ma evidentemente lo sfruttamento dei poveri è più conveniente.

La stessa pagina economica del "New York Times" conteneva un trafiletto su un promemoria segreto della Banca Mondiale fatto arrivare all'"Economist". L'autore è lo stesso Lawrence Summers il quale scrive: "Detto tra noi, la Banca Mondiale non dovrebbe forse incoraggiare "ulteriormente" lo spostamento delle industrie inquinanti verso il [Terzo Mondo]?". Si tratta di una proposta ragionevole, spiega Summers: per esempio, una sostanza cancerogena avrà maggiori incidenze "in un paese in cui la gente sopravvive fino a contrarre il cancro della prostata che in uno dove la mortalità dei bambini minori di cinque anni è di 200 su mille". I paesi poveri sono ""sotto"-inquinati" ed è ragionevole quindi incoraggiare 'le industrie sporche' a spostarsi in quelle regioni. "La logica economica che spinge a scaricare dei rifiuti tossici in un paese con bassissimi salari è impeccabile e dovremmo trarne le dovute conseguenze". Di sicuro vi sono delle "ragioni contrarie all'ipotesi" di esportare l'inquinamento nel Terzo Mondo come "il diritto a godere di certe merci, considerazioni di ordine morale o sociale, mancanza di mercati adeguati, eccetera". Ma queste ragioni hanno un difetto di fondo: potrebbero "essere rovesciate ed usate in modo più o meno efficace contro qualsiasi proposta di liberalizzazione della Banca [Mondiale]".

"Il signor Summers pone delle domande che la Banca Mondiale preferirebbe ignorare", scrive l'"Economist", ma "per quanto riguarda gli aspetti economici, è difficile contestare le sue argomentazioni". Proprio vero. Di fronte a queste possiamo scegliere di considerare il suo ragionamento come una "reductio ad absurdum" tralasciandone gli aspetti ideologici, oppure accettarne le conclusioni: in base alla razionalità economica, i paesi ricchi dovrebbero esportare l'inquinamento verso il Terzo Mondo, il quale a sua volta dovrebbe ridurre i suoi tentativi 'sbagliati' di promuovere lo sviluppo economico e di proteggere la popolazione dal disastro. Così, il capitalismo può superare la crisi ambientale. Il capitalismo del libero mercato è davvero uno strumento meraviglioso. Sicuramente dovrebbero esserci due premi Nobel per l'Economia all'anno, non uno solo.

Criticato per il suo promemoria, Summers disse che in realtà con le sue proposte aveva "voluto provocare un dibattito" - in un'altra occasione ha affermato che si trattava di una "risposta sarcastica" ad un documento della Banca Mondiale. Probabilmente lo stesso vale anche nel caso della ricerca sul riscaldamento della Terra che si proponeva di "creare un consenso generale tra gli economisti". Effettivamente, spesso è difficile capire quando i prodotti intellettuali degli esperti sono intesi seriamente e quando invece si tratta di un cinico sarcasmo. Ma coloro che sono soggetti a queste dottrine non possono prendersi il lusso di meditare su questo intrigante quesito (11).

Sebbene non sia applicabile alle nostre economie, "il libero scambio ha la sua utilità", osserva Arthur MacEwan in uno studio sui precedenti storici di uno sviluppo industriale e agricolo ottenuto tramite il protezionismo ed altre forme d'intervento statale: "Le nazioni più sviluppate possono utilizzare il libero scambio per estendere il loro potere ed il loro controllo sulle ricchezze mondiali, e le imprese possono utilizzarlo come un'arma contro i lavoratori.

Cosa ancor più importante, il libero scambio può limitare i tentativi di ridistribuire più equamente il reddito, svuotare i programmi sociali progressisti ed impedire alla gente il controllo democratico sulla propria vita economica". Viste queste premesse non stupisce affatto che i 'nuovi evangelisti' della teologia neoliberista abbiano avuto una vittoria schiacciante all'interno del sistema dottrinario dominante. Le prove di come, invece, alcuni paesi abbiano realizzato importanti successi nello sviluppo economico e quelle sulle conseguenze concrete della dottrina neoliberista sono scartate con il disprezzo che si meritano le seccature trascurabili. "L'attuazione del piano [di Dio]... costituisce la storia del mondo", spiegò Hegel. "Tutto ciò che non si armonizza con esso, è negativo, un'esistenza priva di valore" (12).


Note:

N. 3. Fitzgerald, "Between", citando Ryutaro Komiya, et al., "Industry Policy of Japan" (Tokyo, 1984; Academic press, 1988). Johnson, "National Interest", autunno 1989.
N. 4. Amsden, 'Diffusion of Development: the Late-Industrializing Model and Greater East Asia', A.E.A. Papers and Proceedings, 81.2, maggio 1991. Vedi in particolare "Asia's Next Giant". Smith, "Industrial Policy"; per le citazioni di Hollis Chenery, Sherman Robinson e Moises Syrquin, "Industrialization and Growth: A Comparative Study", Oxford, 1986. Per il Brasile, vedi cap. 7. Per paragoni, vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 7.7.
N. 5 Francis, "Christian Science Monitor", 14 maggio 1992. Amsden, op. cit. Huelshoff, Sperling, in Merkl, "Federal". Ronald van de Krol, "Financial Times", 28 sett. "Economist", 23 maggio 1992. Dertouzos et al., "Made in America". Felix, 'On Financial Blowups and Authoritarian Regimes in Latin America', in Jonathan Hartlyn e Samuel A. Morley, eds., "Latin American Political Economy" (Westview, 1986). Anche Lazonick, "Business Organization", p. 43. Ibid., per il ruolo delle banche nello sviluppo industriale tedesco. Gerschenkron, "Economic Backwardness". Per ulteriori discussioni vedi Landes, "Unbound".
N. 6. Bils, citato in Du Boff, "Accumulation", p. 56. Bartel, "Challenge", luglio-agosto 1992. Per l'argomento in generale vedi Du Boff. Brady, "Business", sugli anni '20 e '30. Una classica ricerca sull'abbandono del libero mercato è Polanyi, "Great Transformation". Per ulteriori riferimenti, vedi Chomsky, "Deterring Democracy", cap. 1, nota 19.
N. 7. Lazonick, "Business Organization".
N. 8. Taylor, "Dollars & Sense", novembre 1991.
N. 9. Steven Elliott-Gower, Assistant Director, Center for East-West Trade Policy, U. of Georgia, "New York Times News Service", 23 dicembre 1991. Jeffrey Smith, "Washington Post Weekly", 18-24 maggio. Korb, "Christian Science Monitor", 30 gennaio. Schweid, "Boston Globe", 15 febbraio 1992. Hartung, "World Policy Journal", primavera 1992. Secondo un rapporto del Congressional Research Service nel luglio 1992, gli ambiziosi piani non furono realizzati, con un calo delle vendite statunitensi nel 1991, malgrado gli Usa coprissero il 57% delle vendite di armi al Terzo Mondo. Robert Pear, "New York Times", 21 luglio 1992.
N. 10. Su "Food for Peace", vedi Chomsky, "Necessary Illusions", p. 363, e fonti citate, particolarmente Borden, "Pacific Alliance". Hogan, "Marshall Plan", p. 42-43, 45. Analisi del Dipartimento del Commercio, Wachtel, "Money Mandarins", 44n. "Business Week", 7 aprile 1975.
N. 11. Nasar, "New York Times", 7 febbraio. 'Furor on Memo at World Bank', "New York Times", 7 febbraio. Reuters and Peter Gosselin, "Boston Globe", 7 febbraio 1992. "Economist", 8, 15 febbraio (lettera di Summers), 1992.
N. 12. MacEwan, "Dollars & Sense", novembre 1991. Hegel, "Philosophy", p. 36.


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