guerriero
INCONTRO DEI POPOLI INDIGENI
D'AMERICA

Vicam, Sonora - Mexico. 11/14 Ottobre 2007

La Jornada – 13 ottobre 2007
"L'incontro c'è" - nonostante le manovre dei potenti per evitarlo - dicono in Vícam

Indigeni denunciano la spoliazione e l'umiliazione che vivono i loro popoli. Delegati di Stati Uniti, Canada, Messico, Centro e Sud-America, riuniti col proposito di capirsi

Hermann Bellinghausen - Inviato

Vícam, Sonora, 12 ottobre - Nelle parole di Don Félix Serdán, l'Incontro di Popoli Indigeni d'America è "bello". La sua allegria s'irradia oltre il suo corpo ogni giorno più breve. È qui il più vecchio ed il più piccolo. Per cui, il veterano lottatore jaramillista, zapatista dal 1994, è il più grande - nei vari sensi della parola - in questa riunione continentale, dove predominano i delegati giovani del nord, del centro e del sud d'America, ed è seduto tra i 1.500 presenti.

Contrasta col filosofico dispiacere di Don Juan Chávez che, con parola paziente e distanziata, all'ombra di una tettoia vicino ai binari della ferrovia, si lamenta della disinformazione, delle bugie e delle minacce del governo e dei media che distorcono quanto succede a Vícam. Ma come in una matrioska di paradossi che si contengono una dopo l'altra, il rappresentante purépecha si dichiara soddisfatto: "l'incontro c'è". Cioè, le falsità malintenzionate e le divisioni tra indigeni che programma e provoca il potere non sono riuscite ad impedire che questo conclave internazionale iniziasse. Riconosce che in alcuni momenti, il Congresso Nazionale Indigeno ha temuto che la sede dovesse cambiare. Erano pronti per questa eventualità.

"Impareremo a vivere"

Julio Sandoval, veterano dirigente dei triquis nell'esilio della Bassa California ed ex prigioniero politico, è alieno ai paradossi. In una pausa parla della dolorosa situazione del suo popolo, del rosario delle vili morti in cui sono incappati i suoi fratelli nelle lontane sierre di Oaxaca, che irradiano la diaspora triqui nel Distretto Federale, nella valle di San Quintín, nei campi di Sonora e degli Stati Uniti. E con soavi lacrime di pena, esclama convinto: "ma c'è soluzione. Parleremo e ci capiremo. Noi triquis impareremo a vivere".

Questi tre uomini che non sono nati ieri, citano molto bene le date e le coordinate delle lotte indigene in difesa della loro dignità, dei loro diritti e della libertà, la loro resistenza di secoli che guarda già l'albeggiare all'orizzonte di una vita differente, migliore, per le comunità del paese e del continente.

Tutto il pomeriggio di ieri, delegati e delegate del Canada hanno offerto eloquenti autoritratti dei loro popoli vilipesi e spogliati. Questa mattina l'hanno fatto i rappresentanti statunitensi e al pomeriggio il turno è di quelli del Centro e del Sud-America. Storie così diverse e pur così uguali, che sono venute ad incontrarsi nel bacino del fiume Yaqui, ad unire sopravvivenze e la determinazione a non perdere mai più le chiavi del futuro.

Nel Giorno della Razza proseguono le storie e le testimonianze dei popoli originari. Il dolore dei lakota e dei omaha, sloggiati a Nebraska dalle loro terre in Dakota, attraverso le voci di donne giovani che hanno sulle spalle uno scialle con stampato il viso di Leonard Peltier, leader indigeno che da 30 anni è in prigione, per più di un assassinio che non ha mai commesso, ed invece perché rappresenta una speranza per i suoi popoli. In lui s'identificano tutti i prigionieri politici degli Stati Uniti.

Storie che vogliono camminare insieme ed unire una nuova creazione miracolosa, quella dell'unione di tutti, al centenario prodigio della loro sopravvivenza che è la loro migliore invenzione fino ad oggi. La resistenza può essere un dolore ed anche un'opera d'arte aldilà della giustizia negata, dell'esproprio di fiumi, di laghi e di boschi sacri da parte di imprese minerarie o elettriche (come la Pacific, Gas and Electric), parte del "colonialismo energetico" che lamenta Estella de la Mañana, una ragazza achinawi che accusa il governo degli Stati Uniti di trasformare i loro laghi sacri in centri turistici.

Le briciole delle riserve convertite in casinò per bianchi, e che in Messico hanno avuto alleati e consumatori così importanti come l'ex-funzionaria foxista Xóchitl Gálvez, che è stata titolare della Commissione Nazionale per lo Sviluppo dei Popoli Indigeni (CDI) e come tale, "ingegnere" della corruzione e della divisione dei popoli dal Chiapas fino a Sonora e Coahuila.

Senza riferirsi direttamente a tutto ciò, Juan Chávez dice che la CDI ha ereditato dall'Istituto Nazionale Indigenista il ruolo di "peggior disgrazia", a lungo termine, per i popoli del paese. Corruzione, divisione, debilitazione, diseducazione, "integrazione" disintegrante. Clive, rappresentante diné, la nazione india più numerosa degli Stati Uniti, con una pannocchia di mais a colori tra le mani, è d'accordo con la rappresentante hopi nel disconoscere i "governi" indios creati dallo Stato per dividerli e per permettere la vendita "legale" dei loro territori. Per cui dichiara: "Noi disconosciamo il governo degli Stati Uniti".

Sono poi così differenti queste esperienze da quelle degli yoreme in Sonora, dai tzotziles in Chiapas o dai triquis e mixtecos in Oaxaca? Oggi stesso, El Imparcial di Hermosillo pubblica grandi foto del governatore Eduardo Bours "che parla chiamandoli per nome" ai suoi splendidi cavalli del suo vastissimo rancho, dove la giumenta Ángela l'ha buttato a terra da poco fratturandogli cinque costole. è che il mandatario si fa ritrarre col suo team di cavalli, affinché non si dica che non si riunisce col popolo che lavora.

In questo scenario, le tristi parole ottimiste di Juan Chávez e Julio Sandoval acquisiscono un senso quasi cosmico. "Quello che manca a noi triquis è la forza di correggerci, amarci ed unirci. Se Dio mi tiene ancora in vita, a questo voglio lavorare da ora in poi" - dice Sandoval tra sorrisi e lacrime contenute.

(tradotto dal Comitato Chiapas di Torino - www.ipsnet.it/chiapas)

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