Appunti
per una riflessione su economie indigene
ed economia capitalista
La teoria economica liberista nasce con l'idea che gli esseri umani abbiano una naturale propensione al commercio, alla massimizzazione dei guadagni e che l'agire economico degli individui muove da una "razionalità economica". L'economia diventa quindi una sorta di legge naturale. In altre parole quella che Adam Smith definiva la mano invisibile. Ma affinché l'individuo possa finalmente liberare tutte le sue potenzialità imprenditoriali occorreva liberare l'economia dai legami sociali e dal potere statale che, secondo i primi teorici, doveva semplicemente funzionare da garante nelle transazioni economiche. L'economia, pertanto, sarebbe governata da leggi naturali e la società industriale il risultato di una naturale ed inevitabile evoluzione della società.
Ma le operazioni economiche dovevano essere assolutamente svincolate dai rapporti sociali e da qualsiasi condizionamento di tipo morale o religioso. In altri termini inizia quel processo di autonomizzazione, di separazione della sfera economica dal tessuto sociale. Ma è falso affermare che la storia segua una direzione unica e che la società capitalistica è il naturale risultato di una evoluzione costante e universale. E' chiaro che ogni società per sopravvivere deve disporre di una qualche forma di economia, ma è l'economia di mercato ad essere una esperienza del tutto nuova, che non ha nessun precedente nel corso della storia dell'uomo. Uno dei suoi aspetti fondamentali è che tutta la produzione deve essere posta in vendita sul mercato e tutti i redditi devono derivare da questa vendita. Vi sono quindi mercati per le merci, per il lavoro, la moneta e la terra.
L'economia liberale ha, quindi, rappresentato una profonda frattura con le precedenti concezioni economiche: sia la terra che il lavoro furono trattati come se fossero prodotti in vendita, in altri termini vennero trasformati in merci. Il lavoro, fino ad allora parte integrante della vita, diventa un mezzo per guadagnarsi da vivere, separando il tempo di lavoro dal tempo di vita. In altre parole il lavoro concreto si è trasformato in quello che Marx ha definito "lavoro astratto". Nelle società indigene invece non esiste una separazione tra tempo di lavoro e tempo libero in quanto ritengono altrettanto seria la coltivazione dei campi, i festeggiamenti o la visita a parenti ed amici. Gli aborigeni australiani Yir Yront, ad esempio, non distinguono tra lavoro e gioco.

L'analisi delle società indigene attraverso gli strumenti concettuali della teoria economica liberale deforma la realtà. La terra viene trasformata in capitale, ogni scambio di prodotti diventa commercio e una ricompensa per un bene o servizio prestato si converte in interesse. Nelle società tradizionali, invece, è impossibile analizzare i fatti economici, compreso il rapporto con la terra, separatamente dalle istituzioni politiche, religiose e di parentela, in quanto l'economia è incorporata nella società e non la società nell'economia.
L'economia liberale non ha solo introdotto nuove leggi economiche, trasformando quelli che prima erano mercati isolati in un sistema di mercati autoregolati e assoggettando l'intero sistema sociale alle sue leggi, ma ha dato vita ad una nuova società. Uno dei momenti più importanti di questo processo fu la trasformazione del lavoro e della terra in merci, in grado quindi di poter essere acquistati e venduti all'interno del sistema dei mercati. In questo modo il lavoro, che è sinonimo di uomo, e la terra, che è sinonimo di natura - fino ad allora parte integrante dell'intero sistema sociale - sono stati consegnati alle leggi economiche. In altri termini possiamo dire che fino ad allora il sistema economico era "immerso" nel sistema dei rapporti sociali; con l'economia liberale, al contrario, sono i rapporti sociali ad essere immersi nel sistema economico e governati da questo (Polanyi). Tutto questo ha portato l'uomo occidentale ha definire i moventi delle sue azioni esclusivamente in termini economici e quindi ad una deformazione della percezione che aveva della natura, di se stesso e degli altri.
Ma se questi moventi economici come la massimizzazione individuale del guadagno, di cui parlano gli economisti, fossero innati nell'uomo, dovremmo considerare le società "indigene", nelle quali in genere sono assenti le spinte individuali all'accumulazione della ricchezza, come innaturali. "Questa forma di razionalità economica è il prodotto di una evoluzione storica particolare che caratterizza le società capitalistiche sviluppate dove il controllo e l'accumulazione del capitale costituiscono il punto strategico della competizione sociale" (M. Godelier).
Il capitalismo industriale si sarebbe imposto definitivamente, secondo alcuni storici, nel momento in cui avrebbe sottomesso le altre forme di razionalità. La razionalità economica avrebbe fatto tabula rasa di tutti gli altri valori "irrazionali" dal punto di vista economico, trasformando i rapporti tra gli individui in rapporti di denaro, tra le classi in rapporti di forza e infine quelli tra l'uomo e la natura in rapporti esclusivamente strumentali e di sfruttamento.
Secondo Habermas la razionalità economica è una forma particolare di razionalità "cognitivo-strumentale" che non solo viene applicata nei confronti di azioni alle quali è inapplicabile, ma arriva a "colonizzare" perfino il tessuto relazionale da cui dipende l'integrazione sociale, l'educazione e la socializzazione degli individui: "la modernizzazione capitalistica segue un modello in base al quale la razionalità cognitivo-strumentale, oltre che negli ambiti di economia e Stato, penetra in altri ambiti di vita strutturati in modo comunicativo e lì ottiene un primato a scapito della razionalità pratico-morale ed estetico-pratica, per cui si creano disturbi nella riproduzione simbolica del mondo vitale" (Habermas).

L'invenzione dello "sviluppo".

Nel gennaio del 1949 Harry Truman, presidente degli Stati Uniti, in un discorso ufficiale aveva richiamato l'attenzione sulla condizione di povertà dei paesi del Sud del mondo, definiti "sottosviluppati". Le infinite diversità delle culture, dei gruppi etnici, dei sistemi sociali presenti sul globo venivano in questo modo omologati all'interno della nuova categoria di "sottosviluppati". Questa categoria esprime in modo estremamente chiaro il punto di vista dell'Occidente: tutti i popoli del mondo si muovono lungo una stessa direzione, alcuni più lentamente ed altri più in fretta, ma in ogni caso lungo la stessa linea evolutiva che vede nelle società capitalistiche avanzate l'apice dell'evoluzione. La nozione di sviluppo assume sempre più la dimensione di mito di fondazione delle società dell'Occidente, sottolineando il passaggio da un remoto passato di "sottosviluppo". Da questo momento le società del Terzo Mondo non vengono più definite con le caratteristiche che le sono proprie ma, in opposizione alle società occidentali, "sottosviluppate", in altri termini prive dei caratteri delle società industrializzate.
Il compito dell'Occidente consiste, dunque, nell'aiutare i paesi che si muovono più lentamente lungo questa linea evolutiva, creandovi le condizioni per la nascita di una economia di mercato, intesa come una economia diretta solamente dai prezzi di mercato. Per fare ciò si rende necessario modificare i sistemi di produzione, di vita e più in generale le culture tradizionali e indigene in quanto "ostacoli allo sviluppo". Ma è l'Occidente ad avere la necessità di un continuo sviluppo per sopravvivere, in quanto nella maggior parte dei casi le altre società si riproducono senza la necessità di aumentare continuamente la quantità di beni prodotti.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, quindi, gli esperti dello sviluppo volgono la loro attenzione nei confronti dei popoli "arretrati", considerati come il principale ostacolo sulla strada dello sviluppo per il raggiungimento degli obiettivi economici proposti da istituzioni come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario. "Lo sviluppo economico di un popolo sottosviluppato non è compatibile con la conservazione dei suoi usi e costumi tradizionali. La rottura con essi costituisce una condizione preliminare al progresso economico.......Bisogna provocare l'infelicità e la scontentezza, nel senso che bisogna sviluppare i desideri al di là di ciò che è disponibile, in ogni momento. Si può obiettare la sofferenza e la destabilizzazione che comporterà questo processo: esse sembrano costituire il prezzo da pagare per lo sviluppo economico" (J.L.Satie).
L'errore fondamentale degli economisti consiste nel far coincidere, secondo una sorta di uguaglianza, l'economia umana con l'economia di mercato. Ma a differenza della società occidentale, la realtà economica delle comunità tradizionali è costituita essenzialmente da unità produttive familiari e non da imprese d'affari. In queste società non dominate dal mercato, il lavoro e la terra non sono trattate come merce e la produzione in genere non è destinata alla vendita, se non in piccola parte. Mentre nella società capitalistica l'economia è totalmente separata dal sociale, nelle comunità indigene è del tutto immersa nel sistema sociale e culturale, di cui è parte integrante. L'attività economica, pertanto, non è strutturalmente differente dalle altre attività sociali.
Ma il tentativo di inserire le popolazioni native in una logica economica occidentale risale al periodo coloniale. Da una parte vi era la spinta moralizzatrice che intendeva diffondere i valori occidentali, molti dei quali avevano un contenuto prevalentemente economico, come l'etica del lavoro o la proprietà privata della terra. Dall'altra vi era l'esigenza di sfruttare le risorse delle colonie, soprattutto attraverso l'uso della manodopera indigena, che veniva costretta a lavorare, anche se queste popolazioni non erano affatto desiderose di lavorare per gli occidentali. Per superare questo problema si ricorreva spesso ai lavori forzati. Per fare solo alcuni esempi nella colonia olandese di Celebes, come pure in Africa e in America, gli indigeni dovevano sottostare a due mesi di lavori forzati all'anno. Questa corvée veniva considerata come una tassa giustificata dal fatto che non possedendo denaro potevano pagarla attraverso la forza lavoro. Nell'Africa Occidentale francese, con un decreto del 1926, ogni uomo aveva l'obbligo di lavorare per tre anni alla costruzione di strade, ferrovie e altri progetti di sviluppo. E così in molti altri paesi fino a quando il lavoro forzato non venne ufficialmente abolito dalla comunità mondiale nel 1957.
Nelle zone di produzione della gomma bande armate assaltavano i villaggi per rapire gli indios e costringerli a lavorare nelle piantagioni con il duplice scopo di ottenere manodopera ed "educare" gli indigeni all'etica del lavoro: "Non è strano dunque che esista la crudele pratica delle correrias che consiste nel sorprendere i membri di una tribù nelle loro case e farli prigionieri. I prigionieri vengono presi per essere portati in zone lontane a lavorare... Questo tipo di catechizzazzione ha il vantaggio di far sì che l'individuo abbia l'idea precisa dell'importanza che il suo lavoro riveste nel commercio dei popoli civilizzati... [sottolineatura mia] ...Nel nostro secolo, questa pratica è crudele e ferisce nel più profondo la nostra sensibilità; ma si deve riconoscere che essa fornisce alla civilizzazione uno straordinario e rapido aiuto". (Conferencia sobre la colonizacion de Loreto).
Nel periodo coloniale la violenza è stata uno degli strumenti principali per indurre le popolazioni indigene ad un cambiamento del loro sistema di vita in funzione delle esigenze occidentali, anche perché si è sempre ritenuto che la vita di un indios non valesse niente. In Chiapas era opinione comune tra i bianchi ed i "coletos", almeno fino alla rivolta del 1994, che la vita di un pollo valesse più di quella di un indios. Nel 1972 l'antropologo Bernar Arcand fu testimone diretto di un attacco armato ad un villaggio indigeno colombiano da parte dei coloni, durante il quale rimasero uccisi 15 indios. Durante il processo, che si concluse con un assoluzione, uno di questi assassini affermò candidamente: "non credevo che fosse illegale dato che erano indios".
Al giorno d'oggi si preferiscono i metodi messi in atto dagli esperi dello "sviluppo", meno visibili ma altrettanto efficaci e l'uso della violenza viene messo in atto quando questi sistemi non danno risultati. Il problema grave, oltre agli effetti distruttivi che in genere questi cambiamenti determinano, è rappresentato dal fatto che in questo modo vengono calpestati i fondamentali diritti dei popoli. E' scandaloso che ci siano dei "tecnici" che stabiliscano quali abitudini siano buone e quali cattive sulla base dell'utilità o meno che queste abitudini hanno in funzione dello sviluppo economico. Come afferma molto chiaramente Foster: "Gli esperti tecnici possono e debbono valutare le abitudini degli altri popoli e decidere quali dovrebbero essere modificate" (Foster, 1969).
Uno dei consigli degli esperti consiste nel provocare l'insoddisfazione tra gli individui in modo tale che si rendano conto delle loro "inumane" condizioni di vita e abbiano uno stimolo al cambiamento in direzione dei "nostri" modi di vita. Illuminante a questo proposito il punto di vista di Goodenough: " Il problema che gli agenti dello sviluppo devono affrontare, dunque, è quello di trovare i modi per stimolare negli altri il desiderio di cambiare, in modo tale da far loro pensare che il desiderio sia loro, indipendentemente dai suggerimenti provenienti dall'esterno. In altre parole il problema è quello di creare nell'altro una tale insoddisfazione per la sua condizione presente, da indurlo a desiderare di cambiarla." (Goodenough, 1963).
La grande attrazione della società industriale.

E' opinione diffusa tra gli esperti dello sviluppo, che le culture tradizionali vengono attratte e acculturate dalla civiltà industriale semplicemente perché il contatto con una cultura "superiore", quella occidentale nel caso specifico, spinge le popolazioni indigene a rifiutare la propria nella prospettiva di una vita migliore. Questa tesi etnocentrica ha radici lontane ed ha legami con l'antico e mai del tutto scomparso evoluzionismo. Anche in tempi recenti è stata riproposta, trasformandola in legge scientifica, come nel caso della "Legge della dominanza culturale", esposta da Kaplan nel 1960, secondo il quale "il sistema culturale che sa sfruttare le risorse energetiche di un altro ambiente, tenderà a propagarsi in quell'ambiente a danno dei sistemi meno efficaci". E' evidente come i concetti sottostanti questa "legge" siano di natura etnocentrica in quanto utilizzano due categorie tipiche occidentali: quella dello sfruttamento delle risorse naturali ad ogni costo e quella dell'efficacia o efficienza di un sistema culturale. In questo caso l'efficacia viene misurata in termini di quantità di risorse naturali che un sistema è in grado di sfruttare. Essendo la società industriale l'unica in grado di consumare risorse a ritmi vertiginosi è quindi superiore alle culture che non hanno come obiettivo la produzione crescente di beni di consumo. Gli esponenti della società dei consumi ritenendo sottosfruttate le risorse naturali di altre società si sentono, quindi, autorizzati a prenderne possesso in quanto società superiore.
Le economie occidentali basano i loro principi economici sul fatto che i consumi devono crescere sempre di più, è naturale quindi che si debba misurare lo "standard di vita" in termini di livelli di consumi materiale. Al contrario le economie tradizionali si basano sulla soddisfazione dei bisogni materiali e in genere vengono messi in atto tutta una serie di meccanismi sociali e culturali che impediscono pericolosi processi di accumulazione delle ricchezze, in quanto minerebbero l'equilibrio sociale. Quasi mai la ricchezza è alla base di una eventuale stratificazione sociale e le risorse naturali sono accessibili a tutti. Infatti una delle caratteristiche delle economie indigene consiste nella possibilità offerta a tutti di avere accesso alle materie prime ed alla terra.
Il consumo di massa e l'infinito desiderio degli uomini per un sempre maggior numero di beni non dipende affatto dalla presunta insaziabilità della natura umana. Già all'inizio del secolo gli economisti notarono che la maggior parte dei lavoratori negli Stati Uniti si limitava a lavorare il tempo necessario a guadagnare lo stretto necessario per soddisfare i bisogni primari e concedersi ben pochi lussi. In altre parole non erano dei consumatori.
Questo comportamento, presente anche negli altri paesi in via di industrializzazione, affondava le sue radici nel sano rifiuto di lavorare in fabbrica più dello stretto necessario e nella sobrietà dell'etica protestante che vedeva nella parsimonia e nel risparmio due virtù fondamentali. Quindi da una parte i lavoratori investivano nel lavoro solo quanto bastava per soddisfare i loro bisogni fondamentali; dall'altra chi disponeva di un certo reddito tendeva a non spendere in quanto legato all'etica protestante del risparmio.
Gli imprenditori e gli economisti capirono subito che occorreva convertire i lavoratori in consumatori rendendoli insoddisfatti della loro condizione. In altre parole occorreva trasformare gli americani in "consumatori insoddisfatti", affinché potessero desiderare sempre nuovi beni. Affermava Kettering della General Motors: "La chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell'insoddisfazione".
La limitazione dei bisogni è, quindi, incompatibile con lo sviluppo della "razionalità economica" la quale ha come presupposto la natura illimitata dei bisogni. Fu per questo motivo che i primi industriali trovarono enormi difficoltà nel far lavorare gli operai a tempo pieno: "Il maggior guadagno lo attirava meno del minor lavoro... Era dunque ovvio... ,poiché era fallito l'appello al desiderio di guadagno per mezzo di percentuali più alte, che lo si tentasse per la via inversa; costringendo cioè gli operai, mercé l'abbassamento delle tariffe dei cottimi, a produrre di più per mantenere intatto il loro guadagno"(Weber). Lo stesso problema si sarebbe presentato (e si presenta tuttora) nei confronti degli indigeni che venivano considerati pigri e indolenti perché non amavano lavorare per i bianchi.

Messico immaginario e Messico profondo.

Nel Messico prerivoluzionario sia i liberali che i conservatori erano d'accordo su un punto: la causa della grande arretratezza del paese era da ricercare nella sua gente, ossia negli indios e nei contadini meticci. I liberali vedevano in una guida esterna da parte degli USA la soluzione per uscire dalla crisi. I conservatori invece confidavano nella tradizione ispanica e cattolica e invocavano l'aiuto dell'Europa. Ambedue, in ogni caso, accusavano il popolo indigeno di essere il principale ostacolo alla modernità; di non essere quello che loro avrebbero voluto. In tutte le descrizioni dell'epoca veniva sempre posto l'accento su alcune "caratteristiche" degli indios: scarso desiderio di lavorare e, soprattutto, nessun desiderio ad avere di più. Evidentemente erano carenti di quella spinta "naturale" verso il progresso.
Erano inoltre carenti dell'amore per la nazione, sentimento fondamentale per la costruzione di un paese moderno, disinteressandosi totalmente per le vicende politiche del Messico. Ma "ogni indio appartiene ad una comunità ed ogni comunità, più che parte di un tutto è un piccolo mondo indipendente. La realtà locale degli indios non può integrarsi in un sentimento più vasto e unitario: sono molto patrioti, però la loro patria non è la nazione messicana"(Gonzalez y Gonzalez ). Per tutto il secolo scorso i fautori del progresso si sono impegnati nel trasformare l'indio in proletario, operaio, proprietario, borghese, lavoratore salariato o agricoltore indipendente.
Gli scritti di F. Pimental, nella seconda metà del secolo scorso, esprimono una sintesi dell'idea di Stato messicano che stava maturando. Secondo Pimental occorreva creare una nuova razza, che sarebbe stata la base per un superamento delle stratificazioni socio-razziali: la razza meticcia, frutto della fusione tra la razza bianca e quella indigena.
Ma la cosa fondamentale era, per Pimental, che l'indio avesse smesso di essere indio, altrimenti non si sarebbe mai avuta una nazione messicana. Benito Juarez, allora ministro della giustizia, ispirandosi a tale modello liberale espropriò tutte le terre comunali degli indigeni (1855-1857). Lo sforzo dello Stato per assimilare gli indigeni non è semplicemente la conseguenza di uno scontro tra culture diverse - almeno non in modo determinante - ma uno scontro di natura economica: tra i "primitivi" modi di produzione indigeni che non sfruttano le "ricche" risorse di cui dispongono, divenendo un ostacolo alla modernizzazione.
L'obiettivo dei liberali era la costruzione di una democrazia che fosse l'espressione politica moderna di una economia il cui motore fosse la legge del profitto in un regime di proprietà privata. In altri termini occorreva organizzare la vita sociale e politica intorno all'economia e non il contrario, come fino ad allora era stato.
Negli anni '50 il presidente Calles affermava che: "l'impegno di qualsiasi governo veramente nazionalista deve essere la creazione della piccola proprietà privata, convertendo i contadini in proprietari della terra che possono lavorare". L'ejidos doveva essere la prima tappa per realizzare il frazionamento delle grandi proprietà. "Gli ejidos, come proprietà collettiva degli indios, ... significa il primo passo verso la proprietà privata ..., deve essere una forma transitoria per preparare l'avvento della piccola proprietà [in quanto]... la proprietà della terra deve essere individuale".
Ejidos viene dal latino exitus che significa uscita. Con questa parola si definivano nel XVI secolo i terreni posti all'uscita dei villaggi, destinati al lavoro comunitario. Successivamente con questa parola si definirono genericamente gli spazi fisici e culturali nei quali vivevano gli indios e i contadini meticci. L'esistenza di questo spazio collettivo era intollerabile per i liberali in quanto si opponeva alla loro idea di paese moderno che esigeva individui dotati di una salda razionalità economica. "Martin Gonzales, governatore di Oaxaca, era convinto che l'opposizione da parte degli indios alla ripartizione della terra, dipendeva dalla loro mancanza di individualismo. Anche Maqueo Castellanos era convinto di questo e pensava che occorresse fomentare l'individualismo tra gli indios per cancellare il loro "socialismo imperfetto e assurdo" (G. Esteva).
Fu solo grazie alla pressione dei contadini in armi che fu riconosciuta ai popoli indigeni la proprietà collettiva della terra e pertanto la ricostituzione dei propri ejidos . Era in qualche modo il riconoscimento di una originaria proprietà della terra, anteriore alla costituzione della nazione.
Ma la classe dominante in Messico ha sempre negato qualsiasi diritto alla specificità culturale, prescindendo quindi dalla realtà sociale e culturale indigena, per costruire una nazione sul modello francese e inglese. E' quello che Bonfil Batalla ha definito Messico immaginario in contrapposizione alla realtà indigena del Messico profondo.
Il riconoscimento del diritto indigeno alla proprietà collettiva fu accettato solamente perché non avevano altra scelta. In altri termini fu una scelta momentanea, nella speranza di poter cambiare la situazione nel tempo e trasformare gli indios in "piccoli proprietari".
Infatti il patto sociale scaturito dalla rivoluzione del 1917 nei fatti non venne mai rispettato. Tra il 1916 e il 1920 furono ricostituiti 334 ejidos per un totale di soli 382 mila ettari, anche se veniva riconosciuto che la superficie delle terre occupata direttamente dai popoli indigeni era tra i 3 ed i 4 milioni di ettari. Per avere un idea delle proporzioni è sufficiente ricordare che la superficie delle terre occupate dai grandi proprietari terrieri ammontava a circa 113 milioni di ettari.
La spinta verso la trasformazione dell'economia contadina in una economia di mercato durò per tutti questi anni. Era necessario modernizzare il paese e l'agricoltura nel quadro di una economia di mercato affinché il Messico potesse entrare a pieno titolo tra quelli più industrializzati. Ma per fare questo, secondo le indicazioni degli Stati Uniti, occorreva ridurre il numero dei contadini a non più del 5% della popolazione attiva. L'attuale governo ha affermato che l'obiettivo di medio termine dei prossimi 10 anni sarà di portare la popolazione rurale a non più del 10%. "Per raggiungere questo obiettivo - affermò un alto funzionario della Secretaria de Agricoltura all'inizio del 1990 - è necessario togliere la gente dai campi, affinché ci restino solo produttori moderni". Alla domanda su che fine avrebbero fatto le migliaia di contadini espulsi da questo processo di modernizzazione rispose: "Questo non è di mia competenza".
Nel quadro di questo processo di "modernizzazione" diventa fondamentale la riforma dell'Art. 27 della Costituzione messicana il cui scopo è quello di cancellare definitivamente la proprietà collettiva della terra e trasformare i contadini in imprenditori con una logica di mercato. Tutto questo significherebbe la rottura definitiva del rapporto tra gli indigeni e la terra considerata come "la madre" e la sua trasformazione in mercanzia. Significherebbe anche la rottura con un sistema sociale che in ogni modo ha garantito la possibilità di vivere a tutti, proprio grazie alla terra. Il neoliberismo vorrebbe quindi ripulire la costituzione di quei "residui" che i costituenti del 1917 furono costretti ad inserire sotto la pressione degli eserciti contadini in armi. La riforma dell'art. 27 rappresenta la rottura finale della Nazione con i suoi popoli indigeni e contadini. La riforma dell'articolo rappresenta la rottura del patto sociale attraverso il quale era stata possibile l'unione: la terra.

II Incontro Intercontinentale
per l'Umanità contro il neoliberismo

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