FINE DEL LAVORO
O LAVORO SENZA FINE?

2^ trasmissione. a cura della redazione romana di "Vis-a'-vis"

seconda parte


Marina: abbiamo appena trasmesso la prima parte dell'intervista di Gabriele Polo. Su quanto appena esposto vanno fatte alcune considerazioni mirate a rendere conto in un'ottica piu' generale del quadro di riferimento storico-politico-sociale in cui vanno globalmente inquadrati gli anni della compiuta maturazione della ristrutturazione fordistico-taylorista in Italia e, soprattutto, quel vastissimo fenomeno di antagonismo operaio che ne caratterizzo'gli esiti estremi fino all'esplosione dell'autonomia di classe del biennio rosso 68/69. Sia le stesse domande da noi poste, inerenti specificatamente lo sviluppo del 'modello fordista' in Italia, che la schematizzazione indotta dai tempi stretti di una trasmissione radiofonica, non hanno infatti consentito al nostro interlocutore di esporre in modo esaurientemente compiuto tutte gli aspetti che intendevamo affrontare in questa prima tornata di trasmissioni. Anzitutto la periodizzazione: dal discorso di Gabriele potrebbe sembrare che lo sviluppo del modello fordista in generale, e quindi non del solo caso italiano, si sia dato a cavallo degli anni'60. Ripeto, probabilmente le domande da noi poste sono state svianti, ma, riprendendo le passate trasmissioni , occorre precisare che tale modello si sviluppo'prima negli Stati Uniti d'America nel primo decennio di questo secolo.....

Marco Melotti: In effetti mi sembra che la precisazione sia doverosa: Gabriele, evidentemente, nel suo intervento era mosso dalla necessita' di sintetizzare e di dare uno spaccato esemplificativo e forte dell'argomento.
La complessita' della specificita' italiana, come tu accennavi, deve essere analizzata in un contesto determinato e non puo' assurgere, per astrazione teorica, a modello esemplificativo dello sviluppo storico che il capitalismo si e' dato nell'arco di questo secolo. Gran parte delle questioni che Gabriele ha affrontato, riflettevano i grossi snodi che abbiamo riassunto nelle scorse trasmissioni: il primo sorgere dell'organizzazione del lavoro tayloro-fordista in America, luogo in cui questo fenomeno si dava le prime forme organiche, il suo modulo innovativo, la catena di montaggio, spina dorsale del produrre di questo secolo e l'uso della forza lavoro operaia applicata ad un tessuto macchinico concentrato in grandi ed estesi complessi-fabbrica. Al contempo bisogna pero'sempre sottolineare la diversificazione di sviluppo che ebbe il modello fordista lungo l'asse temporale, perche' altrimenti non ci si rende conto delle varie e polimorfiche manifestazioni che il capitale ha espresso di se' nell'arco di questo secolo. Se e'vero che in Italia, la maturita' di questo fenomeno si da' a cavallo degli anni'60, con tutto quello che ha comportato, cio'non significa che questa esperienza non fosse gia' maturata precedentemente in altre sedi: non bisogna infatti appiattire su un'univoca possibilita' di sviluppo le dinamiche di classe che tale modello innesca, ne' tanto meno il quadro generale che il capitale offre di se.....

Marina: che e'sempre un quadro molto variegato sia per la disomogeneita' di sviluppo del tessuto produttivo, del circuito della valorizzazione, che per le dinamiche conflittuali che di volta in volta si innestano a partire da questo......

Marco : ... si, e'un quadro in cui interagiscono sempre elementi che vanno di volta in volta specificati e che devono trovare una loro sede analitica, una loro puntuale definizione sul livello dell'astrazione teorica all'interno dell'indagine che si va ad articolare, altrimenti si perde il senso del divenire. Di fatto non si puo'appiattire tutto sulla semplice determinazione economica della struttura del produrre: la struttura della produzione materiale , per dirla nel vecchio modo a cui un certo 'comunismo' ci ha abituato, e'si fondantiva - supporto sostanziale che caratterizza di se' tutto il complesso della piramide sociale che su di essa converge e si innesca -, ma al contempo interagiscono, nelle dinamiche che soprassiedono alle determinazioni concrete che di volta in volta queste formazioni sociali si danno, fattori di estrema e variegata corposita'. Per cui non e'detto che quello stesso processo, attuato con oltre quarant'anni di anticipo in America, dovesse portare a maturazione gli stessi fenomeni che ha portato in Italia. Quando il conflitto esplose in Italia c'erano delle condizioni che hanno permesso, un circuito virtuoso per la dinamica di classe, dal nostro punto di vista evidentemente.....

Marina: non del capitale......

Marco : ..... per il capitale evidentemente molto vizioso, condizioni che hanno consentito quell'esplosione conflittuale. In America, paradossalmente, nello stesso momento in cui da noi l'operaio- massa scendeva in piazza su obiettivi che erano assolutamente ritagliati su uno spessore tutto politico e che ben poco attenevano direttamente alla sola materialita' concreta della sua realta' sociale, come ad esempio l'obiettivo dell'internazionalismo, tutto interno all'immaginario collettivo di quel soggetto di classe in quegli anni fino all'80 (ci ricordiamo che nell'80 c'era la faccia del Che sui cancelli della Fiat, che faceva parte di un patrimonio di coscienza, di consapevolezza politica che quel soggetto sociale esprimeva), in quello stesso momento, in America, quelle stesse tute blu che rappresentavano la medesima composizione tecnica di classe, sul piano della propria manifestazione politica erano completamente subordinate alla logica del capitale. Ricordiamo gli episodi dolorosi come lo scontro frontale fra il Movement radicale, che ha scosso l'America negli anni 60 dal '65 a Berkley fino al '68, il movimento studentesco, il fenomeno delle lotte antimperialiste cosė diffuse, radicate e laceranti nel tessuto sociale dell'America di quegli anni, e le tute blu che, per lo meno a livello della loro rappresentanza sindacale, avevano assunto piena consapevolezza del loro essere complici di un comando imperiale esercitato dall'America allora, stante la divisione fra il blocco occidentale e il blocco orientale sancita dal patto di Yalta. Queste tute blu, nelle loro rappresentanze sindacali, erano ben consapevoli che le quote di benessere elargitegli dallo stato sociale, erano dovute al dominio imperiale esercitato dall'America che consentiva un drenaggio di risorse verso la propria metropoli nazionale, le cui briciole venivano smistate anche a quelli che, in termini sociologici, vengono definiti ceti subalterni (quindi anche ai lavoratori salariati), che godevano dei banchetti imperiali che lor signori facevano sulla pelle del terzo mondo e che, in nome di quattro briciole, accettavano di compatibilizzarsi alla gestione globale del modo di produrre su cui si uniformava la nazione americana. Tutti coloro che invece si opponevano a questi meccanismi, come il movimento studentesco e il movimento pacifista, erano elementi di disturbo del patto sociale, implicito nei fatti, che la classe operaia, tramite le sue rappresentanze, aveva formulato nei confronti del dominio capitalistico.

Fabio: A partire da queste ultime considerazioni, penso che sia utile specificare alcune questioni. Anzitutto che non e' possibile risalire meccanicamente dalla composizione tecnica di classe tecnica alla sua corrispondente composizione politica, da una struttura produttiva con le sue specificazioni organizzative-tecnologiche ad un agire politico univocamente determinato. Questo e'vero tanto per cio'che riguarda il passato, quanto per il presente. Nel periodo fordista, come si diceva prima e nelle passate trasmissioni, abbiamo diverse espressioni di conflitto: un proletariato americano che negli anni 20 esprime forti livelli di autonomia e di conflittualita' e di antagonismo ma che successivamente, soprattutto con la crisi del '29 e successivamente con la guerra, viene 'pacificato', represso e successivamente, con l'instaurazione di una forma di compromesso sociale attraverso il Welfare state, integrato nell'ambito di un patto produttivo. Nello stesso periodo in Italia l'operaio massa esprime fortissima conflittualita'. Se questo e'vero per il fordismo credo che cio'debba essere rilevato anche per il cosiddetto 'postfordismo'. Non e'possibile, come spesso si fa, considerare l'operaio inserito nell'ambito della struttura tecnica e produttiva postfordista come un operaio assolutamente pacificato, incapace di esprimere qualsiasi conflittualita'. Mi pare che in questa descrizione ci sia l'assolutizzazione di un'esperienza, come quella giapponese, che, invece, si e' data in una situazione molto particolare. Per spiegarmi meglio: l'integrazione esistita negli anni '70 - '80 in Giappone, che faceva leva su elementi come l'impiego a vita, l'avanzamento di carriera secondo l'eta' in cui l'operaio stava in fabbrica, erano possibili in quanto esisteva un vantaggio competitivo del Giappone espressosi con la crescita del prodotto interno lordo, che negli anni '70 - '80 sono stati dello 0,5% e 1% superiori a quelli europei . Questo vantaggio competitivo consentiva, cosė come nell'America degli anni precedenti, un' integrazione attraverso l'elargimento delle briciole di una forma di imperialismo che consentiva un dominio a livello mondiale. Concludendo, ancora una volta bisogna ribadire che se vogliamo risalire da una struttura tecnica particolare del capitale a forme di conflittualita' e forme di coscienza politica, dobbiamo dar conto di una serie di condizioni che non sono date immediatamente nella struttura tecnica: bisogna considerare le condizioni mondiali e condizioni, che con un termine poco piacevole vengono definite sovrastrutturali, come quelle inerenti la formazione di un'immaginario collettivo, che c'e'e che fornisce elementi di coscienza politica e conflittualita'.

Alessio: mi sembra importante sottolineare come in realta' il capitale non adotti storicamente modalita' univoche nella gestione del rapporto con la forza lavoro univoca. Tu prima facevi riferimento all'esempio giapponese ed all'integrazione della classe operaia. E' anche vero che quella possibilita' di integrazione si e'fondata su di una sconfitta storica subita dal sindacato e dal movimento operaio giapponese: prima degli incentivi, dell'impiego a vita, delle garanzie che l'azienda dava al proprio dipendente, il movimento operaio e'passato attraverso una fortissima conflittualita' che e'stata sconfitta nel sangue. Gli anni 50 giapponesi sono stati caratterizzati da un vero e propri massacro in cui la polizia sparava sugli operai e durante i quali sono morti tra i maggiori esponenti sindacali. In questo senso e'bene sottolineare come il capitale adotti continuamente questa doppio sistema di repressione all'interno e all'esterno dei luoghi di lavoro e al tempo stesso cooptazione di alcuni settori operai.

Marco: bastone e carota......

Alessio: il che e'vero non solo per il caso giapponese, o per lo scenario attuale ma e'vero anche per il contesto di cui parlava Gabriele Polo. Quando ho fatto la domanda sul comando che il capitale ripristina sulla forza lavoro lui nella sua risposta ne dava un'accezione puramente repressiva. In realta' e'un ottica un po'troppo parziale, che quindi rischia di rendere scorretta l'analisi complessiva. Infatti dal un lato e' vero che il fordismo, e nel particolare la Fiat, si reggeva su questo apparato repressivo mastodontico all'interno della fabbrica , che andava ad indagare non soltanto sul lavoro dell'operaio, ma anche sulla sua vita privata (recentemente e'emerso quel patto stipulato gli anni scorsi tra Romiti e la prefettura e i servizi segreti) ...

Marco Melotti: come Henry Ford....

Alessio: .......come Henry Ford che mandava i propri dipendenti guardiani a casa degli operai a questionare sulle simpatie politiche come sul consumo di alcool, sulla vita sessuale.....

Marco : .....ci sono delle invarianti........

Alessio: ...... pero'dall'altro e'anche vero che alla base del progetto tayloriano e anche del progetto fordista c'era l'intenzione di coinvolgere, di cooptare grossi settori di dipendenti. La puntata scorsa abbiamo letto brani di Taylor che sono stati sicuramente poco esplorati scarsamente letti in questa fase: in realta' Taylor si proponeva esplicitamente l'obiettivo di coinvolgere la classe operaia, di arrivare ad una sorta di pensiero unico ante-litteram, non di istituzionalizzare ed ammettere una soggettivita' altra rispetto al capitale, ma rendere la forza lavoro, la classe operaia interna alla soggettivita' del capitale.

Marco : quella del capitale e'un'utopia organicistica......

Alessio: certo uniche le regole unici gli obiettivi, tutti si devono assoggettare. Mi viene in mente l'apologo di Menenio Agrippa, c'e'la testa lo stomaco e le gambe ed ognuno deve stare al suo posto perche'il corpo funzioni, guai se qualcuno vuole muoversi....

Marina: che poi e'la stessa filosofia che soprassiede al pensiero ohnista oggi. Ricordiamoci l'esempio che riporta Ohno a proposito dell'organizzazione del lavoro, sul gioco di squadra......

Alessio: si i principi sono quelli. In realta' questo dualismo, questa divaricazione tra il modellino fordista e il modellino postfordista per cui il primo sarebbe quello che porta in se il conflitto, che si fonda sulla sanzione e sulla istituzionalizzazione di due soggettivita' di due visioni complessive dell'insieme sociale, mentre il secondo su di un ottica monistica non piu' sul dispotismo di fabbrica ma attraverso incentivi e coinvolgimento dei dipendenti nell'ottica aziendale in realta' a guardare con attenzione questo modellino salta.

Fabio: anche in Fiat negli anni descritti da Gabriele Polo esistono degli esempi in questo senso....

Alessio: si perche'e'vero che l'operaio era sottoposto ad un controllo strettissimo da parte del capo squadra, caporeparto etc. pero'era inserito in quella che possiamo definire una "comunita'" di fabbrica. C'era l'intenzione e forse la neccessita' per il capitale e, nella fattispecie per la dirigenza Fiat, di coinvolgere la classe operaia di indurla a condividere le esigenze dell'impresa. Cio'avveniva garantendole una serie di vantaggi materiali, er cui l'operiaio aveva a disposizione le colonie in cui mandare in vacanza i figli, gli asili e addirittura una squadra di calcio, ricevere l'illustrato Fiat. Era una sorta di comunita' messa a disposizione dalla Fiat che riusciva in qualche modo a modellare la vita del lavoratore negli ambiti non direttamente produttivi, facendo sentire il piu' possibile il lavoratore un elemento fondamentale ed integrato nella vita aziendale; un mito organicistico che costituiva un aspetto portante nella gestione delle relazioni industriali da parte dell Fiat. A questo si affiancava poi il ricorso continuo al clientelismo e al paternalismo nei rapporti con i lavoratori, soprattutto da parte dei livelli piu' bassi della gerarchia (capisquadra e capireparto). Veniva cosė favorito lo scambio tra l'acquiescenza del lavoratore (consistente tanto nel sostenere tanto ritmi elevati o compiere mansioni faticose e ripetitive quanto nel non aderire a scioperi ed iniziative di lotta fino alla denuncia dei propri compagni di lavoro qualora sospettati di attivita' sindacale) e la concezione di piccoli privilegi quali, ad esempio, il lavorare in posti fuori linea o svolgere mansioni un po'meno nocive e faticose. C'era quindi la disponibilita', da parte dei capi, a chiudere qualche volta un ochhio di fronte a piccole irregolarita' del lavoratore, se cio'garantiva di ottenere prestazioni lavorative piu' efficienti e l'accettazione delle compatibilita' di fabbrica. Si trattava certo di una pratica informale e fortemente legata alle attitudini individuali dei capi, che pero', vista la sua estensione e diffusione all'interno dlela fabbrica, puo'tranquillamente essere definita una strategia. Un astrategia che e'riuscita per un lungo periodo ad imporre una forma individuale al rapporto che i lavoratori intessevano con l'impresa, scoraggiando iniziative collettive, tanto quelle spontanee, quanto quelle mediate dal sindacato, e quindi bloccando sul nascere ogni ipotesi pienamente conflittuale. Alla strategia ufficiale di costruzione di una comunita' di fabbrica si aggiungeva questa pratica diffusa ed informale ma non per questo meno efficace, sistematica e, se vogliamo, "scientifica". Risulta dunque molto schematico e forzato intendere il comando del capitale in un ottica puramente repressiva ed impositiva. C'e'questo visto anche assieme con l'intenzione la necessita' da parte del capitale di coinvolgere di cooptare la forza lavoro per lo meno in alcuni settori, questo ad esempio era l'intento di Ford quando lancio la politica degli alti salari, cioe' quello di selezionare un nucleo operaio interno alle logiche dell'azienda, di legarlo a se attraverso la garanzia degli alti salari, quando attuo'il contratto che prevedeva una paga di 5 dollari era quasi il doppio piu' alta della paga media.....

Marco : gli altri marginali.......

Alessio Mentre quelli produttivamente piu' efficienti alle esigenze del capitale.

Marina In diverse testimonianze, se non ricordo male, emerge il fatto che la 'vecchia'composizione operaia torinese veniva prescelta e messa dalla stessa Fiat negli anni '60 in quelli che erano i 'punti caldi' della produzione, oltre che servire da serbatoio per l'assunzione dei capi.........

Marco: quelli erano la cerniera del disciplinamento di fabbrica ai fini di una corresponsabilizzazione e non di una repressione.

Marina: Cerniera che poi e'saltata perchè, come anche Gabriele giustamente dopo metteva in evidenza, alla fin fine era la materialita' stessa dell'organizzazione del lavoro, che uniformando tutte le mansioni, ha consentito l'espressione di quella determinata composizione politica. Ma cio'sara' oggetto della nostra prossima trasmissione in cui si parlera' dell'autunno caldo, dove verra' mandata in onda la seconda parte dell'intervista a Gabriele Polo.

terza trasmissione "Il biennio rosso 1968-69"


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