FINE DEL LAVORO
O LAVORO SENZA FINE?

2^ trasmissione. a cura della redazione romana di "Vis-a'-vis"


Marina: Affronteremo nella trasmissione di oggi la Fiat degli anni'60, paradigma del fordismo maturo in Italia, insieme a Gabriele Polo. Premetto che l'intervento di Gabriele e'stato registrato mentre quelli che andranno in onda successivamente, sono in diretta. Tale 'assemblaggio', inevitabile sia per motivi tecnici che per l'assenza di uno degli interlocutori nella giornata di programmazione della trasmissione, ha determinato sfasature e ripetizioni. Ci interessa, anzitutto, stante la successiva discussione apertasi su quanto da Gabriele esposto, anticipire fin da ora una trasmissione, in riapertura del ciclo a settembre, in cui verranno ripresi i temi trattati.

IL FORDISMO MATURO IN ITALIA: LA FIAT NEGLI ANNI '60


Gabriele : Partiamo da alcuni dati. Negli anni '60 il modello fordista giunge a maturazione, arrivando al suo massimo livello di espansione e saturazione, dopo di cui seguira' un nuovo ciclo di ristrutturazione. Questo modello produttivo e'un'esasperazione del modello taylorista fondato su di una produzione di scala, di massa, con una tecnologia molto arretrata. Nelle fabbriche italiane degli anni'60 troviamo una tecnologia vecchia, importata dagli Stati Uniti: nella stessa Mirafiori ci sono molti macchinari arrivati in Italia con il piano Marshall.
Il sistema produttivo e' scandito su ritmi molto rigidi, le mansioni sono molto parcellizzate, ogni operaio fa sempre la stessa mansione, i tempi di produzione sono molto stretti (si va dai 10 secondi ai 2 minuti per ogni operaio). E' il tipico modello di un'economia di scala dove si deve produrre il piu' possibile. Per rendere piu' concreta questa descrizione cosė sommaria, daremo alcuni dati. Partiamo da Mirafiori, la fabbrica piu' grande del mondo negli anni '60, simbolo piu' evidente e chiaro della maturazione e della saturazione del fordismo-taylorismo in Italia. Alla fine degli anni '60 la Fiat e'un 'mostro'. Cito solo alcuni dati riportati nel libro 'Lavorare in Fiat' di Marco Revelli. Mirafiori ha 3 milioni di mq., meta' di questa superficie e'coperta, 37 porte di accesso, un perimetro di 10 km., una popolazione lavorativa che va dai 30.000 ai 60.000, una rete stradale interna di 22 km., una rete ferroviaria di 40 km., 8 locomotori, 130 vagoni , 40 km. di catene di montaggio, 223 km. di convogliatori aerei, 13 km. di gallerie sotterranee, 13.000 macchine utensili, una rete telefonica pari ad una citta' di 50.000 abitanti con 10.000 apparecchi telefonici e 667 km. di cavi, una capacita' di produzione elettrica che potrebbe illuminare una citta' come Trieste, una quantita' di carburante bruciata annualmente capace di riscaldare piu' di 20.000 alloggi. Mirafiori e'un vero e proprio mostro, un'enorme citta' nella citta', popolata da decine di migliaia di persone. Un mostro che, cresciuto in quegli anni, e'diventato qualcosa di incontrollabile. Da cio'poi la necessita' della ristrutturazione che vedremo successivamente. Un'altra cosa interessante, sempre rispetto alla Fiat, e'la crescita della quantita' degli occupati: a Mirafiori nel '52 ci sono 57.000 operai e nel '58 62.000. Tutto il gruppo Fiat, nello stesso periodo di tempo, passa da 50.000 unita' a 120.000 (?) operai. La cosa ancora piu' interessante e'l'aumento della capacita' produttiva (nel '60 si producono 430.000 vetture e nel '68 1.452.000) non scandito da interventi tecnologici (gli investimenti di capitale costante sono bassissimi), ma dall'aumento sia del numero dei dipendenti che del prodotto per dipendente.

Marina: Come senza l'introduzione di nuove macchine e' aumentata la produzione? Sono aumentate le linee? Qualcosa e' cambiato. La manodopera impiegata e' raddoppiata.....

Gabriele : C'e'stato un aumento di linee ed una parcellizzazione delle mansioni. Le mansioni sono sempre piu' semplici, gli uomini sono sempre piu' concentrati, piu' vicini gli uni agli altri e le linee produttive sono aumentate. Viviamo, infatti, un momento storico, quello conosciuto del 'boom economico', in cui il mercato interno era assolutamente in espansione. Questo vale per la Fiat, che ha praticamente il monopolio della produzione dell'automobile, ma anche per le altre fabbriche. Il ciclo produttivo italiano fino al '68 e' alimentato dalla spinta della ricostruzione del dopoguerra: c'e'un paese da ricostruire e, una volta costruite le infrastruttre e le strutture produttive, un mercato da saturare. Si apre l'epoca dei consumi di massa caratterizzato dall'aumento del numero dei produttori e del numero dei prodotti.

Alessio: Scusa un attimo Gabriele, noi abbiamo iniaziato a parlare di fordismo maturo e ci ritroviamo a parlare soltanto della Fiat. In che termini puo'essere considerata un paradigma del sistema produttivo italiano, e in che termini il sistema produttivo italiano puo'essere analizzato con le stesse categorie adottate per la Fiat?

Gabriele : Fino alla fine degli anni '60 penso proprio di si. Gli stessi cicli della chimica, delle manifatture tessili, della siderurgia seguono le stesse cadenze e la stessa fase espansiva. Mentre fino alla fine degli anni'60 il processo e'molto omogeneo, con gli anni '70 invece le cose cominciano a cambiare (il chimico va in crisi, ci sono le prime grandi ristrutturazioni). Dopo di che noi parliamo molto della Fiat perche'rappresenta, in quache modo, un modello puro. Se noi vogliamo analizzare una fase storica prendiamo ovviamente quello che e' l'esempio piu' classico, eclatante ed evidente su cui si possano fare studi e teorizzazioni. La Fiat in Italia rappresenta un modello estremo e non a caso il conflitto alla Fiat esplode in maniera estrema. Alla Fiat si passa dalla pacificazione assoluta, dall'impossibilita' del conflitto, a un conflitto esplosivo e radicale senza mediazione. Cio'e' determinato dal fatto che tale conflitto si plasma direttamente, immediatamente sull'organizzazione produttiva e sulla sua conseguente composizione di classe. Da questo punto di vista la Fiat e'un paradigma. Poi ,ovviamente, ci sono situazioni intermedie, fabbriche diverse, pero'il percorso fino alla fine degli anni '60 e'omogeneo per tutta la produzione industriale in Italia, di cui, appunto, la Fiat e'il paradigma. Volevo concludere l'elencazione di prima con il dato, forse il piu' interessante, che da l'idea di che cosa sia stato il taylorismo maturo in Italia, della produttivita' individuale: la produzione auto per dipendente alla Fiat, che alla fine degli anni '60 e'di 5,7 auto per dipendente, nel 68 e'di 9,16 auto per dipendente. Questo significa che c'e'un'intensificazione dei ritmi produttivi e una parcellizzazione delle mansioni assolutamente stravolgente che cambia la geografia interna della fabbrica e il fatto che una mansione possa essere svolta in un tempo che va dai dieci secondi ai 2 minuti ne rende l'idea. Ma c'e' un''altra cosa che dobbiamo tenere presente. Questo tipo di organizzazione del lavoro ha una qualita' di lavoro, il saper fare, molto bassa, come ha bassa la concentrazione di tecnologia e la struttura organizzativa. E' la stagione di quello che si chiama comunemente 'operaio massa'. Cio'permette l'immissione di grandi masse di immigrati dentro le fabbriche che immediatamente vengono allocate alla catena senza bisogno di alcuna formazione, se non quella dell'apprendere in pochi minuti quel determinato movimento. Un'altra cosa molto interessante di questa organizzazione del lavoro e'la sua rigidita' visibile sia nel nel movimento dei corpi (l'operaio e'bloccato alla sua postazione di lavoro), sia nella ripetitivita' delle mansioni. Cio'puo'variare da produzione a produzione. Per fare un esempio, in Fiat, gli operai delle meccaniche, che lavorano a macchine individuali, sono fermi alla loro macchina per tutte le loro otto ore, mentre quelli che lavorano alla catena di montaggio fanno piccoli movimenti. Ma anche chi sta in catena, quindi di fronte ad un corpo mobile, che passa e si muove mentre lui lavora, ha pochi metri di spazio per svolgere la propria mansione. Uno dei problemi, raccontato dagli stessi operai, portatore successivamente di numerosi conflitti, e'la difficolta' di riuscire a svolgere la propria mansione lavorativa in quel piccolo spazio di tempo e di metri: un operaio che doveva montare una portiera aveva un paio di metri di spazio per farlo e, se non lo faceva in quel paio di metri, si scontrava con l'operaio della stazione successiva. In termine di fabbrica si chiama 'imbarcarsi', spostare tutto in avanti. Questo comportava dei problemi che venivano affrontati dalla Fiat con un'altra delle caratteristiche fondamentali di quell'organizzazione del lavoro, la gerarchia interna che, alla fine degli anni '60 nelle fabbriche italiane e in particolare alla Fiat, raggiunge livelli impressionanti (un controllore ogni 15 operai) anche militare che fanno somigliare sempre di piu' le fabbriche a delle caserme. Se noi abbiamo una fabbrica molto rigida, che deve produrre moltissime merci, che lavora su di una economia di scala , quindi sulla quantita' di prodotto e non sulla qualita', con operai non professionalizzati, vincolati alla loro produzione, che devono svolgere sempre la stessa mansione in pochi minuti, che hanno come unica identificazione con l'azienda il salario, e'chiaro che tutto questo meccanismo funziona e non si blocca soltanto se c'e' un rigido controllo militare sulla forza lavoro. Da qui questa grande espansione dei cosidetti 'non produttivi' che sono i capi. (circa 6.000 persone). La catena gerarchica di quell'organizzazione del lavoro era cosė fatta: alla base c'era la squadra composta da 20/30 persone che lavorava su di un determinato pezzo nel processo produttivo, la squadra aveva come controllore il capo squadra affiancato da un vice che si chiamava operatore, sopra il caposquadra c'era il vice capofficina, poi il capofficina, poi il vice capofficina, il caporeparto, il capofabbrica, il capo stabilimento. Era una catena gerarchica enorme e tutto funzionava finche'c'era il silenzio operaio ottenuto attraverso sistemi di controllo rigidi e una disciplina pesante. Il problema principale delle lotte alla Fiat era quello di superare da un lato la paura del capo, le punizioni che questo poteva infliggere e dall'altro un'organizzazione del lavoro producente merci sempre uguali e non modificabili in corso d'opera. Quindi grandi economie di scala. Questo e'il quadro del taylorismo maturo degli anni '60: un corpo che si gonfia terribilmente premendo sul lavoro vivo con dei ritmi produttivi, prima descritti, che bloccano qualunque possibilita' non solo di organizzazione interna, ma anche di vita quotidiana. L'andare al bagno era un problema. L'operaio che lasciava la linea per andare al bagno veniva seguito dal caposquadra che controllava quanto tempo si fermava al bagno. Non c'erano le sostizioni, le pause, la possibilita' di trovare dei momenti di respiro. Tutto funzionava in un modo molto frenetico e veloce: il tempo, la rapidita' e la quantita' erano l'ossesione costante a cui gli operai erano sottoposti.

Marina: Sempre per chiarire meglio alcuni aspetti, tu parlavi di rigita' prima. Era l'impianto macchinico, la catena, che imponeva quella rigidita' e quella prestazione di lavoro?

Gabriele : La catena conteneva la rigidita' della prestazione di lavoro, era ed e'ancora l'organizzazione tecnica piu' adeguata ad una produzione che deve soddisfare un alto numero di richiesta di prodotti. Era la catena il tuo nemico. La mediazione tra te e il tuo nemico era il caposquadra che controllava il tempo. Certo la composizione organica del capitale conteneva in se' i tempi ed i ritmi del lavoro. La catena puo'andare piu' o meno veloce: pero'e' chiaro che se non va sufficientemente veloce non soddisfa l'economia di scala, non produce sufficiente valore aggiunto per ogni prodotto, e cio'era assolutamente incontrollabile per chi ci lavorava Questa non andava sempre allo stesso ritmo, cambiava velocita' ma non perche'la domanda fosse diversa (questa era posta sempre massima come obiettivo), ma perche'tutti gli inceppi che si creavano giorno dopo giorno in una produzione di questo genere, come la non corrispondenza dei pezzi, i problemi tecnici che sorgevano nella produzione che determinavano il rallentamento della catena, dovevano essere recupereti con l'intensificazione del ritmo. Se accadeva un incidente durante il processo produttivo che causava un rallentamento della produzione, si recuperava successivamente con una accellerazione dei ritmi. La catena, quindi, non era neutra: conteneva in se' un meccanismo di indipendenza da chi svolgeva la mansione produttiva che imponeva quei ritmi e quei tempi. Era in questo senso un organismo dispotico, estraneo ed ostile all'operaio. Pero'c'era chi, in qualche modo, quella catena la controllava e ne determinava i tempi. Per capirci, la differenza con l'oggi e' che allora bisognava comunque arrivare a dei livelli di saturazione attorno al 100% (il livello di saturazione e' un termine tecnico che sta ad indicare la massima prestazione di lavoro rispetto ad una determinata organizazzione tecnica del lavoro quindi il massimo sfruttamento degli impianti). Prima del '68 c'erano livelli di saturazione che arrivavano al 110% oltre al limite di saturazione previsto come massimo. Cio' si poggiava sul correre, sulla fatica operaia e sulla sua impossibilita' a sottrarsi a quei ritmi. Ora questa rigidita' aveva in se' anche la sua grande debolezza. Un'organizzazione del lavoro estremamente lineare, che parte da monte e arriva a valle passando attraverso tutte le stazioni, comporta un rischio: se si blocca una stazione si blocca tutto. Immaginiamo, ad esempio, la produzione di un'automobile: ci sono certi tipi di produzione, come il montaggio delle portiere, che possono essere fatti su piu' linee, due o tre linee che corrono contemporaneamente e vanno. Se se ne blocca una, il livello della produzione diminuisce, ma il ciclo continua. C'erano alcuni passaggi del processo produttivo che non erano cosė, degli imbuti in cui tutto il processo produttivo doveva passare e se si bloccava quello si fermava tutto. Uno di questi passaggi per il ciclo dell'automobile, era la postazione dove il telaio si congiungeva al motore, le famose fosse di convergenza, in cui tutte le vetture dovevano passare e dove c'erano un centinaio di addetti il cui un lavoro era faticossissimo (lavoravano per otto ore di seguito sempre a braccia alzate). Se si fermavano quei cento operai li si bloccava la fabbrica. Potete capire quanto era importante il contollo dispotico e militare della produzione.

Alessio: In sintesi possiamo dire che, tra l'altro, con molte analogie rispetto al presente, alla base della catena di montaggio nel sistema taylorista-fordista c'era la piena affermazione del comando del capitale sulla forza lavoro.

Gabriele: C'era un controllo totale del capitale sulla forza-lavoro attuato unicamente dal dispotismo aziendale senza altri livelli di coinvolgimento o tentativi di conquista di un ipotetico consenso attraverso la catena gerarchica che incarnava quel comando. E cio' era possibile anche perche' la qualita' del lavoro, e quindi la forza contrattuale dei lavoratori, era molto bassa grazie anche a quella parcellizzazione delle mansioniche rendeva ogni lavoratore sostituibile..

Marina: Descriviamo ora le caratteristiche di quella manodopera: chi erano i nuovi assunti, da dove venivano, come venivano scelti. Prima si parlava di un aumento spropositato di manodopera all'interno della Fiat di quegli anni...........

Gabriele : Negli anni '60 dal mezzogiorno d'Italia emigrarono al nord, nei centri industriali, oltre che alla Fiat di Torino, circa 5 milioni di persone. Cio'era determinato dalla situazione del mezzogiorno, molto simile a quella attuale. Queste persone arrivavano al nord a volte senza nessun tipo di impiego in tasca: emigravano cercando di trovare un lavoro, magari cominciavano a fare i muratori e solo dopo entravano in qualche fabbrica. Questa possibilita' di assumere degli ex contadini o degli ex disoccupati era determinata proprio da quel tipo di organizzazione del lavoro che non richiedeva a lavoratore particolari predisposizioni lavorative o cultura industriale. Queste persone venivano spesso assunte con sistemi di mediazione che passavano in parte tramite i partiti politici e in parte tramite le parrocchie. All'inizio degli anni '60, c'era una selezione, prima di tutto politica: venivano esclusi ovviamente i militanti dei partiti di sinistra e coloro sui cui le parrocchie non garantivano la cosidetta moralita'. Si preferiva prendere 'buoni cristiani', come veniva scritto nelle molte lettere di raccomandazione dei prelati delle parrocchie alla direzione dell'industria. Poi, però, mano mano che questo fenomeno si gonfiava, diventando quasi incontrolabile, questi filtri caddero: la necessita' e velocita' delle assunzioni era talmente alta che negli ultimi anni '60, alla vigilia del '68, la selezione era molto scarsa. Non c'era nessuna selezione a carattere tecnico come abbiamo gia' detto e quel poco di selezione politica veniva ancora garantita in parte dalle parrocchie e dai partiti politici. Ci sono casi curiosi di operai che partono dal loro paese in Sicilia con raccomandazioni della Cisnal piuttosto che del Msi che nel giro di poche settimane li troviamo alla testa dei cortei. Bisogna pensare che queste persone, questi emigrati meridionali si trovano sbattuti in una realta' assolutamente ostile che rifiutava la loro provenienza cultrale. A Torino i cartelli 'queste stanze non si affittano ai meridionali' se li ricordano tutti e, tra l'altro, sono molto simili a certi meccanismi di selezione etnica che oggi esistono ancora nelle stesse citta'. Venivano proprio rifiutati: si trovavano di fronte una cultura, cui non appartenevano, e una prestazione di lavoro che nemmeno immaginavano. La descizione dei primi giorni di lavoro di questi emigrati nelle grandi fabbriche del nord ricordano quelle bibliche dell'inferno. Queste persone si ritrovavano in un ambiente di cui nemmeno immaginavano l'esitenza, a contatto con una produzione che non conoscevano e con l'impossibilita' di comunicare con l'esterno. Fuori dalla fabbrica sono degli emarginati: in genere si ritrovano tra di loro in alcune piazze aggregandosi per provincie di provenienza e ricostruendo cosė la propria comunita' d'origine. In citta' li rifiutano e in fabbrica sono delle persone assolutamente sottoposte al dominio di quell'organizzazione del lavoro. E' interessante vedere come questo meccanismo di selezione politica quasi morale, un esame etico, verso la fine degli anni '60 sia andato in crisi proprio per far fronte alla domanda che il sistema aveva di forza-lavoro e come questo divento'uno dei motivi della crisi e dello scoppio dell'autunno caldo.

Alessio: Abbiamo visto questi operai provenienti dal meridione, privi di una qualsiasi cultura industriale e metropolitana, arrivare 'stranieri in patria' in queste grosse citta' del nord (a Torino vennero aperte le stazioni per dare un alloggio a queste masse di meridionali assunte alla Fiat). Questi erano diversi sul piano culturale, ancor prima che politico, rispetto all'operaio tradizionale, il classico operaio di mestiere della vecchia Fiat. Come entrano in rapporto fra di loro in Fiat, c'era un'ostilita' iniziale, che integrazione ebbero sul piano prima produttivo e poi successivamente su quello delle lotte delle mobilitazioni?

Gabriele : L'integrazione non c'e' immediatamente, anzi c'e' una grande difficolta' di comunicazione. Sul piano dell'organizzazione del lavoro venivano integrati immediatamente stante la parcelizzazione delle loro mansioni, che gli permetteva in pochi giorni di riuscire a produrre come qualunque altro operaio.

Marina: Anche i 'vecchi' avevano le stesse mansioni lavorative?

Gabriele : Il discorso dei vecchi e' un po'piu' complesso. La classe operaia del nord era rimasta ancorata ad un sistema produttivo in cui c'era l'operaio di mestiere che continuava a svolgere funzioni un po'piu' qualificate che variavano a seconda dei tipi di produzione. Una parte della classe operaia piemontese e lombarda rimaneva addetta a quelle produzioni, veniva impiegata in produzioni che richiedevano, seppure in minima parte, un certo tipo di qualificazione, mentre altri di questi diventarono i capi (i Fiat tutti i capi erano piemontesi e in certe situazioni produttive c'erano contrapposizioni tra le squadre dei reparti meridionali e tutti i capi che erano invece di origine sabauda). L'integrazione quindi non c'e'ra. Questo era molto visibile anche nel sindacato: non c'era comunicazione anche per lo stesso uso del linguaggio. Il sindacalista torinese parlava in piemontese e non riusciva a comunicare con gli immigrati, i quali non capivano proprio cosa dicesse. La difficolta' di comunicazioe tra l'operaio piemontese o lombardo e il nuovo operaio emigrato era enorme e questo era verificabile anche negli stessi pochi momenti di mobilitazione e attivismo sindacale che si ebbero. Emilio Pugno raccontava nelle sue memorie che, ad un certo punto della sua vita, ha dovuto imparare l'italiano altrimenti, abituato a parlare in piemontese alle assemblee, non sarebbe stato capito dai nuovi assunti. L'integrazione e' molto difficle, complicata riesce a emergere soltanto dopo le lotte del '68-'69. Prima in sostanza non c'e'. C'e' una condizione comune, ma non c'e' una capacita' di comunicazione perche' comunque anche nella classe operaia del nord permaneva una sorta di orgoglio, non dico di mestiere, perche' questo ormai non c'era piu', se non per poche persone, ma di appartenenza, di sentirsi classe operaia, gli eredi della tradizione del movimento operaio che guardava a questi nuovi venuti con un po di puzza sotto il naso. Un integrazione molto difficile. E' l'organizzazione del lavoro che produce questa unione, e' l'insopportabilita' del ciclo giunto ad una maturazione che non permetteva piu' di essere sopportato, che determina una necessaria unita' che pero'avra' delle diversita' al suo interno, corrispondenti all'organizzazione del lavoro e alla composizione tecnica del capitale nelle sue varie strutturazioni. Non a caso le lotte alla Fiat nel '68-'69 saranno diverse tra la carrozzeria e le meccaniche: la carrozzeria dove c'e' un tipo di produzione molto piu' standardizzata, molto piu' intensa,in cui non c'e' alcuna professionalita', e alle meccaniche dove c'e' un minimo di professionalita', i livelli sono piu' alti e c'e' una presenza maggiore di tradizione di mestiere. Questa diversita' e' visibile anche nello stesso modo di fare le lotte. Quelle della carrozzeria saranno molto piu' selvagge, spontanee, quelle delle meccaniche tenderanno sempre a organizzarsi in struttura sindacale. I primi delegati, che sono poi delegati eletti su scheda bianca, delegati di reparto e di squadra, nascono alle meccaniche non nascono alle carrozzerie dove l'organizzazione della lotta e' piu' conflittuale, dove chi dirige la lotta e' colui che riesce a bloccare il ciclo produttivo, quello che manda a quel paese il capo, dove per fare una lotta e' necessario un corteo interno che blocchi tutto ed imponga un altro tipo di forza rispetto a quella dispotica del padrone che si esercitava nella produzione. Alle meccaniche la cosa e' diversa. Queste due anime convivranno, in maniera anche contradditoria tra di loro, mantenendo una loro diversita'.

- continua... -


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