FINE DEL LAVORO
O LAVORO SENZA FINE?

3^ trasmissione: 'Il Biennio rosso 68-69''
a cura della redazione romana di "Vis-a'-vis"

seconda parte


Marco Melotti: Vorrei prima di tutto dire che il contributo di Gabriele e' importante e, come al solito, molto preciso, essendo Gabriele un compagno la cui storia e'stata in qualche modo intrecciata con le lotte di Torino. E' stato un quadro militante di quel percorso di lotta che per dieci anni ha spazzato la metropoli a partire dalla Fiat, che di quella metropoli costituiva l'intelaiatura oggettiva. Per quanto poi concerne l'analisi specifica che fa sono completamente d'accordo su quanto e'andato articolando nel suo discorso. Mi trovo soprattutto d'accordo con il suo breve scorcio di proiezione in avanti, fatto in chiusura dell'intervento, dove rapidamente prende in considerazione la societa' del capitale cosė come si e'andata strutturando dopo quest'ultimo quindicennio seguito alla sconfitta dell'80 in Fiat, e scaglia una freccia contro le teorie che prevedono, per dirla alla Fukuyama, 'la fine della storia', l'eternizzazione di questo presente determinato secondo gli assi del dominio di classe del capitale e l'impossibilita' che si possa riprodurre un percorso di conflittualita' dentro questo schema surdeterminato e funzionalizzato in modo definitivo alla logica del profitto e della valorizzazione capitalistica. Gabriele lė ha perfettamente ragione: questa e'ideologia, e'agiografia sul versante del capitale che inconsapevolmente molti compagni sono portati a fare perchè, non riuscendo a vedere quali sono state le reali valenze della sconfitta i cui effetti stiamo ancora scontando sulla nostra pelle (soprattutto la classe la sta scontando sulla sua pelle), sono portati a inchinarsi rispetto alle grandi sirene incantatrici dell'ideologia della classe dominante. Lui dice no: il capitale sta continuando a lavorare per noi (come dice Marx) continuando a rigenerare nel suo seno elementi di contraddizione oggettiva che lo porteranno prima o poi a fare i conti con l'insorgere di fenomeni di antagonismo e di conflittualita' che saranno portatori di opzioni strategiche antagonistiche alla sua perpetrazione come dominatore assoluto dei destini umani. Il Capitale lavora sotterraneamente, senza che noi ce ne avvediamo, alla sua negazione secondo processi carsici molto lenti stante il fatto che la ricomposizione della soggettivita' antagonistica dentro i rapporti di produzione nella contraddizione capitale-lavoro, e' ancora sommersa dai detriti dell'enorme disfatta del ciclo di lotte dei '60 '70, sconfitta che per adesso ancora non vede sorgere fenomeni di autodisvelamento. Sta a noi individuarne i percorsi sotterranei e saperne prefigurare le future manifestazioni.
Quello che mi interessa decifrare un po'meglio sono alcuni elementi di opacita' che nel discorso di Gabriele permangono, forse anche perche' e'stato stimolato da voi ad articolare l'intervento specificatamente sul 'luogo-fabbrica', dove, nell'ultimo ciclo di lotte, si condensava nella materialita' concreta di quella composizione tecnica di classe, la forza di quel soggetto collettivo che ha garantito l'anomalia italiana che, per un decennio e passa, ha saputo mettere in mora il dominio del capitale giungendone ad invalidare gli stessi meccanismi di valorizzazione, decurtandone i tassi di valorizzazione in percentuali massicce rispetto ai livelli di ripresa che il capitale e' riuscito a raggiungere dopo la sua vittoria a cavallo del decennio scorso. Mi sembra che ci siano dei livelli di opacita' nel senso che (ed e'lo stesso Gabriele che fa accenno alla possibilita' di essere accusato di vetero operaismo e vetero fabbrichismo) il suo intervento era forse eccessivamente ritagliato sullo specifico fabbrica, laddove la fabbrica era parte organica di un quadro piu' complessivo: e'si il luogo della produzione del capitale, un archetipo nell'immaginario collettivo, ma e' pur tuttavia inserita in un contesto sociale piu' ampio, variegato, in un reticolo di 'rapporti sociali di produzione', che soprassiedono alla produzione/riproduzione allargata del capitale e che, come diceva Marx, non estinguono se stessi soltanto nella fisicita' del luogo fabbrica, ma dilagano da tale ambito e investono tutto l'intero assetto costitutivo della piramide sociale. Il luogo fabbrica va analizzato secondo quei vettori che sono disegnati in modo limpido anche dall'ideologia fordista. Ford in questo fece un passo avanti rispetto a Taylor in quanto pretese di modellare l'intera societa' del capitale sui ritmi di vita della fabbrica, della grande concentrazione industriale, che lui aveva programmato nelle sue linee rigide.....

Marina: gia' presagiva la visione di una societa' organicistica, senza conflitto, come gia' accennavano nella scorsa trasmissione.....

Marco: E' la solita utopia del capitale: avere una classe finalmente subordinata e disciplinata e quindi totalmente funzionale ai meccanismi della valorizzazione. Fin da Ford si programmava, addirittura nell'ambito urbanistico, un reticolo di imbrigliamento dell'intero spazio territoriale per una societa' che si doveva uniformare alle dinamiche ed agli equilibri che erano poi solo decifrabili nel luogo fisico della fabbrica. Ecco, questo tipo di dimensione cosė organica della societa' del capitale, che dalla fabbrica si irradiava sull'intero territorio, fa si che non si possa studiare soltanto la fabbrica, il luogo fisico della fabbrica, anche se ci si riferisce ad anni in cui la fabbrica era stata nucleo centrale, individuabilissimo e trasparente dei processi di valorizzazione; ma che si debba invece estendere l'analisi abbracciando l'intero quadro generale, l'intero contesto storico sociale in cui quella fabbrica, quel modo di produrre, metteva al lavoro la forza operaia. Altrimenti non si capisce come possano subentrare punti epocali di frattura, fasi di scompensazione, di grosso smottamento degli equilibri costituiti degli assetti sociali, che altrimenti parrebbero determinati dal tocco di una bacchetta magica. Mi sembra invece che queste fasi di rottura, individuate in alcune teorizzazioni non remote, come i momenti della catastrofe, 'della frattura del tempo storico', per dirla alla Rene' Thom, sono momenti che andrebbero analizzati in modo attento in quanto una congerie di fattori afferiscono e contribuiscono alla determinazione di questi punti di svolta, di questi giri di boa che sono individuabili ex-post come momenti culmine dell'iter complessivo della storia umana. Interagisce strettamente il livello della struttura produttiva - cosė come era individuabile molto chiaramente e in modo forse troppo determinato e adesso ne paghiamo lo scotto di queste abitudini che avevamo in quella fase del fordismo - con, per dirla all'antica, il luogo della sovrastruttura, dove tutto allude alla relazionalita' complessiva che intorno all'atto del produrre si instaura nel ventre della societa'. Per dirla invece in modo piu' figlio delle ultime ondate contestative del '68 e del '77 (che ne fu il canto del cigno), l'interazione che esiste fra il livello dell'immaginario complessivo, il sentire comune del tempo, e il livello consolidato dei modi della produzione sociale. Questa diade va tenuta presente ed e' la stessa stretta connessione che viene fatta tra gli anni del biennio rosso '68 -'69 (perche'dire biennio rosso e non soltanto l'autunno 69 o il 68?) che svela la densita' di significati politico-analitici della loro unita' dialettica: non ci sarebbe stato il '69 operaio senza il '68 chiamiamolo studentesco-culturale, ne'il 68 avrebbe potuto irradiare ed informare l'intero decennio successivo, se non ci fosse stata la fondazione concreta del movimento del 68 nelle radici materiale di quella composizione tecnica di classe che nel 69 si espresse in modo uniforme ed omogeneo rispetto all'asse e alle valenze che il 68 di per se aveva gia' individuato. Le tematiche, che , non a caso, Gabriele rivendica all'autonomia operaia espressasi nel '69, della democrazia diretta, dell'antiautoritarismo, rimettevano in discussione interi assetti della propria esistenza quotidiana , non parzialita' di alcuni aspetti del proprio tempo di vita e, specificatamente, di quelli finalizzati alla propria riproduzione spesi nell'atto del produrre, sub specie salariale con la controparte padronale; essi non si estinguevano nella semplice rivendicazione di margini di salario reale piu' congrui, chiedendo invece 'tutto' laddove c'era la percezione di un'alterita' totale di se' come soggetto collettivo rispetto agli assi costitutivi della societa', e non solo della fabbrica. Qui scatta il circuito virtuoso tra il '68 'studentesco' e l'autunno caldo del '69. Non mi piace nemmeno troppo definirlo studentesco perche'se e'vero che anche in quel caso i luoghi fisici della riproduzione del sapere, le scuole e le universita', erano in qualche modo deputati oggettivamente alla coagulazione di quei fermenti, e' pur vero che il '68 di per se' aveva gia' saputo, non solo in Italia, debordare dagli argini dei luoghi in cui nasceva la configurazione di questo soggetto collettivo, fondamentalmente generazionale, e irradiarsi sull'intero contesto sociale. Ricordiamoci, ad esempio, il '68 francese che ha avuto una capacita' espansiva dentro gli assetti costitutivi nazionali fino ad arrivare ad infrangere i tabu' del mondo mediatico di stato. C'erano allora, nelle sale delle televisioni di Stato, interi collettivi autogestiti di giornalisti che mandavano in onda bollettini del telegiornale che sembravano bollettini di guerra. Uno guardava la televisione francese e sentiva appelli all'unita' d'azione, alla lotta, alla solidarieta'. Ecco questo e'un fenomeno che non puo'essere ricondotto alla specificita' dell'agire studentesco: lo studente era stato la spoletta della coagulazione di un sentire comune di massa che era diffuso sotterraneamente nel ventre sociale della societa' dominata dal capitale. Cio' era frutto di sedimenti, di processi che in tutto l'arco del dopoguerra si erano andati depositando nelle coscienze. Fenomeni grossi come quelli dell'eresia cinese, dell'anomalia cubana in un primo tempo (questi arrivavano addirittura, da un terreno non marxista, ad approdare alla rivoluzione per poi successivamente, per contingenze necessitanti rispetto alla propria sopravvivenza, arrivare ad abbracciare il patto di Yalta e la teologia moscocentrica), dell'ondata coloniale antimperialista, che ha avuto il suo apice nel Vietnam ma che era stata trasversale a tutte le lotte di liberazione in Africa, nel Medioriente, hanno infranto il sogno consociativo fra Mosca e Washington di poter mantenere per sempre una messa in mora della soggettivita' della gente all'interno degli schemi astratti della mediazione politica, avocata ai professionisti del potere della Casa bianca o del Cremlino, che sulla pelle di queste masse avevano firmato l'accordo perverso di Yalta dividendo le reciproche aree di influenza in modo netto e predeterminato e cogente per tutti i soggetti sociali dell'uno o dell'altro blocco. Speculare a questo consociativismo sancito da Yalta, era il consociativismo dei partiti comunisti che fecero di tutto, nel polo occidentale, per arginare ed interdire la ripresa di parola diretta da parte dei soggetti sociali. Le eresie mondiali cinesi, vietnamite, cubane e soprattutto il boom economico, contribuirono a cambiare il sentire comune della gente (qui parlo in termini interclassisti) che travalico'la cortina di silenzio che Yalta aveva preteso di imporre e che la grande guerra antinazista aveva sancito come patto perverso fra i detentori del potere capitalistico occidentale e i capi della chiesa moscovita (la chiesa separata d'oriente della chiesa capitalistica d'occidente, questo capitalismo di stato che, sotto mentite spoglie, ha perpetrato l'inganno perverso ai danni delle masse diseredate di tutto il mondo). A questo fenomeno di rottura degli schemi instaurati a Yalta contribuirono anche il '56 ungherese, le lotte di Berlino-est, le rivolte studentesche a Berkley del 65, le lotte per i diritti civile dei negri in America: movimenti di massa in cui si erano andate modificando le stesse forme autopercettive degli individui, in cui i soggetti sociali, riprendendosi la parola e la capacita' di sperare e di sognare un'alterita' di esistenza, erano finalmente giunti a proporsi come i soggetti di un progetto alternativo ad un esistente percepito come invivibile, gravato di balzelli e di tassi insopportabili per l'umanita' dolente, per tutti coloro cioe' (l'enorme maggioranza marxiana) che venivano bloccati nel loro 'sviluppo umano', pur in questo aumento forsennato di ricchezza che dava invece il segnale di una potenzialita' di liberazione globale, dall'alienante astrattezza del valore che interdiceva loro l'accesso ad un'autentica liberazione in chiave umana e non soltanto merceologica. Questo iato e'leggibile fin nei primi manifesti dei primi sentori di rivolta studentesca. Nel panphlet 'la miseria dell'ambiente studentesco' dei situazionisti, scritto durante le prime lotte di Strasburgo nella meta' degli anni '60, noi vediamo proprio questo tema: la contraddizione sempre piu' evidente e paradossale ed intollerabile, tra la ricchezza crescente e spropositata, privatizzata da infime minoranze 'nordico-occidentali' e la profonda miseria della quotidianita' che la gran massa della gente viveva. Si era creato, cosė, un cortocircuito virtuoso tra il livello della consapevolezza, della possibilita' di avere finalmente le rose e non solo il pane e invece l'interdizione di cui queste rose erano gravate rispetto alla possibilita' di riappropriarsene da parte dei soggetti sociali. Tutto questo confluisce in quel biennio in Italia. Il '68 e'stato un fenomeno internazionale: da Praga al Sudamerica, da Berkley a Budapest, Varsavia Londra Parigi e Tokyo. E' stata un ondata che ha investito tutti, trasversale a tutti gli steccati ideologici che pero'soltanto in Italia ha trovato modo di cortocircuitare con quella composizione tecnica di classe che sola poteva dare sedimento concreto e capacita' di permanenza, di egemonia, di fondazione materiale a questo movimento enorme universale di coscienze che invece, a livello mondiale muovendosi solo esclusivamente sul piano appunto delle coscienze e'deperito nello spazio di una stagione come un fuoco di paglia che ha divampato nelle praterie e poi si e'riarso. In Italia no. Il '68 ha trovato supporto, nello sforzo di autoperpetuazione, nella complessa articolazione concreta di classe che era la composizione tecnica dell'operaio massa e che proprio in quel cortocircuito di cui parlavamo prima, ha riverberato su di se' quei contenuti, li ha fatti propri fondandoli nella quotidianita' dello sfruttamento in fabbrica, dove c'era contiguita', solidarieta' tra i corpi operanti degli operai uniti nello sfruttamento compatto ed omogeneo che la catena fordista imprimeva ed imponeva loro nella sua oggettivita'. Cio'scateno'un processo di riverberazione enorme di antagonismo che si riappropriava, perche'li sentiva sostanzialmente omologhi, dei paradigmi del '68, andandoli a centrare nella contraddizione capitale-lavoro e quindi trasferendoli dall'astratto delle coscienze, del sentire comune, di questa sfera dell'immaginario, che ha capacita' di impatto enormi, ma che comunque non ha fondamenta materiali se non l'effimerita' di un quotidiano non fondato nella concretezza del conflitto capitale lavoro, nel luogo centrale del produrre, nel processo di valorizzazione, autentico tallone d'Achille del dominio capitalistico, che e' l'unico luogo dove si puo'scardinare ed esprimere un diritto di veto generale contro questo stato presente di cose. Dal luogo 'caldo' della produzione in cui prese corpo questo circuito virtuoso il movimento trasse la forza di protrarre la propria influenza dilagante, pervasiva e antagonistica fino alla fine degli anni 70. Questo andava detto e mi sembra un punto...

Marina: Si questo punto e' il cuore delle ultime tre trasmissioni: come avviene il passaggio dalla composizione tecnica alla composizione politica. Quali le condizioni, le modalita' e le possibilita' che permettono, ad un certo punto della storia, la formazione di un soggetto collettivo che, materialmente fondato, sia portatore di valenze antogonistiche allo stato di cose presenti. Non a caso questo e'stato l'argomento dibattuto in redazione nella scorsa trasmissione, come non a caso, seppure da angolazioni diverse ma non apposte , lo stesso Gabriele termina il suo intervento con l'annosa questione del soggetto.
Nelle prossime due trasmissioni, dedicate a Panzieri, all'esperienza dei 'Quaderni rossi'e all'inchiesta operaia, ci soffermeremo nuovamente sull'argomento, anche se tratteremo prevalentemente della contraddizione 'capitale-lavoro' e di come questa 'riscoperta' contraddizione, fondante i rapporti sociali di produzione, ruppe con la tradizione terzointernazionalistica della determinazione meccanicistica tra struttura-sovrastruttura e tra forze produttive e rapporti sociali di produzione. Ma sara' proprio tale rottura (visibilissima nel biennio rosso) che riformulera' il problema della soggettivita' della classe e delle sue organizzazioni sindacali e partitiche. Inoltre, con il massimo della modestia possibile, senza togliere nulla all'enorme valenza che ebbe, e non solo per noi, quell'esperienza cosė breve ma intensa , rivisiteremo quel percorso con alcune considerazioni che a nostro avviso emergono da una rilettura all'oggi dei 'Quaderni Rossi'. Con una battuta provocatorio, che pero'mi sembra riassuma in se'diversi elementi oggi di discussione, Panzieri andrebbe coniugato a Bloch (per poi ritornare a Marx ), l'inchiesta dovrebbe ampliare il proprio quadro di indagine, e il pensiero critico radicale della sinistra di classe dovrebbe riappropriarsi di un filone 'caldo' (cosė tra le altre cose lo descriveva lo stesso Bloch) che alluda anche alla sfera dell'immaginario per la riformulazione si di un'utopia 'concreta', di una prospettiva che sappia dare un senso al nostro agire quotidiano. Mi rendo conto che la provocazione e' grossa, me ne posso anche assumere tutte le responsabilita', ma credo che oggi questa sia la questione. Ma di cio'ne parleremo appunto nella seconda parte delle trasmissioni dedicate all'esperienza dei 'Quaderni rossi'.


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