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Strategie del controllo e dinamiche di sottrazione

[Contributi]

Parte seconda: I secondi '90 della comunicazione e dell'impresa visti attraverso la destrutturazione del socialismo reale e del socialismo democratico


Premessa.

Da qualche anno la spettacolare morte del comunismo -che come tutti gli
spettacoli allude anche a sorprendenti resurrezioni- ha tolto dalla scena
delle culture politiche in atto il protagonista di un secolo e mezzo di
rappresentazioni.
Del resto lo spettacolo della morte del comunismo, proprio perchè
esprimentesi nella società dello spettacolo è niente di più concreto.
Il comunismo ha fatto la fine della teologia al tempo dell'insorgenza dello
stato moderno: si è trovato in un mondo che è per lui munere alieno, dove
non trova spazio di applicazione politica  in ogni angolo del pianeta.
Dopo questa scomparsa, le parole d'ordine "più giusto", "più equo" prendono
il posto della giustizia e dell'eguaglianza  concepite ora come portato
idealistico di formazioni di pensiero cresciute e tramontate in antagonismo
con l'industrialismo ottocentesco e con la sua filiazione novecentesca, il
fordismo-taylorismo.
Così il problema della disintegrazione del capitalismo lascia il passo alle
esigenze di un "nuovo modello di sviluppo", quello dello studio delle
rotture possibili del sistema si è evaporato in favore della tendenza a
costruire modelli di razionalità per il governo. 
Insomma, il progressismo ha un campo di applicazione che ha inglobato anche
quello del vecchio compagno di strada.
Ma si tratta di un progressismo di tipo nuovo, non più convinto di essere
guida e anima della scienza ma continuamente costretto a riparametrarsi in
funzione delle rivoluzioni tecnologiche; non più artefice del
"miglioramento delle condizioni di vita" ma pensiero funzionale alle
necessità delle forme di vita generate dalla società dello spettacolo.
Ambiente nel quale, volente o nolente, si svolge la sua esistenza è poi
l'attuale scomparsa dei saperi politici dalla scena della società e la
riduzione del terreno della decisione politica di massa a quello
dell'automatismo amministrativo e della contesa elettorale e mediatica.
In fin dei conti, tra gli effetti della caduta del muro c'è la costituzione
dell'attuale pensiero progressista nel quale convergono sia coloro che
assumono il superamento, in senso costruttivo e pragmatico, di ogni
"ingenuità" di tipo comunista e coloro che, impressionati dalla portata
dell'89 e degli eventi successivi,  cercano un terreno fatto di "valori di
base" più coperto, di affermazione di diritti universali, in attesa di
tempi migliori.
Visto questo scenario quello che qui faremo, in relazione con la prima
parte degli appunti precedenti, è di scrivere delle  note sui nodi storici
che sono stati aperti dalla stagione politica successiva alla caduta del
muro. I piani di osservazione di questi nodi sono simili a quelli della
prima parte e riguardano quella zona di intreccio tra questioni politiche,
economiche e di sviluppo delle tecnologie della comunicazione che, a nostro
avviso, è l'asse privilegiato, inteso sul piano della prognosi storica, sul
quale si può costruire una teoria politica che non sia teoria sulla
autorefenzialità e sulla autospiegazione dei sistemi politici. L'angolatura
dell'osservazione di questo intreccio è però diversa da quella della prima
parte: qui, semplicemente a causa di una riflessione più datata su questi
temi, l'intreccio sarà osservato dal punto di vista delle mutazioni, dei
socialismi e delle politiche progressiste, causate dalla stagione della
caduta del muro ed oltre. Ma, proprio perché pensiamo che l'analisi dei
sistemi politici si possa dare in maniera da oltrepassare l'ostacolo
dell'autoreferenzialità allora queste mutazioni devono essere osservate
entro la prospettiva di che cosa ha contribuito a crearle agendo al di
fuori della prospettiva politica: il mondo dell'impresa, che deve le
proprie fortune a tutte le volte che ha fatto valere il No Admittance exept
on Business  -meglio se come principio di utilità sociale che la politica
deve solo registrare-e la sfera della comunicazione, che ha la dote di
produrre e far circolare contenuti e forme di socializzazione secondo
regole con i quali i sistemi politici debbono fare i conti.
Per questo l'osservazione della parabola storica dei socialismi e dei
progressismi, a nostro avviso, può produrre dei contenuti che guardino in
maniera non episodica alle relazioni di questi fenomeni con la sfera
dell'impresa e con quella della comunicazione.

1. Socialismo e impresa

E' sempre interessante chiarire di che cosa sia morto il comunismo nella
società dello spettacolo: di socialismo e di estremismo.
Ora, mentre il marxismo doveva sempre star attento a quei morbi
dell'intelligenza che giustamente Althusser indicava nell'umanismo e
nell'economicismo (ai quali va aggiunto il politicismo), il comunismo è
stato ucciso, sotto le telecamere puntate ad est e nel silenzio
dell'adattamento ad ovest, entro la statualizzazione burocratica e
autoritaria ad est nonchè dalle sue versioni "di governo" e
nell'insurrezionalismo gruppettaro sessantottesco ad ovest.
Tutti, da posizioni e da periodi storici differenti, hanno perso la
battaglia nei confronti di quel reticolato fatto di impresa, istituzione
politica, amministrazione che forma quell'ambiente che chiamiamo
capitalismo. Tutti, in maniere e con scopi molto diversi non ce l'hanno
fatta a mettere in difficoltà il fenomeno delle comunicazioni di massa
intrecciate alla produttività delle tecnoscienze che è la potenza di questo
ambiente e che ha permesso al capitale di uscire vittorioso dalle
convulsioni del fordismo e del welfarismo. Infine, i superstiti o gli eredi
di queste battaglie, di fronte allo spettacolo dell'alleanza tra
accumulazione neoliberista e media della generazione telematica, non
riescono che a predicare un sobrio adattamento alle nuove circostanze
magari mediato dalla scoperta delle virtù creative dell'impresa o dalle
gioie neofrancescane della solidarietà.
Ma che cosa ci insegnano le vicende del socialismo e dell'estremismo?
Cominciamo qui dal socialismo, visto all'inizio del '900 come ineluttabile
in Europa,  che è il gigantismo del "comunismo" realizzato ad est e la
razionalità della redistribuzione sistemica ad ovest. In entrambi si
compenetra, in forme diverse, la stabilizzazione della forma partito di
massa (con il proprio reticolato organizzativo e le proprie gerarchie) e le
esigenze della burocrazia amministrante una società.
Il socialismo di regime dell'est, forte della sua alleanza tra partito
(unico) e amministrazione estesa su tutti i gangli della società si fa
carico di quella produzione di ricchezza e di sapere che in occidente
spettavano all'impresa e alla sfera pubblica.
Il socialismo della razionalità della redistribuzione sistemica ad ovest
-laburismo, socialdemocrazia, piccismo- agisce invece accanto all'impresa:
media tra capitale e lavoro tramite il sindacato, fornisce la quota di
potere politico necessaria al funzionamento del parlamento e
dell'amministrazione, supplisce alle carenze dello stato tramite la
mobilitazione del partito.
Mentre il socialismo dell'ovest vive finchè é uno degli agenti della
accumulazione capitalistica -la mediazione tra capitale e lavoro genera sia
plusvalore che redistribuzione che vanno ad accrescere sia le condizioni di
riproduzione del capitale che quelle della forza lavoro- quello dell'est
viene fulminato dalla accumulazione capitalistica che stava cercando di
liberarsi proprio da quella società welfarista che era la precondizione di
esistenza del socialismo dell'ovest.
Così un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica -postfordista e
neoliberista a differenza del precedente che era fordista e welfarista- ha
dovuto fare tra le sue prime vittime proprio i socialismi.
Divenuti insostenibili il costo dello stato sociale e quello
dell'intervento dello stato nell'economia, a partire dalla fine degli anni
'70, il capitale finanziario chiude con il doversi ancorare alle sorti
economiche di questo o quello stato: la moneta comincia a circolare dove
ritiene opportuno, libera da tassazioni e da obblighi di investimento in
settori finanziariamente improduttivi.
Così, il circuito della mediazione tra capitale e lavoro che permetteva ad
ovest la contemporanea crescita delle condizioni di riproduzione del
capitale e del lavoro si rompe. Il capitale "produttivo" subisce sia la
concorrenza del capitale finanziario (ovvero si fanno più soldi con i soldi
che con la merce e quindi la moneta si incanala più facilmente nel mondo
finanziario che in quello della produzione) che la ridotta capacità di
produrre profitto, che è uno dei motivi per i quali il capitale finanziario
aveva ridotto il proprio intervento nel mondo produttivo.
La forza lavoro si trova a fare i conti con il declino dello stato sociale
-al quale vengono contemporaneamente a mancare sia le risorse provenienti
dalla sfera finanziaria, che un tempo lucrava prestando allo stato, che
quelle sottratte al capitale produttivo sotto forma di tassazione e
contributi- e con l'esigenza da parte del capitale produttivo di abbassare
il costo del lavoro per tornare a produrre ricchezza. Inoltre la forza
lavoro si trova a dover affrontare gli effetti dello sposalizio tra
espansione delle tecnologie e contrazione del saggio di profitto che ha
come condizione della propria durata proprio il risparmio sul costo del
lavoro sia, comprensibilmente, a livello di impresa che su un piano
macroeconomico dove l'aumento della produttività è una delle condizioni di
contenimento dell'inflazione.
La compressione del costo della forza lavoro, e di conseguenza della sua
rappresentanza politica e sindacale, diventa, in questo contesto,
un'esigenza del capitale produttivo all'interno dell'impresa, grazie anche
alle necessità del capitale finanziario, che però non avrà effetti sulla
sola impresa ma, sia ad ovest che ad est, si rovescerà sulle stesse
strutture dello stato e dell'amministrazione pubblica. 
I socialismi di fronte a questo ridefinirsi  del capitale e del lavoro nel
mondo dell'impresa saltano in aria. Il socialismo dell'est, mostruoso
blocco stato-partito, salta perchè la ristrutturazione ad ovest
dell'impresa -ente sconosciuto ad oriente- e del mercato finanziario
impongono un mercato mondiale dove i paesi socialisti pagano merci troppo
care per la loro capacità finanziaria e vendono merci fuori mercato per la
loro scarsa  penetrazione concorrenziale e per la nota obsolescenza
tecnologica.
Insomma, quando il dare e l'avere sono così distanti a favore del dare si
chiude. E l'est chiude ma chiude anche il socialismo dell'ovest, del quale
il welfare tedesco è oggi l'ultima seria roccaforte con segni, però, di
smantellamento (qui giova dire che attorno alla questione del welfare
tedesco si gioca tutta l'architettura dell'Ue e la struttura stessa
dell'euro e che un sostanziale suo mantenimento non significa affatto un
nuovo welfare per il resto dell'Europa).
Il socialismo, o se preferite il "socialismo", dell'ovest, italiano,
francese, inglese, lo stato sociale americano (vero elemento di socialismo
negli Usa) esplode anch'esso a causa delle mutazioni dell'impresa  nella
quale operava le sue fruttifere mediazioni. Espulso dalla possibilità di
metter voce sulla produzione di valore fattasi più esigua, seccamente
diminuita la sua influenza sullo stato a causa della restrizione delle
risorse del welfare, al socialismo dell'ovest non resta che la strada di
una più silenziosa ma non meno clamorosa chiusura.
Privatizzazioni, precarizzazione di massa del rapporto di lavoro, milioni
di disoccupati in contemporanea allo smantellamento di sussidi e assistenza
sociale, secca perdita del potere d'acquisto dei ceti medi e medio-bassi,
concentrazione del potere politico nelle elites amministrative e nei
ristretti cartelli elettorali: se la fine del socialismo dell'est è
concentrata nella data "magica" dell'ottantanove quella di quello
dell'ovest è di molto dilatata nel tempo ma non meno impressionante e porta
i segni di una profonda redistribuzione verso l'alto di ricchezze e poteri
tra Gran Bretagna, Stati Uniti e poi Francia, Italia etc... 
(nds: il liberismo russo è  stato un capolavoro di ferocia ma non è che nel
nord della Francia e della Gran Bretagna, nel centro-sud italiano e nei
ghetti Usa ci sia andati tanto leggeri...)
Entrambi i socialismi muoiono però dello stesso male, fermo restando che
c'è ancora il problema tedesco: la mutazione del modo di accumulazione
dell'impresa dovuta ai nuovi equilibri tra capitale produttivo e finanziario.
Entrambi sono incapaci di combattere l'impresa, ad est perchè non esisteva
e ad ovest perchè era un punto d'appoggio, ma entrambi sono capaci di
trasformarsi da socialismo di regime (est) o di governo (ovest) in ceti
politici al servizio della nuova fase di accumulazione.
Per esistere l'economia ha bisogno di un ceto politico che ne esaudisca le
esigenze? Chi meglio dei ceti politici rodati da decenni di politica come
professione può soddisfare alla bisogna?
La parabola della realizzazione del comunismo in socialismo di regime e
quella della giustizia sociale nel welfare si conclude così con una
massiccia adesione dei ceti politici sopravvissuti, e ristrutturati, alle
esigenze del neoliberismo che ha nella liquidazione planetaria di ogni
elemento di socialismo la sua ragion d'essere. 
Dalla Russia all'Ungheria, dall'Inghilterra fino al caso Italia è tutto un
proliferare di ceti politici ex socialisti d'oriente e d'occidente ognuno
originalmente convertitosi alle nuove esigenze del mercato e del mercato
della politica.


2. Socialismo, spettacolo e comunicazione.

Resta da definire che cosa voglia dire l'affermazione per la quale i
socialismi sono morti nella società dello spettacolo. Per quanto riguarda
il socialismo dell'est, l'immagine delle persone che sfondano il muro di
Berlino per prendere le merci, fino a quel momento ammirate solo nella
televisione dell'ovest, dovrebbe bastare a chiarire il rapporto tra fine
del socialismo e società dello spettacolo in quelle lande. 
Ma, se ci fermiamo a quell'immagine greve non si capisce il rapporto
strategico, per il capitalismo contemporaneo, tra mondo dell'impresa,
tecnologie politiche della comunicazione e riproduzione delle forme di
vita. E non si capisce nemmeno che la versione ovest del socialismo nelle
società del "benessere" non solo si appoggiava sull'impresa ma anche
sull'organizzazione complessiva della vita strutturata attraverso le
comunicazioni di massa della società dello spettacolo.
Per farla breve, la valorizzazione delle forme di vita che abbiano un modo
di svilupparsi compatibile con il capitalismo, perchè vogliose di
alimentarsi proprio delle sue ristrutturazioni, la fanno i media del
dopoguerra (radio, cinema, televisione). L'occupazione del desiderio da
parte della merce, la presa del potere dell'impresa sui corpi, la fornitura
dei saperi necessari a dirsi soggetto avvengono tutte tramite i media che
le diffondono quotidianamente e istantaneamente in ogni angolo del pianeta.
Fatto interessante è che tutto ciò non avviene per decisione occulta di un
comitato di saggi del capitalismo planetario ma entro un'alleanza, maturata
nel tempo, tra le esigenze della promozione dell'impresa, della
penetrazione dei media, della stabilizzazione della politica istituzionale
e della richiesta diffusa di tecnologie della comunicazione atte ad
alimentare processi di soggettivazione.
Senza tutto questo il capitale sarebbe mera imposizione di valore e di
comando, con tutto questo il capitale non è estrazione di profitto ma
assume la forma stessa della vita.
Inoltre è l'evoluzione stessa dell'impresa che assorbe le nuove tecnologie
della comunicazione: il problema dell'impresa, entro la dimensione delle
mutate condizioni di produzione di profitto, non è quindi solo quello di
"usare la tecnica per produrre di più". 
L'impresa si allea con le tecnologie della comunicazione per assumere un
nuovo ciclo di riproduzione di sè e di produzione di ricchezza: materie
prime -materiali o immateriali-, circolazione delle merci, penetrazione del
prodotto, immissione nei flussi finanziari, organizzazione del lavoro,
ricerca e innovazione; tutto viene filtrato attraverso le nuove tecnologie
della comunicazione (questo vale per la multinazionale come per la donna
delle pulizie, ditta individuale, dotata di telefonino come strumento di
immediata reperibilità sul lavoro e ricerca istantanea dei clienti).
La società dello spettacolo produce quindi quelle forme di vita che entrano
nella circolazione produttiva grazie alle tecnologie della comunicazione
delle diverse forme dell'impresa.
I socialismi del dopoguerra su questi temi assumono la posizione di quello
che Mc Luhan chiamava "l'idiota tecnologico": sono convinti che la verità
in quanto tale passi indisturbata e immutata da qualsiasi canale
comunicativo esistente: una volta evocata la verità, pensano i socialismi,
essa catturerà l'attenzione dei canali comunicativi pronti a trasmetterla o
a manipolarla, secondo la versione consolatoria di chi si accorge che la
verità, poverina, non riesce proprio a filtrare. 
Stesso destino toccherebbe alle forme di vita del mitico sociale: sempre le
stesse -anzi minacciate dalla corruzione del consumo nella loro storica
stabilità-, sempre rigorosamente autentiche prima o poi dovrebbero accedere
ai mezzi di comunicazione o al potere politico per manifestare la pienezza
della loro verità .
Invece accade tutta un'altra cosa: la proliferazione delle forme di vita,
passate attraverso la fucina della società dello spettacolo e desiderose di
gettarsi nelle avventure della merce e dell'impresa, neanche vede le verità
dei socialismi, e contribuisce attivamente al loro abbattimento ad est come
ad ovest attraverso la secca richiesta di beni di largo consumo
spettacolare qualunque sia l'organizzazione sociale o la rappresentanza
politica.
Il passaggio dei ceti politici ex socialisti da idiota tecnologico a
elemento integrato nelle tecnologie governamentali della comunicazione è
però già consumato nel giro di pochi anni .
Smessi i panni del partito di massa che organizza la vita degli iscritti,
del partito che organizza gli intellettuali con  riviste e linee
editoriali, del partito-propaganda sui mezzi di comunicazione delle prime
generazioni, del partito che ha la forza nell'apparato che media tra
capitale e lavoro, all'ex socialismo si apre un'altra strada.
E' quella di integrarsi come quota di potere politico pubblico, comunque
necessaria nelle società della comunicazione, in una tecnostruttura dove le
tecnologie della comunicazione sono il referente fondamentale delle forme
di vita e dell'impresa e quando l'ammistrazione, anch'essa integratasi
nella telematica, necessita di elementi decisionali al di fuori del proprio
ambito.
Tra il partito che organizza la vita -come nel socialismo reale e nelle
socialdemocrazie militanti- e questa quota di potere politico, che si
pubblicizza tra le notizie di un tornado e quelle di un dramma familiare,
la distanza è enorme: eppure proprio nella rotta delle socialdemocrazie nei
confronti delle mutazioni dell'impresa, e della proliferazione delle forme
di vita tramite le tecnologie della comunicazione, vi è già la robusta
storia di questa distanza.
Infine, i socialismi muoiono in una maniera così fragorosa da trascinare
con sè, grazie alla propaganda dei vincitori e dei vinti, anche il
comunismo. Il quale, qualche anno prima, aveva ricevuto un colpo mortale da
una sua vecchia malattia infantile: l'estremismo.


3. Socialismo ed estremismo: l'estremismo.

Fa certo male al cuore ricordare la videocassetta "autoprodotta" dalle Br
in occasione della loro condanna a morte di Roberto Peci fratello del
pentito Patrizio. Fa anche male ricordare che, con l'allucinante vicenda
brigatista, viene marchiata di infamia l'idea di rottura rivoluzionaria
nella nostra società (insieme al fatto che oggi tanti ex brigatisti,
vestiti i panni del pretino, predicano "non ci sono più le condizioni
oggi...". Ma quando mai ci sono state le condizioni per l'omicidio come
metodo di lotta politica? E, soprattutto, quando mai l'omicidio di un
carabiniere, sparato sui giornali, va scambiato per il tentativo estremo di
presa di chissà quale Bastiglia fallito il quale finirebbe l'idea stessa di
rottura rivoluzionaria?)
Del resto, in Germania come in Giappone l'esito del '68 è simile: o il
terrorismo o la via dell'adattamento, entrambe facce dell'estremismo magari
trasfigurate nella maschera del pentimento come delazione o come adesione
convinta al mondo del vincitore. 
Ma che cos'è l'estremismo? In che modo prepara le soluzioni speculari del
terrorismo e dell'adattamento?
Innazitutto bisogna chiarire quale reticolo
impresa-istituzioni-amministrazione il '68 si trova a aggredire e di quale
potenza della comunicazione questo reticolo si trova a nutrirsi.
La società della fine degli anni '60 non è una società mediatica come la
nostra, eppure proprio sulla spinta delle lotte a quell'assetto esce La
società dello spettacolo che è il testo che si pone, seppur confusamente,
il problema del rapporto tra accumulazione capitalistica ed emergenza
dell'immagine mediatica.
Il '68 aggredisce il reticolo impresa (allora prevalentemente grande
impresa)-ammistrazione-istituzione politica dal lato della composizione
della nuova forza lavoro e dell'insubordinazione del sapere.  Quindi,
specularmente al capitale, che sarebbe solo mera imposizione di comando e
valore senza l'infrastruttura mediatica, il '68 non è mera
sindacalizzazione radicale della forza lavoro e del sapere perchè assume la
forma stessa della riproduzione di forme di vita alternative: comuni, amore
libero, viaggi, culto del corpo e delle droghe, concerti come happening di
massa.
Si tratta delle cosiddette controculture che, per farla breve, hanno una
propria infrastruttura di comunicazioni, un proprio cinema, delle proprie
riviste, spesso delle proprie radio (e mai, in tutto il pianeta, una
propria televisione. E poi ci si domanda perchè il '68 è scomparso.
Risposta dell'idiota tecnologico: perchè sono state manipolate le masse.
Banale saggezza tecnologica: senza nemmeno una televisione minimo si resta
ai margini. E, attenzione al fatto che la televisione può orientare la
scelta di un sito rispetto ad un altro).
I problemi nascono dal fatto che la destrutturazione del reticolo
impresa-amministrazione-istituzione non passa solamente attraverso
l'insubordinazione della forza-lavoro e del sapere unita al proporsi di
forme di vita alternative (che negli anni '70 italiani verranno chiamati "i
comportamenti"): ci vuole un reticolo che sia in atto e che sostituisca,
guadagnando metro su metro, impresa, amministrazione e istituzione
dissolvendo questi tre piani per porsi un un'altro piano del tutto nuovo e
anomalo.
Francamente, il '68, seppur con la sua diffusione mondiale da Belgrado a
Tokio, è lontanissimo, quanto noi trapiantati nel neoliberismo globale, da
porsi in questi termini. Seppur lontano dai socialismi all'ovest ne verrà
assorbito. 
Ecco qui che l'estremismo fa capolino: si nutre della stessa arma del '68,
la contestazione che cerca di farsi sempre più generale, credendo che
l'insubordinazione e i comportamenti siano condizione sufficiente per
rovesciare il quadro.
In Italia questa convinzione assume caratteri parossistici: per dieci anni,
nutrendosi di una sindacalizzazione radicale di massa che non investe il
solo aspetto economico, differenti ceti politici tentano di azzeccare la
carta della precipitazione politica del quadro.
Il gruppo politico (dal partitino alla rete di collettivi) in questi
tentativi si estinguerà grazie all'impresa che produrrà un tipo di
ricchezza inattaccabile dalle lotte, dall'amministrazione che riuscirà a
neutralizzare settori strategici della vita sociale prima regolati dallo
scontro politico e dalle istituzioni che, attraverso la sapiente politica
della spesa pubblica, sapranno ritrovare una propria credibilità.
Quanto alla vittoria della controrivoluzione delle comunicazioni di massa
sul '68 c'è da essere impietosi: la tanto celebrata stagione italiana delle
radio libere, alla luce dell'allora sviluppo del sistema televisivo, assume
la valenza dell'errore strategico.
Qui non è certo in discussione la generosità e la creatività dei compagni
però, alla metà degli anni '70, chi vinse la battaglia strategica delle
comunicazioni? Un certo signor Berlusconi che si ingegnava a costruire una
televisione artigianale a Milano nord o la  proliferazione delle radio a
lungo narrata nelle saghe eroiche della storia del movimento?
La radio allora era già allora condannata ad essere un elemento secondario
del sistema delle comunicazioni, i risultati li abbiamo visti.
L'estremismo, a fronte di queste sconfitte decisive, non rimette in
discussione il suo schema fatto di insubordinazione e comportamenti
rappresentati tramite la contestazione che cerca di farsi sempre più
generale. A questo punto, cultura della testimonianza a parte, genera sia
il terrorismo che la prassi dell'adattamento. Questi due elementi hanno un
punto in comune: quello di non riuscire a pensare altrimenti che negli
schemi culturali dell'estremismo.
L'adattamento non ha che in testa la sconfitta epocale dell'estremismo e si
comporta di conseguenza, consegnandosi, più o meno entusiasticamente, al
vincitore.
Il terrorismo, dissolvendo nella paranoia militarista sia
l'insubordinazione che i comportamenti, ha in testa la soluzione bellica
delle aporie dell'estremismo. Il risultato che ha ottenuto, oltre a
rovinare la vita a qualche migliaio di persone, è stato quello di
scavalcare il recinto comunicativo delle radio libere occupando per qualche
anno televisioni e giornali grazie all'attenzione ottenuta a colpi di
omicidi. In effetti, il terrorista è un personaggio perfetto nella società
dello spettacolo.
Insomma, l'estremismo, proprio perchè incapace di rimettere in discussione
il proprio modello nato dal '68, lascerà il campo al terrorismo e
all'adattamento. Sarà questa l'altra malattia mortale del comunismo che,
assieme allo strangolamento operato dai socialismi, farà sì che ad ovest,
nel novembre dell'ottantanove alla caduta del muro dell'est, sia radicato
un silenzio globale come segno del dominio dell'impresa. 


4. Il progressismo di tipo nuovo.

Ogni tipo di cultura progressista da quelle di tipo laburista, attente ad
una loro precisa collocazione nel mondo della concorrenza, a quelle dei
"limiti dello sviluppo", attente a fissare una serie di confini
razionalistici al capitalismo, dall'inizio degli anni '90 fa i conti con il
fenomeno della globalizzazione.
Per capire queste culture bisogna anche avere un'idea meno sfumata di
questo fenomeno della globalizzazione. Da parte nostra, tenendo ferme le
nostre concezioni sulla mutazione dell'impresa esposte nei paragrafi sul
socialismo, proponiamo:
Per globalizzazione  intendiamo un filo comune che passa tra diversi
settori (seppur non unificandoli in maniera totale): finanziario,
economico, dello spettacolo e della comunicazione.
Per descrivere contenuto e spessore di questo filo comune è preferibile
notare come:
-la globalizzazione finanziaria significhi possibilità, da parte di
possessori di capitale finanziario, di investire e disinvestire in
qualsiasi paese, in qualsiasi piazza borsistica ed in tempo reale a seconda
delle opportunità che queste situazioni offrono. Il che non significa
assenza dello stato a fronte della circolazione dei capitali ma, al
contrario, concorrenza tra organismi statuali per offrire il proprio paese
e la propria borsa come tappa per l'autovalorizzazione continua dei
capitali apolidi.
-la globalizzazione economica va qui intesa come possibilità di estrarre
ricchezza tramite la produzione, immateriale o materiale il peso non
importa, di merci in diversi paesi contemporaneamente (sia che si tratti
della stessa merce prodotta in più paesi o di un ciclo di produzione di una
merce sparso in più paesi). Si sfrutta la differenza tra organismi statuali
-in termini di sviluppo, di costo del lavoro e di legislazione- proprio per
diversificare la produzione tra i paesi sfruttando le caratteristiche
peculiari di ognuno.
Altra caratteristica essenziale della globalizzazione economica è sia la
possibilità di sfruttare l'apertura di un settore alla concorrenza in
qualsiasi luogo essa si verifichi che quella di aprire il monopolio di un
settore anche all'estero (o nel mondo come Microsoft).
Come ha brillantemente esposto Arrighi non si tratta certo di fenomeni
nuovi ma, per non fare la fine dell'idiota economico, bisogna stare sempre
attenti a come fenomeni ciclici si presentino sempre in abiti diversi
(sapendo magari riconoscere quali siano questi nuovi abiti). Nel
confezionamento di questi abiti diversi ci stanno sicuramente due sarti di
questo tipo:
-la globalizzazione delle comunicazioni, che si dà attraverso l'esplosione
di una varietà di mezzi per comunicare mondialmente diffusi, rende più
agevole alla finanza -non dimentichiamo che il 62% delle transazioni
finanziare nel 1997 viaggiava già su rete- come all'impresa sia il
trasferimento di risorse immateriali che la strutturazione logistica di
questi enti entro la più larga dimensione spaziale desiderata.
-la globalizzazione della società dello spettacolo ha diffuso delle figure
sociali e delle forme di vita standard in tutto il pianeta. Il raccordo tra
forme comunicative dell'impresa e forme di vita, fuoriuscite dalla società
dello spettacolo, è quindi possibile ovunque come è possibile ovunque
attaccare una spina alla presa.
Sia le forme economico-finanziare della globalizzazione che quelle
comunicativo-spettacolari hanno le proprie istituzioni sovranazionali che
servono tanto per un tentativo di regolazione  che come prova per
comprendere la dimensione del fenomeno (si tratta di istituzioni come
l'Fmi, la World Bank, la Wto -che regola i flussi comunicativo-spettacolari
più di quanto comunemente si pensi-, il circuito mondiale delle immagini
per televisione di cui si servono i tg di ogni paese).

Ma il filo comune che lega questi fenomeni mondialmente diffusi, e che
rende possibile pensare la globalizzazione, è il fatto che ogni dimensione
nazionale ospita ognuna di queste forme come elemento fondamentale della
propria vita economica e sociale. Ovviamente economia, finanza,
comunicazione e spettacolo esistono anche a livello locale in una
dimensione che, magari, non finirà mai per toccare questi processi. Ma ogni
dimensione nazionale non riesce a svilupparsi a prescindere da questi
quattro elementi globalizzati (magari ponendosi il problema un rigido
governo delle tecnologie della comunicazione e dello spettacolo piuttosto
che dei meccanismi della finanza e dell'economia: è il caso della Cina nei
confronti di Internet e della televisione via satellite e dell'Iran nei
confronti del calcio). Ovviamente, in queste condizioni, ogni dimensione
nazionale, ospitando queste forme della globalizzazione, costituisce un
tassello del fenomeno generale, del filo che lega questa nuova dimensione
globale composta anche dall'intersecarsi di queste forme. 
All'esterno, ed in appoggio a questi fenomeni, i pensieri progressisti si
sono ritagliati uno spazio: regolatori dei loro contesti nazionali, delle
politiche di bilancio e della concorrenza necessarie ad alimentare lo
specifico nazionale  della struttura globale, non hanno nè il problema di
mettere in discussione l'impresa nè, tantomeno, le forme di vita esistenti
(alimentate dalla tecnostruttura globale dello spettacolo).
Progressismo, a differenza del pensiero sul progresso di un secolo fa, non
è qui il tentativo di essere anima della scienza e dell'industria in vista
di un  inarrestabile miglioramento universale del tenore di vita e del
livello culturale. La concezione progressista, non importa qui quanto
azzeccata o figlia della propria mitologia della scienza, oggi si
concepisce come  razionalità politica che si aggancia al treno
dell'esplosione delle tecnologie e dello sviluppo delle forme della
globalizzazione. Inoltre, la sua razionalità si pone a servizio delle forme
di vita provenienti dalla società dello spettacolo non solo non mettendosi
nel meccanismo che le produce ma addirittura contribuendo al loro processo
di naturalizzazione considerandole come oggetto di razionalizzazione politica.
La conseguenza sul piano pratico del procedere del progressismo nostro
contemporaneo è così quello del concetrarsi sul miglioramento delle
razionalità di governo: il suo fissarsi su regole, diritti, codici,
procedure amministrative, procedure razionali nello stabilimento
dell'agenda politica è significativo di questo spostamento. Questo
progressismo non crede in un complessivo miglioramento del tenore di vita
grazie alla diffusione della razionalità dalla scienza alla politica; al
contrario crede nella razionalità di governo e dell'ammistrazione come
elementi comunque utili  alla tecnologia e all'economia, qualsiasi
diavoleria combinino, oppure in questa razionalità come unico elemento in
grado selezionare gli spiriti inquieti della tecnologia, dell'economia e
delle forme di vita prodotte dalla tecnostruttura dello spettacolo.
Ora, mentre il progressismo maggiormente diffuso crede nella concorrenza,
come anima concreta della razionalità di governo, il suo omologo
minoritario e umanista, quello che evoca il "nuovo modello di sviluppo" dal
pulpito di molte culture diverse, è sempre pronto a incalzarlo in nome dei
disastri del sistema.
Entrambi i progressismi hanno però un punto in comune: il tentativo di
estrarre una razionalità amministrativa e di governo che sappia farsi forza
proprio delle forme della globalizzazione della finanza, dell'economia,
della comunicazione e dello spettacolo che si esercitano al di fuori di
questi pensieri politici, e per le quali questi ultimi non sono che
tecnologie politiche di completamento del proprio svilupparsi.
Ed è l'esercitarsi di questo tentativo di estrazione di razionalità
amministrativa che qui si chiama concretezza.
Vengono quindi definite concrete tutte le richieste che, a lato dei
fenomeni della globalizzazione, tentano di tenere in carreggiata la matrice
razionale della politica. Infatti, dalle norme per la regolazione della
concorrenza o per la stabilizzazione del bilancio alle richieste dello
stabilimento dei parametri d'inquinamento paese per paese o dello storno di
quote di PIL a favore dello "sviluppo dei paesi ancora in via di
sviluppo",fino a quelle di stabilire dei tetti alla circolazione di film
'americani', la richiesta è la stessa: la produzione di norme, entro
percorsi istituzionali definiti come regole del gioco, che si suppone siano
regolatrici, perché costruite su canoni razionalistici e istituzionalmente
garantite, delle aporie prodotte dalla globalizzazione. Insomma, o la
politica passa per questa strada o, secondo i progressismi, non esiste o
non è efficace.
Ed è la presenza della globalizzazione, che dovrebbe essere orientata
dall'esercizio di questa matrice razionale, che rende queste matrici
razionali "concrete". Fenomeno mondialmente diffuso, pervasivo
dall'economia fino alle forme di vita essa rende "non concreta" ogni tipo
di manifestazione di pensiero che lavori ad una sua destrutturazione. E non
solo, la globalizzazione si comporta come un gigante che quando è ricettivo
lo è  solo dei codici razionalistici della politica prodotti da specifici
ambiti istituzionali. Del resto sull'economia e sulla comunicazione  si
applica storicamente la stessa matrice razionale di spiegazione  della
politica: per dirla in breve, leggi di causa ed effetto, riduzione ad un
piccolo numero di leggi principali per la spiegazione di un fenomeno e ,
per chi trovasse esigui questi canoni di spiegazione, delle teorie della
complessità che, pur immettendo la nozione di caos, legittimano la presenza
di matrici razionalistiche nel pensiero secondo l'idea che "il caos non può
essere spiegato separatamente dall'ordine e viceversa". 
A questo punto, la crescita dei fenomeni della globalizzazione economica e
della comunicazione portando con sé tutto un retroterra razionalistico non
può che appoggiarsi sul corrispettivo retroterra razionalistico delle
politiche locali che così, parlando la stessa lingua della globalizzazione,
possono far pensare di essere il terreno di costruzione di una camera di
compensazione tra fenomemi locali e globali.
Inoltre, come può essere concreto un pensiero che si muova per
destrutturare un qualcosa che, come la globalizzazione, è ovunque?
Il progressismi si pongono questa domanda per rispondersi dicendo che
concreta è l'estrazione della matrice razionale di governo -o di correzione
delle storture di governo- che sappia parlare alla matrice razionale
presente nella globalizzazione.
Anche per questo si può parlare di progressismo: perchè qui si pensa di
estrarre da una razionalità presente nella globalizzazione una matrice
razionale di governo per problemi specifici. E solo un progressismo può
pensare che la razionalità sia così mondialmente diffusa e naturalmente
predisposta per il governo.
E da questo si può parlare di una concretezza progressista di tipo nuovo:
scomparsi i socialismi che distribuivano ricchezza e promuovevano forme di
vita secondo le loro tecnologie di governo, scomparso l'estremismo
destrutturatore, scomparse quindi tutte queste concretezze date da pratiche
che distribuivano ricchezze e status secondo modelli oggi privi di base
materiale e razionale, adesso la concretezza è innestata nella
globalizzazione.
Vuoi commerciare? Vuoi comunicare? Vuoi sedurre? Vuoi governare?
Nessuno di questi modi di agire concreto, anche locale, può prescindere da
una quota di innesto entro di sè delle tecnologie e dei codici presenti nei
fenomeni della globalizzazione.
Il progressismo di tipo nuovo assume questo come dato. Scomparsi i
socialismi, dimenticato l'estremismo, scemate le "pulsioni" sindacali della
forza lavoro, lasciata la produzione delle ricchezze e la proliferazione
delle forme di vita all'impresa, alla tecnologia delle comunicazione e alla
società dello spettacolo, il progressismo -assunto questo quadro- può così
trovare il suo punto di forza quando riesce a determinarsi come spazio
della concretezza nel suo costituirsi come matrice razionale e locale delle
forme della globalizzazione (per cui si può dire che la globalizzazione
pensa globalmente e al progressismo si ritaglia uno spazio quando assume il
compito del pensare localmente in quanto fase terminale di un processo).
Il progressismo di tipo nuovo è così definibile, visto il paragrafo su
socialismo e impresa e le righe qui immediatamente precedenti, come una
quota di potere pubblico che
cerca di legittimare la tecnostruttura della comunicazione e
dell'amministrazione, nella quale naviga l'impresa della fase
finanziariamente monetarista, economicamente neoliberista, produttivanente
postfordista (con struttura del salario legata alla produttività del
dipendente o del parasubordinato) dove le forme di vita usano come
tecnologie del sé le figure e le tecniche della società dello spettacolo.
Insomma, è come un tipo di potere politico che si riproduce se, e quando,
legittima e fa riprodurre, oltre alla consueta razionalità amministrativa,
le tecnologie della comunicazione dei media che cambiano, l'impresa neo
liberista, le forme di vita immesse nella società dello spettacolo.
cerca di collegare questi fenomeni tra la loro dimensione locale e globale,
accettando che il raggio di azione della finanza, dell'economia, della
comunicazione e dello spettacolo possa essere globale mentre quello del
potere politico frammentato. In ogni rigoroso frammento del potere
politico, la matrice razionale della norma, le procedure per produrla, le
istituzioni per realizzarla -e le mafie, magari bianche, cresciute attorno
a tutto questo sempre utili per ogni operazione trasversale- sono gli
elementi costitutivi del potere politico effettivo che il progressismo ha
per operare entro quella camera di compensazione tra locale e globale, dove
quest'ultimo oggi conduce il gioco, e tra sfera politica e mondi
dell'impresa, della finanza, della comunicazione e delle forme di vita
generate dalla società dello spettacolo.

Messo così il progressimo della sinistra, che è quello del quale finora
abbiamo parlato, sembra del tutto simile al suo omologo, il progressismo
liberale. Vista con gli occhi del critico questa omologazione sembra
compiuta: sul piano della società l'egemonia dell'impresa e delle forme di
vita dedite al consumo di tipo capitalistico è assicurata e ogni principale
attore politico in campo esiste solo per esaltare questo processo. Eppure,
se vista con gli occhi delle esigenze di governo della società qui
descritta, oltre ai processi di omologazione ci sono anche quelli di
differenziazione: il progressismo di sinistra tende ad accentuare il
l'influenza della sfera della decisione politica tutte le volte che si
presentano serie contraddizioni nella struttura economica e sociale locale
o globalizzata; al contrario, si manifesta la presenza del suo omologo
liberale (magari negli stessi soggetti che cambiano solo direzione
politica) quando la risoluzione delle contraddizioni prevede un'
accrescimento dei poteri, e magari delle dimensioni, della  sfera
dell'impresa e delle forme di vita del consumo. 
A parte il fatto che, comunque vada, ciò che cresce è sempre la sfera della
comunicazione -differenziandosi in processi e prodotti e conquistando così
una sempre maggiore capillarità per adesso senza capolinea, la crescita
delle dimensioni della sfera politica prevista dalle politiche del
progressismo di sinistra è ben diversa da quella dell'epoca dei socialismi
dell'Est e dell'Ovest: non prevede un'aumento degli organici
dell'ammistrazione, un più ampio reclutamento nei partiti, un'affinamento
della circolazione di potere politico nelle organizzazioni di massa. Al
contrario, prevede una crescita della sfera di influenza delle decisioni
prese nei parlamenti, negli organismi sovragovernativi, nei summit tra
squadre di governo. Insomma prevede che possa, quando necessario, aumentare
il peso delle decisioni prese tra eletti e amministratori piuttosto che
quelle tra gentiluomini di ogni ordine e grado.

Approfondire le caratteristiche operative di questa tecnologia di governo
progressista e di sinistra, che non è un destino e ha le sue brave
disfunzioni, che si appoggia sulla struttura della globalizzazione, nata
sulle ceneri dei socialismi e oggi attuale in Europa, è comprendere
l'attuale spessore della politica governamentale proveniente dal ceppo di
sinistra fuori da tatticismi e suggestioni.
Qui abbiamo contribuito a ricostruirne lo spessore fenomenico ovvero la
descrizione dell'effettiva pratica di esercizio. Lavorare più a fondo di
queste note è un compito più politico e di quanto, magari, non si pensi a
prima vista.



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