last update per contatti: xoa@ats.it  
control_alt
Strategie del controllo e dinamiche di sottrazione

[Contributi]

BASAGLIA, FOUCAULT, Scalzone-Persichetti

BASAGLIA

Il negro è negro e il malato mentale è malato mentale, ma ciò che ha fatto il primo e il secondo quel che sono ha poco a che fare con il loro essere negro o malato mentale, è, piuttosto, l'esclusione come fatto sociale, come creazione di una sorta di terzo mondo sociale, abitato da esseri selvaggi, inferiori, pericolosi.
Perché le istituzioni le quali gestiscono le devianze, istituzioni oppressive, mortificanti, distruttive, violenza a tutti i livelli, sono funzionali ad un sistema sociale che sopravvive escludendo, ossia, appunto, opprimendo, mortificando, distruggendo. Un sistema sociale capitalistico, dove la norma è salute, giovinezza, produzione, dove dominano l'ideologia del benessere e della abbondanza e la ideologia della incurabilità e della incomprensibilità: Quelle istituzioni, dunque, gestiscono le nostre contraddizioni.

Nella società della abbondanza - fame o c'è abbondanza o c'è fame. Ma la fame non può manifestarsi brutalmente per ciò che è (ciò che consente all'abbondanza di essere e di mantenersi tale) ma deve venire velata e schermata attraverso le ideologie che la definiranno di volta in volta come vizio, malattia, razza, colpa. In ogni caso le contraddizioni vengono sancite come un dato definitivo ed irriducibile. Manicheismo del sì e del no, del bene e del male, della salute e della malattia, dell'abbondanza e della fame, di chi ha e di chi non ha.

Si maschera il dominio di una classe con la mistificazione della neutralità tecnica. In un sistema sociale in cui non c'è posto per la dialettica, o si è formiche alienate nella produzione o cicale imprevidenti destinate a morire. Nelle ideologie e nelle istituzioni destinate al controllo della devianza - carceri e manicomi - si isola il comportamento anomalo in termini di asocialità responsabile o malata, in modo che l'individuo viene destorificato, diventa solo quel fenomeno, reso assoluto, naturale, immodificabile. E' solo e irriducibilmente delinquente, solo e irriducibilmente matto. La sua storia è niente altro se non la storia dei suoi reati, dei suoi precedenti penali. Il criminale e il pazzo sono tali per natura, la delinquenza e la follia sono interamente biologiche e, dunque, rispetto ad esse, nessuno è coinvolto, nessuno è responsabile, come davanti a un fenomeno naturale. In realtà, delinquenza e pazzia sono essenzialmente fenomeni storico - sociali, rappresentano un atto di esclusione sociale, compiuto, con l'imprimatur, ossia la giustificazione tecnica, della scienza, che le presenta come fenomeni naturali irreversibili, da una società basata sulla innaturale e artificiale divisione in classi. E carcere e manicomio sono strutture di contenimento e di segregazione, hanno natura emarginante, di classe.

Dunque la rieducazione è una funzione solo formale, astratta, teorica, una mistificazione che copre una ben diversa pratica reale. Il problema non è organizzativo o tecnico, ma politico. E' il problema della contraddizione politica e sociale fra la classe dominante e le classi subalterne del proletariato e del sottoproletariato.
In realtà, questa società, la sua classe dominante, non ha alcun interesse a riabilitare le classi dominate e neanche può, perché non ha da offrire un lavoro e un posto nella comunità alla massa dei disoccupati e dei sottoccupati, degli scarti umani. Se potesse e volesse farlo negherebbe se stessa, sarebbe un diverso sistema sociale, rispetto al quale criminalità e follia continuerebbero, certo, ad esistere - in ragione di una ineliminabile componente umana e naturale - ma sarebbero cosa completamente diversa.

In questa struttura sociale, fondata sulla logica delle divisioni innaturali, carceri e manicomi rispondono soltanto ai bisogni della società libera, che emargina, elimina, cancella l'inefficiente, l'handicappato, il fragile, il fragile morale, perché non è in grado di soddisfarne e per non soddisfarne i bisogni. E alla domanda "perché si delinque?" si può trovare la indicazione di una risposta nella caduta di valori, nelle attese sempre frustrate nello scontento per una vita che si fa sempre più critica e impossibile, sempre più priva di significato, sempre più repressiva, dove la lotta per la sopravvivenza si fa sempre più difficile.

FOUCAULT

Quando una legge viene instaurata, essa proibisce o condanna un certo numero di comportamenti. Ben presto appare così intorno ad essa una zona di illegalità. Queste illegalità non sono affatto trattate né represse allo stesso modo dal sistema penale e dalla legge stessa (vedi le leggi sul rispetto della proprietà). Il sistema penale diventa il mezzo per gestire queste illegalità, di gestire queste loro differenze, di mantenerle ed infine farle agire.

E' interesse del potere organizzare la delinquenza con il sistema penale e il carcere. Si crea così un corpo sociale estraneo a quello di provenienza, omogeneo, sorvegliato e schedato dalla polizia, invaso dai confidenti e dalle spie, facilmente manovrabile. Con la nascita della prigione si è cercato sin dall'inizio di costruire all'interno delle masse popolari un piccolo nucleo di persone che avrebbero dovuto essere, per così dire, i titolari privilegiati ed esclusivi dei comportamenti illegali. Gente rifiutata, disprezzata e temuta da tutti. All'interno del sistema carcerario si forma una micro-società in cui le persone si legano di una solidarietà reale che permetterà loro, una volta usciti, di trovare e offrire sostegno reciproco. Il beneficio che ne trae il potere dalla creazione di questo esercito di delinquenti sta nel poter rompere la continuità delle illegalità popolari. Isola un piccolo gruppo di persone che si può controllare, sorvegliare, conoscere da cima a fondo e che è esposto alla diffidenza degli ambienti popolari da cui deriva. Infatti le vittime della piccola delinquenza quotidiana sono tuttora le persone più povere. Il risultato è un enorme profitto economico (industria della criminalità) e politico ( consenso attorno al controllo).

Solo una finzione teorica può far credere che le leggi siano fatte per essere rispettate e che la polizia e i tribunali siano destinati a farle rispettare. Solo una finzione teorica può far credere che noi abbiamo sottoscritto una volta per tutte le leggi della società alla quale apparteniamo. Le leggi sono fatte dagli uni e imposte agli altri. L'illegalità non è un incidente, una imperfezione più o meno evitabile. E' un elemento assolutamente positivo del funzionamento sociale, il cui ruolo è previsto all'interno della strategia generale della società. Ogni dispositivo legislativo ha riservato degli spazi protetti e ben utilizzabili in cui la legge può essere violata, altri casi in cui può essere ignorata, altri infine in cui le infrazioni sono punite. La legge non è fatta per impedire questo o quel tipo di comportamento ma per differenziare i modi di aggirare la legge stessa.

Siamo entrati in un tipo di società in cui il potere della legge sta, non direi regredendo, ma integrandosi in un potere molto più generale: grosso modo quello della norma. Si considerino le difficoltà che oggi incontra la stessa istituzione penale ad accettare, in quanto tale, l'atto cui è destinata: emettere una sentenza. Come se punire un crimine non avesse quasi più senso, il criminale viene sempre più assimilato ad un malato e la condanna vuole passare per una prescrizione terapeutica. Questo fatto è caratteristico di una società che sta cessando di essere una società giuridica articolata essenzialmente sulla legge. Ci avviciniamo a diventare una società essenzialmente articolata sulla norma. Il che implica un sistema di sorveglianza, di controllo completamente diversi. Una visibilità incessante, una classificazione permanente degli individui, una gerarchizzazione, l'attribuire qualifiche, lo stabilire dei limiti, l'emettere delle diagnosi. La norma diventa il criterio di divisione tra gli individui.
La riforma della prigione è contemporanea alla prigione, ne è il programma. Il carcere nasce con un doppio fondamento: giuridico-economico e tecnico-disciplinare.

Fin dall'origine è prigione-castigo e prigione-apparato, privazione della libertà e meccanismo di trasformazione tecnica attraverso l'uso di tecniche correttive al fine di modificare gli individui, emendandoli. Il sistema carcerario ha dato corpo alla "norma", misto di legalità e natura, prescrizione e costituzione.

Da qui una difficoltà di giudicare, una vergogna a condannare, un immenso appetito di medicina, dei giudici, il loro desiderio di diagnosticare il normale e l'anormale, di guarire, di riadattare. Perché il potere che essi esercitano è stato snaturato, in quanto, ad un certo livello, è retto dalle leggi ma ad un altro, più fondamentale, funziona come un potere normativo, normalizzatore. Così, quando prescrivono imprigionamenti riadattatori o formulano verdetti terapeutici, esercitano l'economia del potere, non quella dei loro scrupoli o del loro umanesimo. E i giudici di normalità sono presenti dovunque: noi siamo la società del professore-giudice, del medico-giudice, dell'educatore-giudice, del lavoratore sociale-giudice.

Si forma una rete carceraria allargata, attraverso la quale si esercita questo potere di normalizzazione. Un certo significato comune circola tra la prima irregolarità e l'ultimo dei crimini. Non è più l'errore, e non è neppure l'attentare all'interesse comune, è lo scarto, l'anomalia; è quel significato ad ossessionare la scuola, il tribunale, il manicomio o la prigione. Esso generalizza dalla parte del senso, la funzione che il carcerario generalizza dalla parte della tattica. L'avversario del sovrano, poi nemico sociale, si è trasformato in deviante, che porta con sé il molteplice pericolo del disordine, del crimine, della follia. La rete carceraria accoppia, secondo relazioni multiple, le due serie, lunghe e multiple, del punitivo e dell'anormale.

La prigione ha per oggetto, non il condannato, ma un personaggio supplementare, il delinquente, di cui totalizza la vita al di là dell'atto compiuto, che esiste prima di questo. Essa fallisce nel ridurre i crimini ma fabbrica la realtà incorporea della delinquenza nel sottosuolo dell'apparato giudiziario, a quel livello di basse opere da cui la giustizia distoglie gli occhi per la vergogna che prova a punire coloro che condanna.

La delinquenza è la vendetta della prigione contro la giustizia. E i delinquenti sono presentati vicinissimi, temibili, incombenti, minacciosi, ma insieme lontani ed estranei, talvolta confinati nei bassifondi, altra volta nella follia. Come dice Michèle Perrot: "All'alba del secolo XIX , cinta di disprezzo, la più altera delle muraglie, la prigione, finisce di chiudersi su un popolo impopolare".

Il giudice allora tace, senza voce. E sale il tono dei criminologi. La giustizia dei riformatori del XVIII secolo indicava due linee di oggettivazione criminale: i grandi mostri politici o morali caduti fuori dal patto sociale e il soggetto giuridico riqualificato dalla punizione. Il delinquente fa congiungere le due linee e costituisce, sotto la garanzia della medicina, della psicologia, della criminologia, un individuo nel quale si sovrappongono il violatore della legge e l'oggetto di una tecnica. Il discorso penale e quello psichiatrico si intrecciano e dalla congiunzione nasce un verdetto di punizione-correzione, il concetto di "individuo pericoloso".

Non è più il crimine a rendere estranei alla società, ma si commette il crimine perché si è estranei alla società. Fabbricando la delinquenza, la prigione, è un modo di controllare e gestire in modo differenziale gli illegalismi, e la delinquenza è, appunto una forma politicamente ed economicamente meno pericolosa di illegalismo. Dunque la delinquenza è una sorta di osservatorio politico, permette un perpetuo accertamento sulla popolazione. Essa è effetto, ma anche ingranaggio e strumento, del sistema, nel quale i tre termini: polizia, prigione, delinquenza, si appoggiano l'uno sull'altro e formano un circuito che non si è mai interrotto.

E, in definitiva, la giustizia penale risponde alla domanda quotidiana di un meccanismo di controllo, per metà immerso nell'ombra, che mira ad ingranare l'una sull'altra polizia e delinquenza.

In definitiva, se la prigione sanziona la delinquenza, questa a sua volta si costruisce attraverso la carcerazione. E il delinquente prodotto della istituzione, non è fuori dalla legge, è sin dal principio nella legge, nel suo cuore, nel centro di quei meccanismi che fanno passare, via via, dalla disciplina alla legge, dalla deviazione alla infrazione. Come il grado superiore di una carriera disciplinare, di una gerarchia percorsa passo passo. La prigione, questa pena più buia entro l'apparato della giustizia, è il luogo dove il potere di punire, che non osa più esercitarsi a viso scoperto, organizza silenziosamente un campo di oggettività in cui il castigo potrà funzionare in piena luce come terapeutica e la sentenza inscriversi tra i discorsi del sapere. Si capisce come la giustizia abbia adottato tanto facilmente una prigione che non era tuttavia stata figlia del suo pensiero. Le doveva davvero questa riconoscenza.

Quantificando la pena secondo la variabile del tempo, essa è "naturale", appunto come l'uso del tempo. Ed ha la evidenza economico - morale di una penalità che ha quasi la forma di un salario, monetizza i castighi in giorni, mesi, anni, e stabilisce equivalenze quantitative delitti-durata. E' naturale anche perché riproduce meccanismi che si trovano nel corpo sociale. E' come una caserma stretta, una scuola senza indulgenza, una fabbrica buia, ma, in fondo, nulla di qualitativamente diverso. Quando nel XVIII secolo la borghesia diventa classe dominante, da una parte si costituiscono il regime parlamentare e rappresentativo e un quadro giuridico egalitario, dall'altra si sviluppano e generalizzano i procedimenti disciplinari. Le discipline reali e corporali sono state il sottosuolo delle libertà formali e giuridiche. I "lumi", che hanno scoperto queste, hanno anche inventato quelle.

Vi è, da una parte la risposta alla lebbra in termini di rituali di esclusione, separazione, rigetto, esilio-clausura della comunità marcata dalla comunità pura. E vi è, dall'altra, la riposta alla peste in forma di una società regolata da schemi disciplinari, secondo una tecnica di potere, analizzata, ripartita, addestrata.

Il potere disciplinare combina le due risposte e le attua negli asili psichiatrici, nelle case di correzione, nei penitenziari, insomma in tutte le istanze di controllo, trattando i lebbrosi come appestati, cioè internandoli ma anche disciplinandoli, usando processi di individualizzazione per determinare le esclusioni, vale a dire adottando il principio di un doppio schema, di un marchio binario: pazzo-non pazzo, anormale-normale, …, simbolicamente, lebbroso-non lebbroso. In questo sistema dominato dalla disciplina, la giustizia penale non ha più come oggetto il corpo del condannato eretto contro il corpo del re, tagliato nel supplizio in infiniti pezzi perché la sua distruzione totale esprimesse l'immenso potere offeso dal crimine e facesse prorompere questo nella sua verità; non riguarda neanche il soggetto di diritto di un ideale contratto. Concerne l'individuo disciplinare. Il suo ideale è una disciplina illimitata e indefinita: "un interrogatorio che non avesse termine, un'inchiesta che si prolungasse senza fine in una osservazione minuziosa e sempre più analitica, un giudizio che fosse nello stesso tempo la costituzione di un dossier mai chiuso, la dolcezza calcolata di una pena che fosse intrecciata alla accanita curiosità di un esame, una procedura che fosse insieme la misura permanente di uno scarto in rapporto ad una norma inaccessibile e il moto asintotico che costringe a raggiungerla all'infinito. Il supplizio compie logicamente una procedura comandata dall'Inquisizione. Mettere in "osservazione" prolunga naturalmente una giustizia invasa dai metodi disciplinari e dalle procedure di esame". Le insidiose dolcezze, le cattiverie poco confessabili, i processi calcolati, le scienze, le tecniche portano, appunto, alla fabbricazione dell'individuo disciplinare.

Il margine per cui la prigione eccede la detenzione è, così, coperto da tecniche disciplinari. E questo supplemento del disciplinare sul giuridico è ciò che si chiama "penitenziario". La struttura e gli schemi della disciplina trovano perfetta espressione nel Panopticon di Bentham.

Nel momento in cui si sviluppano le tecnologie, il panoptismo -in apparenza, solo una piccola utopia, il sogno di una cattiveria- è la tecnologia degli individui: potere diretto e fisico su di essi. Delle tre funzioni della segreta: rinchiudere, privare della luce, nascondere si sopprimono le ultime due, si mantiene la prima. Non più masse compatte, brulicanti, tumultuose, ma collezione di individualità separate. Dal punto di vista del guardiano: molteplicità numerabile e controllabile. Da quello dei detenuti : solitudine sequestrata e scrutata. Ciascuno è visto ma non vede, è oggetto di informazione, mai soggetto di una comunicazione. Si dissocia la coppia vedere-essere visti. Ciascuno sa di essere osservato, quindi non ha bisogno di esserlo di fatto. Ciascuno è il principio del suo assoggettamento.

Potere visibile e inverificabile, che funziona automaticamente, incorporeo, automatizzato e deindividualizzato, perché può farlo agire un individuo qualunque, per un motivo qualunque, dovunque vi sia un qualunque compito o condotta da imporre: insegnare, lavorare, curare, imprigionare. Un potere che non ha bisogno di forza, che si accresce con il sapere. Potere dello spirito sullo spirito. Ma anche un potere che può essere controllato dall'esterno, dalla società. Architettura e geometria. Puro sistema architettonico e ottico. Gabbia sapiente e crudele. Sorveglianza generalizzata. Figura di tecnologia politica. Nuova anatomia politica, che ha come oggetto e fine, non la sovranità, ma relazioni di disciplina. Istituzione disciplinare. Società disciplinare, nella quale pochi o uno solo vedono una moltitudine di uomini, a differenza di quanto accadeva nell'antica civiltà dello spettacolo, nell'architettura dei templi, dei teatri, dei circhi, dove molti uomini vedevano pochi oggetti (siamo meno greci di quanto crediamo).

In questo potere esteso ed intenso, che oggettivizza insidiosamente, non c'è splendore, c'è piuttosto sapere e non sovranità. Gli individui sono oggetto di conoscenza, vengono addestrati con questa sapiente tecnologia, diventano docili e utili. E ogni detenuto, sottoposto a riqualificazione mediante la pena, è come un capitale posto ad interesse penitenziario. Ma il diritto si inverte e passa all'esterno di se stesso, e il controdiritto diviene contenuto effettivo e istituzionalizzato delle forme giuridiche, estensione e trama dei procedimenti panoptici.

SCALZONE-PERSICHETTI, "Il nemico inconfessabile", 1999

La risposta alla rivolta sociale fu l'edificazione del "sistema dell'emergenza". La nozione di "emergenza", concepita inizialmente come esigenza economica, divenne una categoria dello spirito, per poi estendersi al campo giuridico, sociale e politico. Si trasformò in uno strumento per governare il conflitto all'interno di una nuova concezione della democrazia come spazio blindato composto da territori recintati oltre i quali non era consentito fuoriuscire. La legalità era il nuovo filo spinato che designava in modo assolutamente rigido lo spazio dell'agire legittimo. Il conflitto veniva messo a nudo, spogliato di ogni rappresentanza che ne tentasse un recupero in termini di dialettica sociale e politica, per divenire una questione di ordine pubblico, di codice penale. Per avere legittimità i movimenti sociali dovevano rientrare nel recinto stabilito dalle rappresentanze istituzionali, oppure subire la criminalizzazione. Il PCI elaborò la linea di attacco ideologico contro il sommovimento sociale di opposizione facendosi propugnatore di uno "Stato democratico forte" e fu la punta di diamante della risposta statale cercando di costruire il consenso sociale attorno all'azione repressiva delle forze di polizia e magistratura.

L'ossessione di voler nascondere il carattere politico del nemico interno è uno degli aspetti maggiori delle politiche controrivoluzionarie moderne, recepito in modo unanime oramai in tutti i codici, accordi internazionali e convenzioni sulle estradizioni. L'Italia ha dato prova di notevole capacità nell'esercizio di questa ipocrisia. Una lunga serie di norme e leggi speciali, aggravanti e nuove figure di reato, reati associativi, modificazioni procedurali, uso speciale di leggi normali, procedure in deroga, introduzione di un diritto differenziato che premia comportamenti processuali favorevoli alle tesi accusatorie (pentimento e dissociazione), la moltiplicazione dei trattamenti differenziati su base tipologica, a livello penitenziario e giudiziario, hanno di fatto costituito l'edificio di una giustizia reale di eccezione contro i comportamenti di sovversione, e per estensione, di opposizione politica e sociale.

Ciò che è definito il "sistema delle garanzie" -le libertà civili, alcune libertà costituzionali- ha subito molte limitazioni dando luogo a un vero "stato d'eccezione" opportunamente camuffato. Fin dall'inizio il movimento italiano degli anni Settanta è stato protagonista di una rivoluzione negata, una rivoluzione occultata, e le figure sociali che vi presero parte -gli operai, le donne, i giovani, i disoccupati- apparvero da subito come il nemico inconfessabile.

Di fronte all'offensiva sociale, la società politica, in difficoltà, ha risposto severamente a ciò che le sembrava essere (non a torto) la premessa di una catastrofica destabilizzazione. La sua azione si è posta all'insegna di una "emergenza" nata sotto la forma di una eccezione mascherata. L'ipertrofia dell'azione giudiziaria sovraccaricata di compiti morali e politici, la rottura degli equilibri costituzionali tra poteri e contro-poteri, dovuta all'apparizione di un modello di democrazia-giudiziaria, ha dato luogo a uno stato d'eccezione permanente. Vero paradigma inconfessato, esso si è imposto come un modello di governo della società, la cui esportazione ha aperto la strada al rischio di una deriva europea. La crescente "giudiziarizzazione" della società solleva un dibattito che ormai oltrepassa i confini italiani e le stesse ragioni storiche della sua origine.

Proprio perché gli anni Settanta, a differenza di molti altri momenti, avevano visto protagonista anche l'uso della violenza contro il potere, la critica senza distinzioni della violenza assumeva un carattere immediatamente legalitario. Una tale presa di distanza fissò la riflessione dei movimenti che nascevano sui propri percorsi, la propria storia e cultura, i propri metodi. La conseguenza fu quella di mettere sotto tutela solo i propri comportamenti sottovalutando l'altra violenza, ben più forte e decisiva, quella originaria dei Poteri e dello Stato, che esente da critiche e opposizioni ne uscì rinvigorita e rilegittimata: Si voleva andare avanti rimuovendo il passato e non rielaborandolo col risultato di vedere il moderatismo prevalere sul radicalismo, il legalismo sul conflittualismo, la subalternità sull'autonomia, la critica debole su quella forte. Di quella profonda revisione culturale si avvantaggiarono solo i sentimenti di passività e d'impotenza: Si diffondeva come un'epidemia una cultura sterile e insipiente mentre dominavano, come giganti, i modelli di legittimazione dello Stato e dell'ordine esistente sotto lo sguardo vigile dei tutori dell'emergenza, che a sinistra avevano fatto il loro nido nei vari organi del PCI e nella sua cinghia di trasmissione dentro le istituzioni: quella magistratura che aveva sostituito il sindacato quando il PCI si era fatto Stato. Sulle macerie della "prima Repubblica" ha preso forma un partito giudiziario e populista, guidato dal "pool" d'una potente procura lombarda, che, sostenuta sul piano mediatico da un grande gruppo finanziario-editoriale, ha raccolto tra le sue fila uno schieramento politicamente trasversale e ha promosso una vera e propria ideologia globale che ha infranto la concezione tradizionale dell'equilibrio dei pesi e contrappesi tra "poteri di decisione" e "poteri di controllo". In assenza del vecchio nemico geopolitico, la "moralizzazione della vita pubblica" è diventata il cavallo di battaglia di un nuovo ceto politico che i più importanti quotidiani, non solo italiani, hanno definito "rivoluzione". Negli anni 90 la politica dell'emergenza ha accompagnato un conflitto tra poteri, fazioni e schieramenti tutti interni allo Stato: il giudiziario ha invaso le altre sfere (il politico e l'economico) fino a esercitare un ricatto asfissiante sul sistema politico-istituzionale. Una pressione che talvolta si è ritorta contro i suoi stessi promotori e tutti coloro che avevano pensato di avvantaggiarsene strumentalmente; a tal punto che nessun gruppo o corporazione economica, sociale o politica, arriva più a sentirsi garantito in un clima in cui il terreno giudiziario è divenuto un prolungamento della lotta politica con altri mezzi e "una cosca di giudici ha finito per comandare in un labirinto di pentiti".

In tutte le epoche, la ricerca e l'ostensione di un capro espiatorio ha rappresentato una forma di instrumentum regni, un pretesto che attirando l'interesse sulla parte, piuttosto che sul tutto, agiva da diversivo, confiscando autonomia di critica e di lotta. Negli anni 90, l'iperbole dell'ipotesi giustizialista ha funzionato come una sorta di ipnosi che ha contribuito a deviare dalla critica dei rapporti sociali. Un popolo divenuto "popolaccio", cattiva copia delle "tricoteuses" che assistevano, durante la Rivoluzione francese, con morbosa partecipazione alle esecuzioni capitali fatte in piazza, si è stretto con magliette e palloncini colorati sotto le finestre dei palazzi dei nuovi "poteri forti": quelle procure della Repubblica, che non hanno mai intaccato l'agire degli antichi "poteri fortissimi" e indiscussi della finanza e dell'industria. Classi e ceti sociali, trasformatisi in "gente" hanno cessato di lottare, delegando la propria indignazione e la propria azione a una corporazione antica e rugginosa come la magistratura, serva fedele, cane da guardia, di tutti i poteri costituiti e baluardo di ogni conservatorismo. Queste "genti" hanno applaudito e acclamato i nuovi santi con la toga: dei cavalieri incapaci di vantare stendardi senza macchie e passati senza colpe, venuti a giustiziare il vecchio drago corrotto del "consociativismo". Un mostro politico le cui ragioni, da bravi vassalli, i magistrati avevano difeso anni prima, con codici e sentenze speciali creati per la bisogna, contro l'assalto di una orda pagana di ribelli in cenci e armi.

C'è stato un "gran rumore e poi …" gli equilibri economici e finanziari sono rimasti immutati, i flussi e i meccanismi di scambio occulto tra sistema politico e mercato sono stati appena scalfiti, solo una parte del ceto politico è stata travolta e sostituita semplicemente da un altro ceto politico, senza che i meccanismi di selezione e accesso al sistema abbiano subito il benchè minimo cambiamento. La "rivoluzione morale" della magistratura, nuova palingenesi dello Stato etico versione di fine millennio, si è rivelata per quello che già appariva ai suoi inizi: una soperchieria, un'impostura, una lotta di fazioni, una congiura di Palazzo che si faceva sponda di alcuni schieramenti a scapito di altri aprendo la strada alla ir/resistibile ascesa di ideologie demagogiche e alle carriere dei populisti di turno, caricature di uomini della provvidenza sopravvenuti in altre epoche.

Se nell'Italia degli anni 90 domina un'ipocrita voglia di castigo, se ormai la politica e l'economia non si misurano più sulla base dei conflitti sociali, ma solo per codice penale interposto, e il giudiziario è divenuto il proseguimento della politica con altri mezzi, è anche perché sul finire degli anni 70 le generazioni insorte furono le cavie da laboratorio su cui fu sperimentata e costruita la nuova architettura dei poteri dell'emergenza, dove ogni vagito sociale fu trasformato in problema di ordine pubblico. Così, la madre di tutte le emergenze, il "termidoro" giudiziario dei movimenti sociali degli anni 70 ha potuto proiettare la sua ombra come un incubo su tutti i futuri possibili. Al riparo di "Querce" e di "Ulivi" domina oramai un "pensiero unico", un liberismo dai tratti assai illiberali, che ha sommato alla conservazione di una visione faziosa dello Stato di diritto, la cruda razionalità del profitto e dello sfruttamento del liberismo economico. Se poco importa che il potere tradizionale del Palazzo sia apparso in alcuni momenti come una fortezza vuota, catastrofica è al contrario la perdita di valore, di contenuti, di senso e forza, di quella politica, intesa non come il "catasto di partiti accumulatisi in seguito al suffragio universale" ma come azione collettiva, alito di sovversione, unica arma critica radicale nelle mani degli operai, dei giovani, delle donne, dei disoccupati, degli immigrati. La "costituzione materiale" degli anni 90 è marcata profondamente dalle armature giuridiche, dai recinti sociali, dalle blindature politiche, erette per respingere la rivolta degli anni 70. La reazione della società politica e dei ceti della finanza e dell'industria, di fronte all'ascesa dei movimenti sociali attraversati da una galassia di gruppi politici sovversivi, si è realizzata sotto il segno di una vera contraddizione in termini: l'edificazione di uno stato d'emergenza permanente, caratterizzato, contrariamente allo Stato d'eccezione classico, dalla sua natura dissimulata sotto l'apparente aspetto della normalità giuridica. Una volta trasformata l'eccezione in regola, la norma si è dissolta in un insieme di eccezioni. Questo modello di emergenza sui generis si è trasformato in una specie di stampo che ha dato forma a una successiva proliferazione di pratiche d'eccezione.

Poiché negli anni del "compromesso storico" e dei governi di "unità nazionale", e più tardi del "preambolo" e del "pentapartito", non si volle rischiare di ammettere l'esistenza di una guerra sociale, di fronte al paradosso formalista di chi chiedeva simmetrici "riconoscimenti politici" al proprio nemico, si fece in modo che l'intera materia restasse confinata all'interno di una impropria tipologia di diritto comune. Ma tale atteggiamento è stato ampiamente contraddetto sul piano pratico: Se di semplice criminalità comune si fosse trattato, lo Stato non avrebbe avuto la necessità di dare luogo a uno sviluppo proliferante di leggi speciali (unica traccia formale dell'instaurazione di pratiche di eccezione), a dispositivi e trattamenti eccezionali, all'uso speciale di leggi ordinarie, oltre che ad aggravanti e modifiche alle procedure e al codice penale, compresa la creazione di nuove figure di reato. Il semplice uso della legge penale normale sarebbe stato sufficiente. Per di più con in mano il "vantaggio" di uno strumento come il capitolo sui "delitti contro la personalità interna dello Stato", lasciato in eredità alla "Repubblica nata dalla Resistenza" dal giurista del fascismo Alfredo Rocco. Un armamentario giuridico che i ministri degli interni di altre "democrazie formali" invidiavano all'Italia ai fini della possibilità di esercitare le "necessità repressive". Per questa ragione, la madre di tutte le emergenze è nata sotto la forma di una eccezione camuffata. L'assenza di una rottura formale della normalità giuridica ha rappresentato il travestimento legale che ha permesso uno sviluppo senza precedenti di una guerra nascosta sotto forma di giustizia ordinaria. La politica giudiziaria e penale dell'emergenza si è costituita per estensioni successive, slittamenti continui, torsioni e trazioni delle regole ordinarie, dando vita a un modello d'ibridazione, di vasi comunicanti e osmosi particolarmente devastante. Questo carattere di specialità dissimulata in giustizia penale ordinaria, questa natura di eccezione inconfessabile, costituisce l'aspetto inedito dagli effetti molteplici, mutageni, durevoli, dell'esperienza italiana.

La categoria del mentale riveste un ruolo decisivo nell'edificazione dello stato d'emergenza. Ogni problema politico, ogni contraddizione o difficoltà sociale viene percepita come un rischio mortale, ultimo, per il sistema. Per questo la sua soluzione richiede uno sforzo, globale e totale, d'intervento. L'azione è concepita come una guerra, i tempi di intervento sono immediati. Viene meno quel meccanismo che garantisce un rapporto corretto con la realtà e che permette di coniugare l'oggi e il domani, assicurando la necessaria distanza tra riflessione e azione. La capacità di elaborare un progetto è scavalcata da un pragmatismo che richiede trattamenti urgenti e specifici in tempo reale attraverso l'isolamento assoluto del problema, la sua estrapolazione brutale dallo sfondo complesso delle relazioni sociali. Il conflitto, la contraddizione, diventano una "malattia sociale" da estirpare, sorta di metastasi a forte capacità di diffusione. Per questo non si esita nell'impiego di una pesante "chirurgia repressiva" capace di sventrare e mutilare il corpo sociale per estrarne le parti "malate" e ricorrere a "bombardamenti giudiziari chemioterapici" che, nel tentativo di dissolvere il "tumore politico", devastano l'organismo sociale. Le politiche di governo perdono quel respiro strategico fornito da visioni di lungo e medio periodo. Sottoposte all'ingiunzione del qui e subito, pretendono di fornire risposte all'interno di un segmento di tempo ridotto a problematiche che si sono costituite, strutturate e sedimentate, nel corso di tempi sociali lunghi.

La presenza di uno spazio pubblico estesosi a dismisura e influenzato dalla società della comunicazione gioca un ruolo determinante nello sviluppo di alcune dinamiche proprie del sistema dell'emergenza. L'innesto tra azione e comunicazione genera una spirale che può dare luogo alla produzione di situazioni estreme, animate da scenari virtuali dominati dalla guerra psicologica, dalla manipolazione sofisticata della "opinione pubblica" attraverso la disinformazione, la deformazione e l'intossicazione. All'inizio, il sistema dei media agisce come cassa di risonanza, con gli effetti conosciuti della moltiplicazione esponenziale del messaggio. Successivamente, il funzionamento dei media si inverte e, da amplificatore di un segnale che proviene dalla società, si trasforma in moltiplicatore di un messaggio di allarme sulla società, dunque in drammatizzatore sociale di ogni forma d'insorgenza, di vitalità, di conflittualità, sotto la sollecitazione non solo degli apparati di sicurezza, ma del suo stesso dispositivo interno: una logica tendente a sostituirsi alla realtà producendo una virtualità, che giustifica e alimenta i dispositivi di repressione preventiva, di urgenza e specialità. Si tratta di una fase allarmistica che potremmo chiamare: "terrorismo dei media".

Questi continui allarmi sociali agiscono secondo un modello che in sociologia si definisce "previsione creatrice", dando luogo non certo al sorgere del fatto sociale quanto a un dispositivo incitativo e fobico contro l'apparire reale di nuove situazioni sociali, alimentando l'emergere di fantasmagorici nemici, allusive immagini di figure sociali rappresentate come la manifestazione di un pericolo. Questo schema si è prodotto a più riprese nel corso degli anni 90.

L'ipoteca del ricatto dell'emergenza si è fatta sentire ogni qual volta il dissenso sociale si è manifestato fuori dai canali ufficiali del sindacato e della sinistra istituzionale e di governo. Considerare il dissenso sociale non come un elemento fisiologico da governare con risposte politiche, ma come una grave emergenza per l'ordine pubblico, è il segno di una cultura politica tarata da una concezione profondamente autoritaria, viziata, a sua volta, dall'idea arrogante di rappresentare il bene e la verità assoluta oltre che il migliore dei mondi possibili. In una situazione di piena crisi del politico e della rappresentanza, contraddistinti ormai dal loro carattere evanescente e aleatorio, dove è diventato banale denunciare il "totalitarismo dei media" e la "videocrazia", l'associazione di questa inflazione del giudiziario con la tendenza alla generalizzazione del modello dello stato di emergenza, nel trattamento dei problemi più vari della regolazione sociale, produce delle pericolose sinergie tra mass-mediatizzazione a oltranza, stato di guerra interna a bassa intensità e nuove forme di protagonismo giudiziario. Le dinamiche economiche e i meccanismi politici, consolidatisi nel dopoguerra, sono entrati in una zona di turbolenza dagli effetti inediti e imprevedibili sulle conseguenze macropolitiche di questo nuovo ordine giuridico-mediatico e sui suoi effetti possibili sugli equilibri costituzionali: il senso del suffragio universale, la rappresentanza, la sovranità e la divisione dei poteri. Si realizza in questo modo un inevitabile slittamento da una incertezza del diritto in campo penale a una incertezza del diritto in campo costituzionale.

Alla fine degli anni 70, l'impossibilità di governare normalmente ha condotto la società politica a delegare di fatto alcuni poteri alla magistratura. Il giudiziario ha così esercitato una funzione ipertrofica di supplenza. Questo "potere di supplenza", senza l'apertura chiara e formale di uno stato di eccezione (per definizione limitato nel tempo), è ben presto diventato un potere acquisito. Il potere giudiziario, una volta colmati gli spazi lasciati vuoti dal politico, anche a causa della crisi di rappresentanza del modello istituzionale, sopraggiunta con la caduta degli equilibri geopolitici del dopo '89, ha favorito un processo di giudiziarizzazione dell'intera vita sociale, e dunque una politicizzazione marcata del giudiziario stesso. Intorno alla metà degli anni 80 si aprì un dibattito carico di ambiguità sulle forme di "uscita dall'emergenza". In realtà questa breve fase di "post-emergenza" ha coinciso con la sistematizzazione dell'emergenza stessa. "Un'operazione con la quale il diritto speciale politico, depurato dei suoi aspetti più contingenti, è stato inserito in corpi di leggi definite ordinarie, ricevendo così nuova legittimazione" dal ritorno a una presunta normalità e permettendo in realtà di preparare il terreno alla moltiplicazione ulteriore delle emergenze. Un processo proliferativo che ha cambiato natura e assunto una nuova qualità, divenendo un modello di governo della società. Emergenza mafia, emergenza corruzione, emergenza emigrazione clandestina: la politica si è trasformata in una coniugazione di emergenze successive, in una specie di giurisdizione morale che ha aperto la strada a una nuova demagogia: il populismo giustizialista.

L'emergenza come forma di governo è divenuta simile a quei parassiti che, dopo averlo incistato, sostituiscono lentamente l'organismo parassitato. L'ascesa al vertice della magistratura e degli apparati della repressione che utilizzano questo potere di supplenza (antiterrorismo, polizia, carabinieri), ha generato un nuovo consenso attorno a queste strutture dello Stato. Sempre più frequentemente si vedono degli ex magistrati passare alla carriera politica, dei partiti diventare i rappresentanti parlamentari della magistratura, in particolare delle procure, e la magistratura intervenire in settori tradizionalmente extragiudiziari. La rimessa in discussione radicale della separazione dei poteri, e dell'equilibrio tra poteri e contropoteri attraverso il modello della "democrazia giudiziaria", l'ipertrofia dell'azione giudiziaria sovraccaricata di compiti morali, politici ed etici, hanno creato un clima che vede le inchieste giudiziarie trasformate in prolungamenti dello scontro politico su un altro terreno. L'ipertrofia delle regole ha prodotto un'atrofia dei luoghi di mediazione tradizionale. Alcune procure della Repubblica sono pervenute al rango di poteri forti, e hanno funzionato come una leva che ha agito dall'alto sulla "costituzione materiale". Lo Stato di emergenza si è fuso nella società dando luogo a una propria consolidata base sociale.


>leggi i contributi alla costruzione del seminario

>torna alla homepage di Control Alt


    questa pagina ha avuto accessi Powered by Tactical Media Crew