last update per contatti: xoa@ats.it  
control_alt
Strategie del controllo e dinamiche di sottrazione

[Contributi]

"...il lavoro salariato diminiusce ..."

"...crisi della società del lavoro..."

...e il carcere? Deperisce, scompare...oppure si trasforma?

 

Non è una provocazione, o meglio lo è, ma provocazione sensata perlomeno quanto sensata è la constatazione che il rapporto carcere - lavoro non è rapporto secondario, il lavoro è elemento fondante il carcere correttivo, quello che chiamiamo carcere moderno. Al lavoro, volontario e/o coatto, afflittivo e/o produttivo, è stato assegnato il compito essenziale di correggere il deviato.

Il lavoro è stato uno dei due pilastri, l’altro è l’individualizzazione della colpa, del processo, della condanna e dei vari modi di espiarla ossia l’individualizzazione del trattamento.

Su questi due pilastri si è basato il funzionamento del: meccanismo di correzione;

un meccanismo che prende il via dalla pretesa dello stato (si intende quello moderno) di decidere quali comportamenti sono compatibili e quali sono non-compatibili con la formazione sociale capitalistica di un dato periodo; quindi vengono classificati i soggetti sociali sulla base dei loro comportamenti. Contestualmente l’istituzione separa i soggetti classificati "anormali" da quelli "normali"; nei confronti degli "anormali" si mette in moto la macchina della "correzione" atta a disciplinare (Foucault), ossia a conformare i comportamenti dei singoli e a far introiettare loro i codici che presiedono agli stessi comportamenti. Presupposto del funzionamento di questo meccanismo è la possibilità di osservare il soggetto minuziosamente in tutti i momenti della sua quotidianità. I controllati sono perennemente esposti: ogni loro intimità verrà descritta, analizzata, classificata. L’internato progressivamente introietterà la coscienza della sua continua esposizione, così egli stesso diviene strumento del proprio assoggettamento.

Il fine era ed è quello di annientare il "diverso" trasformando il soggetto "criminale" attraverso l’integrazione nel tessuto sociale per produrre "corpi docili"; per disciplinare quei soggetti che non hanno accettato la disciplina del lavoro salariato e la conseguente disciplina del comportamento sociale.

I luoghi di questa correzione: scuola, caserma, fabbrica, carcere, manicomio ed anche la famiglia; la normalizzazione avviene attraverso la rottura coercitiva della quotidianità: (basta pensare al divieto assolutoposto al corrigendo di usare in qualsiasi modo le ore notturne , tranne che per dormire, oppure al terrore istillato per l’ozio, in tutte queste istituzioni. L’interruzione e lo spezzettamento esasperato dei ritmi quotidiani rigidamente disciplinati, plasmano una ridefinizione dei comportamenti necessari alla ricostruzione del soggetto trasformandolo secondo la razionalità della formazione sociale capitalistica: la razionalità della produzione e dello scambio.

"Ciò che lo rendeva necessario [l’isolamento] era un imperativo di lavoro .. Dall’inizio, l’istituzione, si impose il compito di prevenire l’accattonaggio e l’ozio come fonti di ogni disordine. Infatti, questa fu l’ultima delle grandi misure prese dai tempi del Rinascimento per porre fine alla disoccupazione o almeno all’accattonaggio" (Foucault- Storia della follia- )

La pretesa del sistema di controllo e correzione basato sul carcere era (ed è ancora) quella di funzionare da correttore non solo nei confronti dei corpi rinchiusi in carcere, ma quello di esercitare un controllo sociale sul proletariato nel suo complesso per costruire "non proprietari che non minaccino la proprietà"

La convinzione che attraverso il lavoro si possa rieducare/correggere, risiede nell’idea che un lavoro che coinvolga completamente il soggetto da rieducare, porti lo stesso ad inserirsi, nelle strutture della società già plasmate dal lavoro (poiché questa è la società del lavoro), strutture che sussumono ed integrano le molteplici e differenti attività umane, le unificano e le riconducono ad unità: l’interesse generale. "Il lavoro è ciò che forma e educa l’uomo distinguendolo dagli animali". Con questa massima, che ci insegnano fin da bambini, non si intende il lavoro come attività umana creativa e diversificata a seconda i desideri e gli intenti di ciascuno e ciascuna, ma il lavoro astratto, parcellizzato in quanto sottoposto al capitale: questo è in grado di annullare l’interesse particolare di chi opera e farlo riconoscere nell’interesse universale della stato che viene fatto coincidere con l’interesse della società e degli stessi componenti la società. Il lavoro riempie la tua giornata, orienta i tuoi desideri e ti promuove consumatore, indirizza i tuoi scopi, omologa le tue scelte, seleziona il campo delle tue relazioni: ne impone alcune e ne esclude altre, ecc., ecc.

Il ruolo pedagogico del lavoro organizzato sotto la razionalità capitalistica che orienta i particolari interessi degli operai verso l’interesse universale della società è stato il credo indiscusso delle società moderne fino ad oggi. H. Ford quando inaugurò a Detroit la prima catena di montaggio nel 1914 affermò che "...la disciplina della catena di montaggio rende il lavoro giornaliero una cosa importante, molto importante! ..è’ salute mentale, rispetto per se stessi, salvezza!..."

Il lavoro in carcere ha attraversato varie fasi a seconda della situazione del mercato del lavoro all’esterno: in alcuni periodi molti imprenditori hanno spostato dentro al carcere i loro macchinari, oppure hanno spostato i detenuti in massa, durante le ore diurne, nelle loro officine per utilizzare mano d’opera a basso costo, facendo svolgere a questi un ruolo di contenimento del prezzo della forza lavoro esterna; in altri periodi il lavoro in carcere è divenuto antieconomico ed è stato mantenuto come lavoro-forzato e afflittivo con fini esclusivamente rieducativi e deterrenti.

Ad esempio nell’Europa del XVII-XVIII secolo si verificò un calo demografico che comportò una diminuzione dell’"esercito industriale di riserva", da ciò una maggior rigidità del costo della forza- lavoro occupata; in questo periodo il lavoro forzato -quello nelle prigioni- funzionò da calmiere del prezzo del lavoro "libero". [valutazione contenuta nello studio compiuto da G. Rusche e O. Kirchheimer, Pena e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1978]

Negli Usa della fine del XIX secolo, caratterizzata da forti scioperi e ribellioni (per sedare le quali furono uccisi decine di lavoratori) contro la riduzione dei salari, gli imprenditori utilizzarono le prigioni come vere e proprie fabbriche: isolamento notturno degli internati e attività lavorativa diurna in grandi sale attrezzate. Qualche decennio dopo, grazie alle forti critiche sindacali ed anche alla crisi economica che avanzava, il lavoro produttivo nei penitenziari venne in gran parte smantellato; rimase quello forzato e afflittivo per "educare" alla disciplina.

 

================

 

Il meccanismo di repressione e controllo si modifica in continuazione per consentire al sistema di potere di adeguare le strategie di controllo alla realtà metropolitana in rapido movimento. Il carcere è il perno, nucleo forte, zoccolo duro, del sistema di repressione-controllo. Analizzare le modificazioni del carcerario può aiutare a capire cosa succede nel sistema di controllo più in generale. Cerchiamo di individuare le nuove strategie del potere e le linee di tendenza che si profilano, ma anche e soprattutto ciò che si muove, ancora in modo disordinato, caotico e sotterraneo tra i soggetti sociali che lo subiscono e che elaborano continuamente tecniche e conflitti per sottrarvisi o anche soltanto per indebolire i meccanismi di controllo.

 

la specificità italiana

Le strategie di controllo in ciascun paese sono diverse perché strettamente connesse a molti fattori: in primo luogo alle dinamiche del conflitto di classe, ma anche al livello di disordine sociale, al consenso che il sistema politico riscuote presso le varie classi, al benessere economico, al modo in cui è distribuita la ricchezza, alla quantità di servizi erogati dal sistema pubblico, fino ad arrivare alle strutture urbanistiche, ecc., ecc. Quindi le teorie e le strategie generali del controllo hanno avuto e avranno una messa in pratica adeguata e plasmata sulle specificità di ogni singolo paese.

Così in Italia, a causa dell’alto livello di scontro di classe e dell’antagonismo esplicito tra le classi disagiate da una parte e il ceto politico dominante dall’altra nei decenni che seguirono il dopoguerra, il sistema carcerario non ha seguito lo stesso svolgimento delle linee di politica criminale messe in atto in altri paesi d’Europa (più o meno omogeneamente). Il carcere, in Italia, è stato sostanzialmente un sistema basato sulla logica "custodialista" (in carcere ci si entra per restarci). Il meccanismo carcerario è attrezzato per imporre sofferenze e discriminazioni di ogni sorta ed è sorretto da una rete di intrallazzi di coloro che hanno denaro per comprare e per barattare, per fare scambi non proprio legali, mentre per i poveri, i disgraziati e i ribelli funziona solo un sistema aberrante di umiliazioni e di degrado che non rispetta nemmeno le leggi esistenti (che non sono una meraviglia di civiltà). In sostanza il sistema carcere è oliato per annientare la personalità di chi viene recluso/a.

E’ sufficiente considerare il fatto che l’ordinamento penitenziario fino al 1975, dopo più di 30 anni dalla fine del fascismo, è rimasto quello redatto nel 1931 in piena epoca fascista; ci sono volute centinaia di lotte e rivolte con un costo altissimo pagato dai detenuti per ottenere, almeno nominalmente, l’abrogazione del regolamento fascista e l’introduzione, sulla carta, di una serie di innovazioni già in voga da decenni nelle carceri di altri paesi Europa.

Il lavoro produttivo non è centrale in questo tipo di carcere, ciò che conta è l’atteggiamento verso il lavoro da parte del detenuto, lavoro spesso inutile e improduttivo ma duro e disciplinato che si accompagna alla deterrenza pura fatta di botte e punizioni. Nelle carceri italiane il lavoro remunerato è un privilegio, poiché quel piccolo salario (mercede) è utilissimo per integrare il pessimo vitto, per le sigarette, caffè e giornali. In alcuni carceri il lavoro è stato inserito per favorire gli alti profitti scaturiti dal basso costo della forza lavoro detenuta, ma quando i sindacati hanno avuto la forza si sono opposti alla proliferazione di questi piccoli reparti di fabbriche dislocati nelle prigioni.

Così nell’Italia del secondo dopoguerra, mentre in diversi paesi europei iniziava la sperimentazione di misure diverse dalla detenzione -la strategia delle misure alternative- e le carceri si svuotavano, in Italia si riempiono; perché? Frustrate le speranze suscitate, anche nelle carceri, dalla lotta di liberazione dal regime fascista, nel carcere si ritorna alla conduzione fascista: i funzionari rimangono gli stessi, la loro cultura è quella con cui si sono formati, ossia fascista con forti venature mafiose; così nelle carceri di nuovo regna l’alleanza carcerieri - boss malavitosi; alleanza a tutela dell’ordine e della "tranquillità" dell’istituzione.

In quella fase, quando il carcere arrivava a limiti intollerabili, la riduzione del numero di detenuti veniva attuato con i "condoni": il carcere si svuotava di una decina di migliaia di detenuti, quelli con uno o due anni da scontare, poi iniziava a riempirsi di nuovo. Il sistema si reggeva sul solito binomio punizione/premio, ma fino a tutti gli anni ‘60 il premio era poca cosa: l’ammissione al lavoro interno al carcere (e quindi alla "mercede" una sorta di misero salario), un po’ di vivibilità in più (celle meno schifose, ecc.); ma il premio maggiore consisteva nell’evitare le punizioni (che andavano dalla negazione dei colloqui, delle ore d’aria, della socialità, alla perdita del lavoro interno -per chi ce l’aveva-, al divieto di radersi, ... fino alle celle d’isolamento e al trasferimento nei carceri punitivi). Guardate cosa diceva il regolamento:

Obblighi: lavorare, frequentare scuole nelle carceri, partecipare al culto cattolico, indossare il vestiario uniforme, alzarsi presto il mattino, pulire la stanza (cella), rifare il letto, non parlare dopo il silenzio, passeggiare nei cortili parlando a bassa voce, camminare senza fermarsi o sedersi se non chiedendo il permesso all’agente di servizio, obbedire senza fare obiezione di sorta agli agenti e alle persone addette al carcere,...

Divieti: cantare, gridare, dire parolacce, presentare reclami o domande collettive, reclamare presso il direttore in presenza dei compagni di detenzione, gesticolare parlando con gli agenti, parlare di politica, ricevere giornali e riviste politiche, ecc., ecc.

L’unico surrogato della riforma che si è cercato di introdurre nelle carceri italiane è stata l’individualizzazione nella valutazione del soggetto detenuto, anche se questa valutazione non consente ancora l’accesso alle misure alternative e la riconquista della libertà prima del "fine pena". A questa individualizzazione spinta, che poi informerà quello straccio di pseudo-riforma approvata nel 1975, che va a sommarsi al carcere "custodialista" precedente, i soggetti detenuti reagiscono come vedremo appresso.

In Italia soltanto il rapporto di forza tra l’opposizione sociale e lo stato è riuscito a smussare la vergognosa condotta del sistema carcere e ad imporre una sterzata in termini di trattamenti un tantino più rispettosi dell’identità e del corpo della persona detenuta; al di là delle leggi che l’istituzione carceraria ha dimostrato di non gradire affatto. Quando, grazie alle molte lotte ed alla costruzione di un movimento interno ed esterno alle carceri ed anche grazie al sostegno ricevuto da molti settori della società, innanzitutto dal movimento di classe di quegli anni, ma anche grazie all’aiuto, allo stimolo ed alla difesa da parte di settori garantisti e libertari vari e diversi, solidali con le lotte nelle carceri, solo allora e temporaneamente qualcosa è cambiato nel senso di "umanizzazione del trattamento" e "rispetto dei soggetti incarcerati".

Guardiamo i dati del 2° dopoguerra:

- negli anni ‘50 e ‘60 la situazione si attesta su 70- 90.000 ingressi annui in carcere, una presenza intorno alle 35-38.000;

- dal ‘69 al ‘71 gli ingressi in carcere scendono al di sotto delle 50.000 unità, le presenze oscillano intorno a 25.000, con un minimo storico per il carcere italiano di 21.391 presenze nel 1970. Poi iniziano a risalire, con l’interruzione del 1986 e del 1990 ultimi due condoni concessi, fino ad arrivare al tetto massimo di oggi: oltre 50.000 presenze e con gli ingressi che oscillano intorno alle 90-100.000.

Dunque conflitto sociale alto -uguale- carcere semivuoto; conflitto basso -uguale- galere piene).

 

la stagione della risocializzazione

Nel secondo dopoguerra, in Europa, il sistema di controllo e correzione si avvia a superare la concezione precedentemente basata sulla teoria retributiva, che intendeva assegnare alla pena un valore punitivo atto a compensare il danno fatto dal reo alla società. Questa teoria non prestava alcuna attenzione alle motivazioni socio-ambientali del reo e dunque nemmeno al reinserimento del soggetto, alla sua possibilità di riallacciare i legami con la società. Secondo questa teoria il carcere è essenzialmente "custodia", privazione di tutto quello che si ha fuori; il lavoro obbligatorio è prevalentemente afflittivo in modo che si espii il danno fatto alla società; l’unica garanzia per il condannato e la condannata è, secondo questa teoria, che la pena dev’essere proporzionale al reato, nessuna sproporzione dovrebbe sussistere per problemi di politica criminale o di emergenze varie.

Superata questa teoria ne prevale un’altra: quella utilitaristica o risocializzante, che assegna alla punizione un valore di "utilità" sia per la società che per il deviante: si pone l’obiettivo di ridurre il danno prodotto dal reato attraverso il reinserimento del reo in un ambito sociale, lavorativo e familiare come presupposto per evitare che continui a commettere reati. Questa teoria è fatta propria dai sistemi penali contemporanei dei paesi ad ordinamento democratico e viene ampiamente applicata, negli anni ‘60 e ‘70, in tutta l’Europa occidentale e nel Nord America (Usa e Canada, ma anche in alcuni stati del Sud America, in periodi favorevoli, in Italia si affacciò timidamente solo alla metà degli anni 80). Si basa sulla valutazione dei motivi sociali del delinquere e sulla convinzione che la modificazione dei comportamenti del singolo si può raggiungere modificando le condizioni sociali di partenza, soprattutto attraverso il lavoro in modo da ridurre la propensione del soggetto a delinquere.

Questa teoria ha avuto ed ha attualmente almeno due interpretazioni:

a) assicurare la minima sofferenza alla minoranza, ai devianti, quando ci si convince che solo il reinserimento sociale può portare alla riduzione della propensione a delinquere; in pratica si tratta di "conciliare il massimo benessere dei non devianti con il minimo malessere dei devianti".

b) assicurare la massima "utilità" alla maggioranza, ai non devianti, alla collettività esterna; ciò succede quando, a seguito di campagne stampa di segno reazionario, la maggioranza ricerca la "sicurezza" e si sente tutelata solo dalla segregazione di chi ha commesso il reato: "la certezza della pena".

La prima di queste interpretazioni può avere e in realtà ha avuto interpretazioni fortemente soggettivistiche nell’erogare condanne e nello stabilire la loro esecuzione, nel senso che ha prestato eccessiva attenzione alle connotazioni personali del soggetto, alla sua presunta propensione a delinquere, per decidere sulla sua pericolosità sociale: una sorta di inquisizione dei suoi pensieri. La trasformazione è stata intesa spesso come trasformazione dell’interiorità, come richiesta di un ravvedimento intimo, di una redenzione morale, pretese queste in pieno contrasto con le concezioni laiche e anche con lo stato di diritto. E’ stata questa pratica , troppo diffusa da parte di operatori e magistrati, che ha inquinato l’ambiente carcerario e ha indotto la popolazione carceraria ad abbandonare la coscienza collettiva e solidaristica e tutelarsi con atteggiamenti tesi alla falsificazione della propria personalità: un meccanismo che non è in linea con un reinserimento sociale basato su criteri di responsabilità e autodeterminazione delle proprie scelte. Questa pratica ha portato, negli anni 70 e 80, ambienti libertari e della sinistra ma anche studiosi di criminologia, criticare la strategia del reinserimento così come veniva impostata, perché oltre gli altri guasti ha invogliato i detenuti a giustificare/aderire al sistema carcerario: uno scambio obbrobrioso tra consenso/adesione da una parte e concessione di benefici dall’altra. La critica si rivolgeva anche al fatto che nella individuazione delle responsabilità del singolo, il contesto e l’ambiente in cui questo viveva scompariva, per poi costatare che le persone colpite da repressione e galera erano in stragrande maggioranza quelle appartenenti alle classi subalterne di particolare provenienza. Da qui si è sviluppava una corrente tendente a considerare l’ambiente e la collettività di provenienza via via più importante.

La seconda tendenza interpretativa della teoria utilitaristica può sembrare che si avvicini alle concezioni pre moderne della pena come vendetta e intimidazione; del carcere come deterrenza. In realtà contraddice lo spirito della teoria risocializzante che invece esclude un’astratta fissità della pena e una separatezza tra carcere e territorio. L’operatività di quest’impostazione ha aperto un nuovo meccanismo nei sistemi di repressione contemporanei secondo la logica che alcuni studiosi chiamano: neutralizzante - quella che si prospetta all’orizzonte e che già è in atto in alcuni paesi; la vedremo in seguito più da vicino.

*************

 

dalla rottura del controllo interno alla ribellione dei soggetti incarcerati in Italia

Nel carcere italiano del dopoguerra grava sui detenuti un controllo pressoché totale: una rete di clan, boss, famiglie, ecc., gerarchicamente strutturato per zone geografiche o per settori di attività extralegale, che di fatto garantiva una certa pacificazione nelle carceri: lo scambio era favori ai boss o capifamiglia i cambio questi garantivano l'assenza della conflittualità e l’ordine. L’opposizione la ribellione a questo tipo di carcere c’è, ma viene pesantemente schiacciato dal controllo interno alla popolazione detenuta e quando questo non basta interviene lo stato-carceriere con punizioni che vanno dalle celle di isolamento, ai pestaggi, al manicomio criminale, al "balilla": il famigerato letto di contenzione. Le possibilità di lotta collettiva erano praticamente nulle, molto diffusi invece gli atti di autolesionismo fino al tentativo di suicidio; le possibilità di evadere tecnicamente erano numerose (carceri vecchi spesso nel centro delle città), ma il controllo interno li rendono rari, le evasioni sono individuali o di piccolissimi gruppi. Per sfuggire a questa morsa cominciano ad aggregarsi piccoli raggruppamenti di detenuti, in genere giovani rapinatori delle grandi città, estranei ed avversi alle regole medievali della malavita che vivono il carcere in maniera conflittuale con l’istituzione, non accettano passivamente le regole, non subiscono le imposizioni delle guardie e dei boss. Questi gruppi si diffondono e stabiliscono una proficua comunicazione con i compagni arrestati nelle molte manifestazioni che caratterizzano quegli anni a cavallo tra i 60 e i 70. L’ostacolo principale alla diffusione di quest’area di aggregazione antagonista di detenuti era costituito dal controllo interno alla popolazione detenuta esercitato dai clan, famiglie e boss con una diffusa rete di confidenti. E’ stato necessario uno scontro abbastanza duro per rompere questa cappa di controllo sul popolo carcerato; uno scontro che ha avuto anche episodi tragici ed altri molto interessanti: azioni violente contro i boss, un fatto nuovo non solo nelle carceri italiane, che produce un ribaltamento della situazione ed anche un cambiamento nell’atteggiamento delle guardie che, stupiti e allarmati dal cambiamento, allentano la loro arroganza. Alla fine i vecchi clan e boss si ritirano in aree ristrette a gestire i loro sporchi affari con l’istituzione, ma hanno perso totalmente l’egemonia sulla popolazione detenuta soprattutto nei carceri della grandi e medie città.

Queste aggregazioni di giovani detenuti, in stretto rapporto con i compagni sempre più numerosi frequentatori delle carceri nei primi anni 70, ha costituito l’ossatura del movimento di lotta dei detenuti che ha realizzato una pratica di lotte e rivolte sconosciuta in altre parti d’Europa (qualcosa di simile è avvenuto negli Usa ai tempi di Malcom X e delle Pantere Nere); un movimento che nell’immediato ha modificato l’andazzo nelle prigioni, ma ha anche elaborato una acuta critica al carcere e ha indicato alla società un percorso per l’abbattimento di questa barbarie.

Non è facile rispondere alla domanda di come ha potuto succedere che in dei soggetti dediti alle attività extralegali come rapina, furto, ecc., avvenisse una presa di coscienza abbastanza rapida ed una forte simpatia verso i compagni. Molte le cause: intanto nelle grandi città del centro e del nord sorge una cooperazione extralegale più complessa e allargata di prima, al piccolo gruppo di rapinatori si sostituisce una moltitudine di soggetti: da chi ruba l’auto per l’azione, a chi tiene le armi, a chi affitta un appartamento per tenere la refurtiva ecc. Cooperazione che in carcere si riproduce e si allarga e arricchisce perché si tratta di far fronte a un sistema totalmente avverso che controlla tutta la giornata del detenuto fin dentro le proprie celle. Ma non sarebbe successo granché senza quel vento di ribellione che in quegli anni attraversava tutto il paese e scavalcava le mura delle caserme, dei manicomi, e delle carceri. In concreto è successo che nelle periferie da cui provenivano la maggior parte di detenuti, questi soggetti compivano un percorso, sotto l’incalzare del confronto politico dovuto alla presenza di comitati e collettivi della sinistra rivoluzionaria di quegli anni, li portava a vedere la propria condizione non isolata ma prodotta da un rapporto sociale che li privava di reddito, di proprietà e li costringeva a condizioni di vita disagiate, e dunque alla necessità di "delinquere". Da qui la presa di coscienza che il carcere ( e la repressione) sono "punizioni di classe" e la soluzione ai propri problemi la si può trovare lottando in maniera collettiva, sia per reperire reddito e altri beni necessari (casa, trasporti...), sia per affrontare il problema della galera, una volta che ci si capita. L’essere "delinquenti" altro non è che un modo individuale col quale si tenta di appropriarsi di reddito negato per innalzare un po’ la propria qualità della vita. E’ lo stesso percorso che gli "altri", quelli che alle 6 di mattina vanno in fabbrica o in cantiere a faticare, a buttar sangue, fanno con la lotta collettiva sindacal-politica. Così questi ultimi che prima erano irrisi da chi i soldi se li va a prendere dove stanno vengono ora visti con rispetto come quelli dai quali si può imparare qualcosa (ad esempio come piegare un padrone e farsi dare un salario maggiore o far riassumere un licenziato), anche perché adesso a "buttar sangue" sono anche i rapinatori, poiché la polizia ha cominciato a sparare negli inseguimenti. . Si sviluppa dunque una forte solidarietà che cancella il potere dei boss e il sistema mafioso di favoritismi vigente; una solidarietà che costruisce contropotere nei confronti del sistema carcere

Inizia così una stagione di lotta e un percorso di presa di coscienza e di organizzazione interna-esterna che farà assurgere i detenuti a soggetto collettivo politico e non solo sociale, con i suoi obiettivi, i percorsi di lotta ed un modello di organizzazione autonoma in grado di sottrarsi alle strategie del controllo. Non a caso il via alle proteste, lotte e rivolte è partito dal carcere di Torino, la città dove la rivolta operaia ha assunto in maniera più marcata i caratteri di autonomia e indipendenza dal controllo del capitale; è appunto dal carcere de Le Nuove di Torino che nell’aprile del 1969 scoppiò una rivolta spontanea che diede il via al lungo e faticoso percorso dell’organizzazione dei detenuti in collettivi e comitati presenti in ogni carcere che guideranno la stagione di lotta e delle rivolte nelle prigioni italiane per oltre un decennio e che gettò le basi per una critica radicale al sistema carcere e a tutti i sistemi segregativi.

Dunque la ribellione al carcere in Italia -in quella fase- non produce soltanto tecniche e lotte di resistenza per difendersi e sottrarsi al meccanismo repressivo nelle sue diverse espressioni: quello custodialista e quello parzialmente risocializzante, ma assume un ruolo propositivo e trasformatore, anche nei confronti dei detenuti stessi

Gli obiettivi del movimento di lotta dei detenuti vanno dal miglioramento delle condizioni di vivibilità, del vitto, della remunerazione del lavoro, all'aumento della socialità interna e verso l'esterno e all’abolizione del letto di contenzione e delle altre punizioni più odiate; a queste si aggiunge la richiesta della riforma penitenziaria di cui si discuteva dal dopoguerra ma ancora senza esito (fin dal 1947 era stata istituita una Commissione Ministeriale per valutare lo stato delle carceri italiane e proporre una riforma che allineasse il sistema penitenziario italiano a quelli europei più avanzati). Per dare pubblicità a questo movimento di lotta i detenuti usavano i processi come cassa di risonanza del movimento di lotta: si disertavano le aule o si denunciavano durante le udienze processuali le condizioni di vita o gli obiettivi della lotta.

E’ questa dinamica sociale che impone la riforma. Giacché non erano riuscite le fucilate dei carabinieri a Firenze nel febbraio 74 che causarono un morto e otto feriti e quelle di Alessandria, tre mesi dopo, che di morti ne fanno 7 e 14 feriti. a fermare il movimento di lotta, né era servita la famosa "circolare Tanassi - Henke" che autorizzava l'impiego dell'esercito per sedare le rivolte nelle prigioni.

 

il tardivo e asfittico esperimento del reinserimento in Italia

Dunque la stagione del "trattamento individualizzato" attraverso il lavoro per la risocializzazione/recupero in Italia non viene sostanzialmente sperimentata. Nella seconda metà degli anni 70 la legislazione viene inasprita con le cosiddette "misure antiterrorismo" che arrivano ad avere un effetto restrittivo anche su gran parte della popolazione detenuta. Attenuata l’emergenza terrorismo alla metà degli anni 80 in Italia viene approvata una riforma che prevede il trattamento risocializzante e alcune misure alternative per i detenuti e le detenute italiane. La riforma Gozzini (legge del 10.10.1986 n.663 il cui regolamento di attuazione è stato promulgato col DPR n.248 del 18.5.1989) è stata stravolta durante l’iter parlamentare e gli è stato imposto un significato esasperatamente premiale e, una volta approvata, è stata interpretata secondo quella che abbiamo chiamato "seconda tendenza interpretativa". In pratica si richiedeva il consenso del detenuto al sistema carcerario-correttivo in cambio di benefici, il tutto condito con un’individualizzazione eccessiva. Ne veniva fuori un teatrino per nulla edificante. L’introduzione delle misure alternative alla detenzione è dunque iniziata in Italia con 30 anni di ritardo rispetto ad altri paesi europei, ed è stata talmente breve che non se ne possono trarre valutazioni significative. In Italia quando si è cominciato a parlare di reinserimento e qualche timida iniziativa ha preso corpo eravamo alla fine degli anni ‘80 e nel resto d’Europa si tiravano i remi in barca per un’inversione di tendenza in tema di "politica criminale" meno costosa e più funzionale secondo i teorici della sicurezza urbana.

La strategia del reinserimento non può funzionare appieno perché è in ritardo di 30 anni in un contesto socioeconomico urbano profondamente cambiato. Di fatto vivacchia elargendo quote minime di misure alternative ancora agganciate al lavoro [dati ultimi anni] che non c’è più nel modo come lo avevano concepito i promotori di questa scuola. I detenuti sono costretti ad inventarselo (che in questo caso vuol dire lavorare quasi gratis o sotto-pagati in cambio di una richiesta di lavoro, agognato viatico per accedere alle misure alternative. Le cooperative di ex detenuti si moltiplicano, si diffondono e aumentano il clientelismo verso gli enti locali e l’istituzione carcere. All’interno delle mura la possibilità anche remota di avere dei benefici (permessi, semilibertà ecc.) dà il colpo di grazia allo smantellamento dell’organizzazione dei detenuti già indebolita e smembrata dal venir meno dell’appoggio esterno, non più forte e incondizionato come prima. Il corteggiare le istituzioni diventa il vestito del detenuto e distrugge la residua solidarietà e con essa gli organismi collettivi e la possibilità di lotta collettiva. Le rivolte scompaiono, le evasioni diminuiscono -in Italia la percentuale di evasioni è la più bassa di tutta l’Europa- le lotte collettive sono rarissime; il detenuto finge, recita, si umilia di fronte all’istituzione carcere e si infiacchisce cercando appoggio nella vasta rete di associazionismo, poiché questo è, per ora, l’unico modo per raggiungere, un po’ prima, la libertà.

si inverte la tendenza

In Europa, dopo qualche decennio di sperimentazione del meccanismo del reinserimento/recupero basato sul lavoro e sulla esasperata individualizzazione, si avverte il non funzionamento di questa strategia. Il non aver tenuto conto dell’ambiente di provenienza del reo, era stato il fulcro di una critica che, come abbiamo visto, proveniva dai movimenti libertari e di sinistra così come l’eccessiva ed esasperata differenziazione che il reinserimento individuale produceva ossia la rottura di ogni legame e solidarietà interna e con l’esterno. In sostanza, si diceva, l’esperimento di reinserimento sociale, per come è stato portato avanti, ha prodotto un allargamento del carcere alla società e non la diluizione del carcere nella società come era nell’intenzione di alcuni; un controllo attuato dalla vasta pletora di assistenti sociali fin dentro le case e le relazioni più intime. Questo negli Usa e nei paesi nord europei.

Ma non sono state queste critiche a sanzionare la fine della stagione del recupero risocializzante, al contrario saranno quelle provenienti dalla parte opposta, dalla destra forcaiola. Comunque il percorso di riduzione della detenzione (riduzionista) attraverso la risocializzazione/reinserimento, non avendo convinto a sinistra, nel momento in cui viene attaccata non trova un esercito di difensori agguerriti. E poi negli anni 90 molte forze di sinistra europea dimostrano una certa confusione nell’orientarsi sulle questioni delle libertà.

In Europa a partire dalla metà degli anni 80 (in qualche paese anche prima), i dati della carcerazione aumentano. Le strategie di recupero non vengono completamente abbandonate, ma fortemente diminuite. Come mai? Cosa è successo?

E’ dagli Usa che parte questa inversione di tendenza: nel 1991 vediamo i detenuti arrivare al numero di 1.250.000, un livello di carcerazione pari a 504 detenuti per 100.000 abitanti (nel 1970 erano meno di 100 detenuti per 100.000 abitanti; un incremento di 1.400 detenuti a settimana), uno dei più alti del mondo e della storia del carcere. Se a questi detenuti aggiungiamo quelli in "libertà condizionale" e "libertà sulla parola" si arriva a circa 4 milioni e mezzo di persone sottoposte al controllo del sistema penale.

Il lavoro salariato si restringe fortemente; la spesa pubblica viene fortemente ridotta soprattutto quella riguardante gli strati più disagiati; il liberismo applicato come una sorta di legge della giungla si profila come ideologia dominante; le strutture economico-sociali, ma anche urbanistiche, sanzionano l’accrescimento della distanza prodottasi tra le classi sia per quantità di reddito percepito, ma anche per quanto riguarda l’accesso ai servizi ed alle residue possibilità offerte dallo stato sociale. Per coloro che vanno a finire sul fondo -i più diseredati ed emarginati- non c’è da coltivare speranze di risalita sociale: sono ritenuti scarsamente utili e potenzialmente pericolosi e portatori di disordine sociale; la società non ha predisposto alcun percorso di risalita sociale, ma solo misure per sottoporli a stretta sorveglianza e controllo. Devono dunque arrangiarsi nel loro ghetto costruendo forme di cooperazione ai margini della legalità per sopravvivere.

Ciò che ha preoccupato le classi dirigenti europee e quelle nordamericane è il fatto che questo meccanismo assorbe troppe risorse, che il lavoro sul quale si basava il reinserimento, nelle economie avviate sulla strada del liberismo è sempre più precario e "nero" ed è troppo costoso crearlo per i detenuti. Insomma l’avvento delle scelte liberiste e della conseguente riduzione delle spese sociali ha decretato la fine dell’esperimento del reinserimento sociale. Poi si sono aggiunte le campagne di criminalizzazione-terroristica nei confronti dei reati legati all’uso di sostanze stupefacenti, la "droga" come nemico interno. La convinzione -frutto più degli "strilli" della stampa forcaiola che di analisi dei dati- che i soggetti usciti dal carcere in misure alternative tornano a compiere reati, i reati legati alla tossicodipendenza creano allarme e i meccanismi di recupero vengono ritenuti inadeguati. L’assetto urbanistico delle città sostituisce alla vecchie periferie degradate, ma pur sempre in un rapporto anche se conflittuale con i quartieri "bene", veri e propri ghetti separati da cui non si esce se non per andare a lavorare e quando si esce si è già sospettati di essere in procinto di commettere reati. L’ideologia della "sicurezza" delle città fa sempre più presa nei ceti piccolo-medio borghesi e diventa una merce che produce enormi profitti e consensi.

A partire dagli Usa un nuovo meccanismo di controllo comincia a formarsi e mette al centro dell’attenzione non più il soggetto ma il territorio in cui vive, con gli indici di rischio e pericolosità attribuiti alle diverse zone delle città. Un meccanismo mutuato dalle relazioni di polizia richieste al tempo della risocializzazione. Infatti il meccanismo per concedere la misure alternative contemplavano, fra le tante scartoffie, anche una relazione del posto di polizia operante nel territorio nel quale il detenuto rientrava. La polizia in genere compilava queste sue valutazioni con una dicitura del genere: "non si esclude la possibilità che il Tal de Tali possa tornare a commettere di nuovo il reato dato che lo stesso rientra nell’ambiente nel quale ha maturato la propria scelta criminale".

Si fa strada una diversa filosofia: non si crede più nella trasformazione del soggetto, nella capacità del sistema di correzione di produrre soggetti normalizzati; o meglio non solo non si crede più, ma non interessa nemmeno quest’opera di recupero. La borghesia ha perso la sua spinta propulsiva che le faceva immaginare di plasmare il mondo con i suoi valori; ora l’approccio è più pragmatico: stante l’esistenza di ambienti che riproducono lo stimolo alla devianza, il problema è sottoporre a stretto controllo le fasce sociali che popolano questi ambienti. Ma come controllarli? Il carcere resta come deterrenza (non ci si deve dunque star bene); le misure alternative sono ridotte al minimo (per quei reati soggettivi avulsi dall’ambiente di provenienza). Al carcere va affiancato da un controllo a zona da approntare con intensità particolare a seconda dell’indice di pericolosità della fascia sociale che la abita.

 

l’inversione di tendenza in Italia

In Italia le misure alternative continuano a rimanere poche. Incalzano campagne terroristiche sviluppate prevalentemente dai media e con l’appoggio di numerosi personaggi politici che diffondono la paura per il "crimine in agguato" soprattutto nei confronti della cosiddetta "microcriminalità". Campagne tanto forti e pervasive quanto immotivate sul piano dei dati riguardanti la "criminalità" (dati che indicano invece una diminuzione degli stessi) ma utilissime a chi cerca consenso verso settori sociali sensibili al "bene sicurezza". Campagne che individuano il pericolo immigrati, Zingari, Tossicodipendenti, giovani diversi, poveri ecc. E che ottengono l’obiettivo di non far decollare (far subito retrocedere) la stagione del reinserimento sociale per mezzo delle misure alternative agganciate al lavoro: l’alto costo dell’operazione recupero, il venir meno del lavoro, la diminuzione delle spese sociali dello stato, non fa credere più nel meccanismo di recupero e reinserimento sociale (che in realtà in Italia non e mai decollato appieno). Non funzionando più la strategia del recupero, anche in Italia -al passo con i paesi europei e con gli Usa- si passa al controllo territoriale delle zone ad alto rischio di crimine.

 

il nuovo approccio a "rischio ambiente" -neutralizzazione-

Ciò che cambia in sostanza è l’approccio di governo e controllo nei confronti del "mondo potenzialmente criminale" (questo nuovo sistema di controllo per alcuni si può definire: modello attuariale del controllo; vedi l’articolo di Alessandro De Giorgi in Derive Approdi n.17 pagg. 121-127). Il ragionamento che viene fatto è questo: il recupero non funziona poiché il detenuto che esce di galera se messo nell’ambiente di provenienza è di nuovo sollecitato a compiere attività illegale che in quell’ambiente è la sola o una delle forme di cooperazione che si pratica per sopravvivere. E’ da tener presente che la criminalità diventa un problema per i governi nazionali e locali solo quando crea stato d’ansia e di malessere nei ceti sociali che costituiscono la base di consenso al sistema dominante; quando questo "allarme" si produce, ci dev’essere l’intervento immediato con atti repressivi, la cui ampiezza viene proporzionata allo stato di allarme che si è creato, per ristabilire il consenso che proviene proprio dalla garanzia di tranquillità. Nei paesi occidentali il dibattito politico attuale verte principalmente sul terreno "sicurezza": le opposizione politiche al governo in carica spesso operano con campagne stampa per sollevare "allarmi" di vario tipo ma tutti riconducibili alla "criminalità" sociale o politica, ciò per far calare il consenso al governo e costringerlo a misurarsi con campagne repressive in grado di restituire tranquillità e riconquistare consenso. Si realizza quindi una rincorsa tra tutte le forze politiche (di governo e opposizione) e i mass media a diffondere il bene "sicurezza" , quindi una rincorsa a provvedimenti repressivi verso quegli ambienti ritenuti "potenzialmente" alimentatori di criminalità.

Abbandonato dunque l’esperimento recupero/risocializzazione, le teorie del controllo del crimine spostano la loro attenzione sull’ambiente di provenienza del reo. Alla classificazione e tipologizzazione dei soggetti (pessimo patrimonio del sistema controllo-disciplina precedente), si sostituisce la classificazione e tipologizzazione degli ambienti attribuendo loro un indice di pericolosità. Ciò fatto si studiano varie strategie per controllare il "fenomeno criminale" la dove nasce: nei territori; in modo che non si producano eccessivi allarmi nella società del consenso.

Quello che emerge è un cambiamento di impostazione che marcia verso una DIFFERENZIAZIONE ancora più marcata di prima. Prima era differenziazione tra soggetti, suddivisi tipologicamente in base a valutazioni prevalentemente di carattere psicologico: chi era maggiormente disponibile a cooperare con il meccanismo di correzione-recupero e chi invece non manifestava questa disponibilità. Adesso la differenziazione è ritagliata su una valutazione nella quale l’ambiente di provenienza con il suo indice di rischio e la tipologia del reato decidono se può essere efficace un percorso di reinserimento oppure no.

Un esempio gravissimo e vergognoso avviene nel carcere minorile. Il carcere per minori non dovrebbe nemmeno essere immaginato. Invece esiste, comunque finora vi venivano applicate automaticamente e per tutti le misure alternative. Già da qualche tempo in Italia non vengono più reinseriti nel loro ambiente quei ragazzi che, viene detto, provengono da "ambienti ad alto rischio di mafia".

 

E in carcere? Cosa avviene?

Tra la popolazione carcerata, intaccate dall’ideologia della premialità, sgretolate dalla mancanza di sostegno esterno, le forme di cooperazione tra detenuti costruite su rapporti di solidarietà e mutuo soccorso deperiscono. Cosa si sostituisce ai collettivi di detenuti ?

Si assiste alla riproduzione in carcere degli ambienti di provenienza dei soggetti incarcerati; ciascuna aggregazione con le proprie regole e le gerarchie interne ed esterne: Tossicodipendenti; stranieri divisi tra loro per provenienza; aggregazioni regionalistiche o per quartieri metropolitani; Zingari (Rom e Sinti); aggregazioni per tipo di attività extralegali (queste ultime in via di estinzione a favore delle altre). Ma anche con un diverso rapporto con l’istituzione carcere, rapporto che può oscillare dalla conflittualità alla collaborazione a seconda dell’emergenza che, di volta in volta, si viene a creare all’esterno del carcere.

Le prospettive

Questa articolazione per ambienti da criminalizzareper di volta in volta a seconda delle varie emergenze separa ulteriormente tra di loro le aggregazioni interne al carcere. Ciascun ambiente è solidale con i propri ma non con gli altri; dunque diminuisce la comunicazione e non funziona più l’accumulo di conoscenza dei detenuti nei confronti dei meccanismi del controllo e dei modi per opporvisi. Ciascun ambiente cerca di avere un canale privilegiato per un rapporto con i funzionari del sistema carcere interni ed esterni e verso l’apparato intermedio (ossia l’insieme di assistenti sociali, educatori ecc., che gestiscono l’avvio alle misure alternative). In questa situazione le lotte collettive stentano a decollare; si assiste invece ad un aumento degli atti di autolesionismo fino al tentato suicidio di chi non vede altro mezzo per far sentire la propria voce. C’è da dire però che le aggregazioni che si stanno sviluppando, avendo un robusto legame solidale interno, possono essere in grado di reggere uno scontro con l’istituzione anche con la sola forza del proprio ambiente , soprattutto se la parte esterna al carcere, dello stesso ambiente, costruirà le mille forme di sostegno alla "propria" parte carcerata. Un percorso, appena iniziato nel nostro paese; avrà bisogno di tempo per decollare.

Se le strategie del controllo si sviluppano come delineato e se la tendenza manterrà queste caratteristiche assisteremo probabilmente ad un periodo di conflittualità segmentata contro il carcere, per ambiente (come avviene da tempo negli Usa), e sarà interessante vedere le forme di solidarietà che ogni ambiente saprà inventare per sostenere la "propria" parte carcerata. Mentre il territorio metropolitano si dimensionerà come spazio sorvegliato e si fortificherà a seconda degli indici di pericolosità di ogni zona che dipendono dallo status sociale dei soggetti che la popolano, va prestata molta attenzione alla battaglia che si svilupperà per definire il grado di illegalità del tipo di cooperazione diffusa in ciascun ambiente. Il confine tra legalità e illegalità in questa fase è quanto mai tenue e suscettibile di modificazioni, come lo è in ogni fase di transizione e assestamento. Alcune forme di cooperazione, oggi al limite della legalità o completamente al di fuori, possono mutare decisamente conquistando una internità ad uno status-quo fattosi "legale" perché in sintonia con il nuovo tessuto del consenso sociale che si consoliderà.

C’è anche da segnalare la possibilità, in alcune metropoli già operante, del manifestarsi di un conflitto tra forme diverse di cooperazione che caratterizzano zone diverse, ma limitrofe, della città, quando queste forme di cooperazione entrano in collisione tra loro per caratteristiche oggettive.

Ma torniamo al nostro microcosmo carcere, ponendoci una serie di interrogativi:

- il carcere perderà la funzione centrale che ha avuto finora nelle strategie del controllo degli ultimi 3 secoli?

- il carcere che si affermerà avrà meno mura, sbarre, guardie, ferro e anfibi e manganelli (tutte cose che, ci dicono gli esperti, costano troppo) ma avrà ancora più forza totalizzante e terrorizzante? Si tratterà forse di un carcere oltre le mura a spasso per la città?

- passerà oppure no la strategia del controllo a tutto campo, del controllo territoriale-neutralizzante?

- questa tendenza potrà essere inceppata dalla capacità dei segmenti metropolitani di entrare in comunicazione tra loro? Che sia però comunicazione nel senso originario del termine: non "far conoscere" ciò che si fa, ma flusso informativo per "azione-comune" = comun(ic)-azione. Saper costruire azioni comuni nonostante, anzi proprio grazie alla diversità per azioni e cooperazioni inter-ambientali = tra ambienti diversi.

- potrà il carcere restare una struttura di accoglienza per l’esclusione sociale, così come sono attualmente i "centri di accoglienza temporanea" per immigrati?

 

Di fronte a questi e altri interrogativi, una riflessione vorremmo girarla anche a coloro che operano all’interno del sistema carcere, una riflessione all’insegna del buon senso: che senso ha, oggi, alla fine di questo secolo, quando tutti inneggiano alla "bellezza" del lavoro finalmente non più normato, non più stabile, precario, nero, sottopagato e a volte nemmeno pagato, ecc., ecc., non vi pare che sia una bella cretinata obbligare i detenuti a fare i salti mortali e pregare tutti i santi possibili ed impossibili per ottenere una falsa richiesta di lavoro viatico per le agognate -e oggi sempre più difficili- misure alternative? Quelli che credono che sia ancora giusto e possibile battersi per la ripresa della strategia del recupero e della risocializzazione, che almeno tolgano questa ipocrisia dell’obbligo del lavoro per rimediare qualche goccia di libertà. Il lavoro quello che oggi si riesce a trovare, il modo come è organizzato e regolato, è decisamente diseducativo a tal punto che è più serio e valido pensare di reinserire i detenuti attraverso attività ludiche o sociali di vario genere. D’altronde se si crede nella possibilità di renserimento nelle regole della legalità, per coloro che hanno operato in vari modi fuori della legalità, si dovrebbe offrire a questi soggetti relazioni sociali le migliori presenti nella società perchè ne rimanga entusiasta. Il lavoro, possiamo dirlo con tutta tranquillità, non è davvero il meglio di ciò che ha da offrire questa società, non vi pare?

 

 

marzo 1999

salvatore


>leggi i contributi alla costruzione del seminario

>torna alla homepage di Control Alt


    questa pagina ha avuto accessi Powered by Tactical Media Crew