Intervista ai punx anarchici

A colloquio con i punx anarchici, al Virus, su musica, abbigliamento, anarchia, Comiso, violenza/non violenza, fanzine, l'aggressività , l'esigenza di uscire fuori, rapporti con il movimento, dischi autogestiti, vegetarianesimo,antivivisezione, antimilitarismo, eroina, concerti, rapporti con i mass-media, ecc.

"Io devo dire innanzitutto che questa domanda non mi piace tanto, perchè è un casino, è un casino dire così che cosa significa essere punk. Io posso dire personalmente mi metto i capelli in piedi e mi vesto in una certa maniera e non mi va di vestirmi come fanno gli altri. E allora sono così. Però che una persona da esterna mi venga a chiedere perchè sono punk, a me viene in mente solo come mi vesto, mentre invece secondo me il discorso è molto più profondo: c'è il fatto di come agisco dei rapporti che ho con la gente, dell'azione che ho anche fuori.
E forse è tutto questo che mi diversifica dagli altri, non tanto perchè ho i capelli in piedi o gli altri mi chiedono "perchè sei punk ?"."
Alla prima domanda (che cos'è. il punk ? che cosa l'identifica ?) Marco risponde così. E salta subito fuori il problema delle definizioni ("non mi piacciono perchè diventano facilmente delle etichette" sottolinea Cristina), con il rischio di voler a tutti i costi "inquadrare" il punk in schemi vecchi, inutili per comprendere. Eppure la prima domanda, in un'intervista ai punk (e stasera in questa stanza della casa occupata di via Correggio 18 ce ne sono una ventina, di Milano ma anche di Genova, Bologna, Piombino, Como, Torino, ecc.), non può che esser questa: che cos'è il punk?

"Secondo me" -dice Cristina- "esistono vari modi di rapportarsi alle cose esterne, all'ambiente esterno, alle persone ed anche a noi stessi: ed uno di questi può essere il punk. Che non è necessariamente aver le borchie, può essere semplicemente avere una scritta o tirarsi i capelli in piedi o come uno si taglia i capelli in una maniera che poco tempo fa (ora no, ora è tutto cambiato) non era la maniera corrente di tagliarsi i capelli o di vestirsi, usciva insomma da certe regole normali, da certe logiche di comportamento.
Io identifico il punk in un modo di essere che ognuno individualmente (e poi magari spesso collettivamente, nei gruppi) sceglie di far vedere agli altri o anche così, per sè stesso."

Per Papalla, comunque, "non è che l'abbigliamento sia una parte marginale, non importante dell'essere punk. Penso che anche solo il lato esteriore possa essere un modo per esternare il proprio essere."
Ma allora i punk sono quelli che si vestono e si acconciano in una certa maniera? E' certo l'aspetto esteriore ad identificarli? Cristina mette in risalto il fatto che "ultimamente il punk è stato fatto proprio e rilanciato da negozi normali, case di moda, parrucchieri, per cui c'è in giro tanta gente "acconciata" da punk ma che con il punk non ha proprio niente a che spartire. Quando uno decide di essere punk, al di là del fatto che possa identificarsi subito in un modo di vita libertario o anarchico, alcune cose ci sono immediatamente."
E sottolinea l'elemento di obbiettiva rottura rappresentato dal fatto di infrangere gli schemi di vita familiare e sociale consueti per i ragazzi "normali":rientrare a casa ad una certa ora, adeguarsi a tutta una serie di norme, ecc. "Il punk è più facilmente riconoscibile come uno che sta spezzando qualcosa: non a caso è spesso sottoposto ai fermi, alle provocazioni ed alle misure repressive delle forze dell'ordine. Per questo nel fatto di essere un punk c'è già qualcosa, se non di libertario o anarchico, certamente di sovversivo."

L'IMPORTANZA DELLA MUSICA

Punk è anche musica . Che cosa rappresenta per voi la musica?
"Per me" -risponde Daniele- "la musica ha abbastanza importanza, perchè permette ad ognuno di noi di esprimersi, sia a livello musicale, sia di parole. E' difficile che nei nostri gruppi ci sia chi fa solo i testi o suona solo la chitarra e se ne frega dei testi: ogni pezzo rappresenta quello che vive quel gruppo, è ciò che lo accomuna.
"Per me" -dice Fabio- "la musica è un momento di espressione come lo possono essere tanti altri, però acquista importanza nel momento in cui io voglio dare un diverso significato a queste cose, a questa musica. Con il mio aspetto musicale io voglio completamente stravolgere quella che è stata la musica fino ad adesso. Una delle cose a cui ipoteticamente vorrei arrivare è la distruzione del rock'n'roll americano, perchè lo trovo un' espressione musicale massificante, che porta al passivismo.
L'espressione musicale io la vedo importante in questa maniera ed anche perchè a me piace suonare: ho imparato da solo a suonare la batteria e questo è stato importante, perchè la musica ha molto più valore quando c'è gente che prima ha avuto la coscienza di dire "io voglio esprimere delle cose" e poi al limite ha imparato a suonare dopo.
E' stato molto importante che molti punk (e per questo il Virus è servito molto) prima abbiano acquisito la coscienza di volersi esprimere al di fuori di certi canali e poi abbiano acquisito la capacità di esprimere queste loro idee, imparando a suonare da soli, non facendosi catturare dagli stereotipi della musica. Comunque, oltre alla musica, ci sono anche altre espressioni che io mi sento di usare: fare opuscoli, volantini, performances teatrali ed altre cose simili, che hanno anche loro la loro importanza, nel momento in cui piacciono a te e tu gli dai un senso molto marcato, determinato."

In tutti è netto il rifiuto del circuito musicale ufficiale, l'"affare musica" come lo definisce Daniele. Molti gruppi punk sono riusciti a prodursi direttamente i loro dischi (con una tiratura, in genere, sulle 1000 copie), vendendoli direttamente con dentro volantini contro la guerra, contro la repressione o altre cose.
E questa volontà di "resistere" al mercato discografico e alla sua logica, è molto sentita da tutti. Marco ricorda quando tre-quattro anni fa, all'inizio della loro esperienza, tutti davano loro addosso, attaccandoli perchè non "sapevano" suonare e predicendo loro un sicuro fallimento.
"Noi volevamo tentare, imparare da soli a suonare i nostri strumenti, e così abbiamo fatto: ma alla fine i gruppi erano molto sterili, perchè ad esempio andavano a suonare sì con pezzi fatti da loro, però magari in concerti organizzati dalle istituzioni stesse, oppure cantavano in inglese," aggiunge Fabio. "A questo punto ci siamo accorti che queste contraddizioni si potevano abbattere tranquillamente e allora è nato il Collettivo Punk, sono nati i primi gruppi che cantavano in italiano: dopo aver imparato a suonare fuori dei canali, ci si esprimeva e si usciva fuori facendo capire alla gente qual era il nostro messaggio." "Secondo me"-salta su Fabio- "non è giusto dire "hanno imparato a suonare " : si sono adattati lo strumento a sè stessi e lo hanno usato. "Imparato a suonare" può voler dire tante cose."

"E allora" -prosegue Marco- "abbiamo iniziato a venire in questa casa occupata e ad autogestirci i primi concerti (ottobre '81) e qui allora è cominciata a venir fuori quella musica che si è espressa nei nostri dischi autogestiti, che vendiamo alla metà del prezzo delle case discografiche.
Molti hanno cominciato a prendere coscienza che potevano esprimersi, prendere in mano lo strumento e suonarlo come piaceva loro. E poi, mentre prima ci si trovava solo per suonare, si è cominciato a trovarsi anche per discutere dei problemi che si hanno in questa vita di merda, in questa situazione.
La musica è poi anche uno strumento per uscire fuori, per dire quello che si ha dentro: insomma essere prima amici e poi musicisti (mentre nel mondo musicale succede in genere il contrario)."

"Secondo me" -dice Cristina- "è importante usare lo strumento musica perchè nella vita normale di una persona adesso, vuoi perchè è uno dei prodotti che ti offrono vuoi perchè dentro ognuno di noi ci sono dei suoni e una ricerca del suono che ognuno sviluppa più o meno, la musica è importante. Usando lo strumento musica tu porti via spazio al normale mercato discografico e musicale, nel senso che molti giovani che vengono ai nostri concerti solo per sentire musica, sentono musica e in più sentono anche un discorso, sentono delle parole che sta poi a loro elaborare nella loro maniera.
E poi c'è l'aspetto dell'autogestione (dischi, concerti, ecc.) che è molto importante, è un esempio."
"Ma allora", domanda Giuseppe, "se l'importante è l'autogestione, non la si potrebbe forse applicare anche ad altri generi di musica, quali il rock o il jazz?" Visto anche quel che Fabio ha detto prima rispetto al rock americano, questa domanda provoca una serie di risposte (tutte negative, nella sostanza). Ne viene fuori con maggiore chiarezza che per loro il punk non è assolutamente considerabile un genere musicale, è qualcosa di radicalmente diverso.

"Il fatto di non appoggiarsi alle normali ragnatele del sistema" -dice Cristina- "è fondamentale. E poi il punk è un suono che si è tirato fuori in una maniera molto tribale, viscerale, non so come dire: le persone dicevano "voglio tirare fuori dei suoni e non m'importa niente che nota sia questa, la tiro fuori in qualsiasi maniera", mentre il jazz, il rock, ecc. hanno uno schema e bene o male le persone che vogliono farlo seguono questo schema. E questa è una cosa brutta secondo me."

VIOLENZA, NONVIOLENZA PACIFISMO

Papalla non è d'accordo e cita il free jazz, che è viscerale quanto il punk, ma ci tiene soprattutto a sottolineare che, al di là dei testi, è importante anche la musica in quanto tale: "il fatto che tu faccia della musica distorta, violenta, puè rispecchiare un certo tuo modo di vivere le cose, un certo tuo rapporto con l'esterno, che è sempre, bene o male, un rapporto violento.
Per cui anche il voler creare un caos sonoro può voler dire questo. O si può anche voler dire che esiste una confusione sia all'esterno sia all'interno di noi stessi."
Per Fabio il problema è quello di andare al di là delle classificazioni e delle etichette: "in questo senso anche il punk, se diventasse schema fisso ed istituzione, andrebbe rifiiutato. Io non me la sentirei mai di dire "io faccio della musica punk ", io preferisco dire "mi esprimo in questa maniera" anche se poi non c'è un nome preciso per definirla."

Papalla ha citato il rapporto sempre violento con l'esterno e il discorso si sposta su questa questione,eternamente controversa in campo libertario. Quando si sono occupati dei punk anarchici del Virus, i mass-media li hanno sempre definiti "non violenti". Voi come la vedete?
Puntuale, rispunta il problema delle definizioni. "Intanto" -dice Fabio- "io non sono molto d'accordo nemmeno a definire le cose, perchè per esempio in quest'intervista mi piacerebbe di più se una persona avesse dei flash, delle visioni, delle tracce di che cosa potrebbe essere, oppure leggere tra le righe che cosa potrebbe essere la mia vita, la mia espressione, piuttosto uno, due, tre, che cos'è il punk."

D'accordo -ma rivolgendovi non a voi come punk, ma ai singoli individui- come vivete in teoria e in pratica il discorso della violenza?
"Ognuno affronta questo discorso in maniera molto individuale" -risponde Papalla- "Per quanto mi riguarda ho deciso a seconda dei momenti: ho già il mio aspetto che può apparire violento ed in certe situazioni ho deciso di rifiutare, di non accettare le provocazioni che mi venivano fatte per la strada."
"In che senso ti ritieni violento o ritieni che l'esterno ti consideri violento?" gli chiede Fabio. "Mi ritengo inteso violento perchè può dare fastidio il mio modo di abbigliarmi e di comportarmi. Mi sono sentito spesso dire da gente che ho conosciuto in seguito "ma io a te non mi ci avvicinerei mai, perchè fai paura vestito così come sei ". Comunque ora non mi ritengo non violento e non mi sta più nemmeno bene il termine pacifista."
Per Daniele non è questione di violenza o non violenza, si tratta invece di non reprimere l'istinto così come viene al momento. "Altro che offrire l'altra guancia: se me ne danno una io se posso glie ne do indietro tre o quattro." E cita il caso di quando la polizia li ferma, chiede loro i documenti insultandoli, gli dà una sberla perchè sa che tanto da soli non possono reagire. "In questi casi se potessi, la farei finire diversamente la storia."
"Sulla questione della violenza" -ribadisce Fabio- "io mi sono stufato di autodefinirmi. Comunque quello che è il mio tentativo (perchè lo ritengo giusto per me e per l'altra gente) è escludere la violenza da tutto quello che è la mia vita: e per "mia vita" intendo il parlare con una persona che mi sta vicina, il parlare con una persona sul metrò, dar da mangiare al gatto e cose di questo genere."

MA L'AGGRESSIVITA' E' UN'ALTRA COSA

"Anch'io" -dice Marco- "vorrei eliminare tutta la violenza nei rapporti che ho con la gente e soprattutto con la gente che mi sta intorno: però riconosco che quando una persona, soprattutto esterna, che non conosco, tenta di buttarmi addosso con tanta violenza tutto il suo modo di essere io rispondo quasi sempre in maniera aggressiva". Ma tra aggressività e violenza, almeno come intendiamo questi termini stasera, c'è una grossissima differenza e su questo siamo tutti d'accordo: una cosa è il modo immediato e spontaneo di reagire, un'altra qualitativamente ben diversa è la violenza. Quando però il dibattito si fa più concreto, emergono meglio le differenze di carattere e di opinione.
Marco si dichiara "sicuramente in disaccordo con un determinato tipo di violenza, per esempio quella organizzata, perchè ti porta dietro un casino di menate e di storie anche nei rapporti personali (e lo si è visto anche a Comiso)." A mio parere" -prosegue- "non si risolve un bel niente con questo tipo di violenza. Se noi usiamo le stesse "armi" che usa il sistema per combattere contro di noi, alla fine è la stessa storia: la legge del più forte, la legge di chi ha più armi, la legge di chi ha più soldi. Per questo motivo io non sono assolutamente uno di quelli che vuole fare delle azioni violente, con una violenza organizzata dietro.
Anche se, quando uno per la strada mi dice qualcosa o quando la polizia attacca una nostra azione pacifista, la mia reazione può essere aggressiva: ma io non la definisco assolutamente violenta, perchè è soltanto un istinto ed io non penso assolutamente che l'istinto dell'uomo sia violento."

"Dentro di me" -dice Cristina- "ci sono dei meccanismi che scattano ogni tanto (anzi sono scattati spesso durante la mia vita) e sono meccanismi che scattano quando mi trovo di fronte alla violenza continua da parte di persone o del sistema (e dell'autorità). Questo meccanismo io non lo chiamo assolutamente violenza, ma autodifesa: in parte è naturale (la mia aggressività) e in parte sì ci sono delle cose che mi sono state inculcate dentro.
Io sono proprio d'accordo con questa autodifesa, perchè dovrei fare proprio molta forza su me stessa, ed anche non spontanea, per tenermi per esempio ferma quando qualcuno cerca di farmi del male. E questo modo di fare mi è servito molto nel corso della mia vita. All'interno però dei rapporti personali (ed intendo non solo quelli con gli amici e le persone che mi stanno intorno, ma anche quelli con la gente che incontro per strada) tento di creare un'armonia, per cui non ci sia nè violenza da parte mia nè violenza da parte degli altri. Tento perciò di usare cose come il parlare, lo stare bene, lo spiegarsi continuamente quando c'è qualche minima cosa che potrebbe far scattare da ambo le parti quel meccanismo di aggressività.
Ciononostante ritengo che quando cammino per strada e mi succede qualcosa di brutto, quello che scatta dentro di me non è assolutamente una cosa negativa ma è la mia voglia di esistere, di vivere e di sopravvivere in quel momento: per cui non è violenza."

D'accordo sul fatto che chi arriva a posizioni libertarie è naturalmente avverso alla violenza ("lottiamo contro la repressione, non per reprimere qualcun altro", precisa), Daniele insiste però sul fatto che in certi momenti la violenza ci vuole. E distingue tra la guerriglia urbana (che potrebbe ancora andare bene) e la banda armata (che rifiuta).
Sul fatto che non ci si deve mettere nell'ottica di offrire l'altra guancia e di farsi passivamente attraversare e schiacciare dalla violenza esterna, Fabio ribadisce quella che è una posizione sostanzialmente condivisa da tutti. "Ogni espressione con cui il potere arriva a me"-aggiunge- "o arriva nei luoghi dove vivo io o più in grande su scala mondiale, è un'espressione violenta. Il potere è violenza, sopraffazione, molte volte forza fisica, è armi, è dolore, è sofferenza. Dal momento che è il potere che impartisce questa violenza, che ne fa uso e che può giocarci (perchè chiaramente hanno dietro cose, per cui la violenza è il gioco che a loro sta bene), in quel momento io mi sento di rifiutarla nella maniera più assoluta."

Sempre in tema di aggressività e in genere di modalità; di comportamento, Antonia chiede ai punk che significato abbia il loro modo di ballare violento e cita una sua esperienza a Brescia, con i punk anarchici di quella città.
Il tema è sentito, intervengono in diversi per chiarire i rispettivi punti di vista: è vero che nel ballare, soprattutto sotto il palco, c'è spesso un gran casino, una ricerca del contatto fisico, ma -è sinteticamente questa la spiegazione- a parte qualche raro caso non c'è violenza nè volontà di farla. E' un modo spontaneo di esprimersi da parte di chi ha in quel momento l'esigenza di esprimersi così: "a volte sembra che ci si disfi" -spiega Daniele- "ma se non c'è nessun bastardo (e ce ne sono stati ed a volte purtroppo ce ne sono) non ci si fa assolutamente male: al massimo ci si fa male da soli, mettendo magari giù male un piede."

Cristina sottolinea che in tutto questo c'è un'esigenza di partecipazione, positiva, vissuta come un gioco: "gli aspetti negativi sono legati solo alla presenza di persone che stanno lì in mezzo solo per far casino e per dimostrare la loro forza fisica." Ma soprattutto ci tiene a mettere in risalto che "spesso le stesse persone che criticano questo loro modo di comportarsi e lo chiamano "violenza" (mentre non è violenza) sono poi quelle che si fanno dei risolini e si dicono delle frasi che sono delle ferite.
La loro non la vedi, perchè è un'aggressività mascherata: la nostra non è nemmeno aggressività, è gioco, è gioco reciproco perchè io non salterei mai addosso ad un altro quando questo non lo vuole e spero che nessuno lo faccia con me."

L'ESIGENZA DI USCIRE FUORI

Passiamo ad altro. L'insieme dei punk com'è organizzato (ammesso che si possa usare questo termine)?
"I punti di riferimento e di contatto maggiori sono concerti (organizzati nelle varie città dai locali gruppi punk)" -spiega Fabio- "poi ci sono le fanzine, i dischi autoprodotti e da un po' di tempo a questa parte anche certe mobilitazioni a carattere regionale e nazionale (una manifestazione in un posto, un'altra in un altro magari a Comiso). Per esempio proprio stasera c'è a Roma un convegno organizzato dall'ARCI nel quale vengono trattate (a mò di banda giovanile) anche le tematiche punk: e lì polemicamente ci sono dei punk con un banchetto, con fanzine, dischi autoprodotti e volantini.
Tra le fanzine, due hanno maggiore tiratura e distribuzione e sono Attack e T.V.O.R.. C'è poi Punkaminazione, che è un foglio nazionale fatto da cinque punti in Italia: è distribuito per lo più nell'ambiente punk, è gratis, autofinanziato dai gruppi" ("praticamente" -precisa Cristina- "è il bollettino nazionale di informazione tra i punk, con tutte le notizie sulle cose autogestite").

"Il problema della comunicazione tra noi si sta sviluppando un casino in questi ultimi tempi" -aggiunge Marco- ricordando che una volta le fanzine erano solo a carattere musicale- "Quello che sta venendo fuori adesso è un po' il discorso che anche noi di Milano abbiamo portato avanti con il Virus, di uscire fuori, di partecipare alle manifestazioni sull'antimilitarismo e sul problema della gestione degli spazi.
Ci siamo accorti che questa nuova sensibilità si stava sviluppando anche fuori Milano e qui è nata l'esigenza di trovarci con quei collettivi che operavano con le nostre stesse storie." E qui Marco cita l'inizio delle riunioni con alcuni compagni di Torino, un anno fa circa. Salta su Papalla e ci tiene a precisare che "quelli di Torino non ci tengono per niente ad essere chiamati compagni."

"Comunque" -spiega Fabio- "il fatto è che ad un certo punto sono saltate fuori delle contraddizioni e ci siamo resi conto che avevamo degli spazi disponibili e non ci bastava più trovarci in 300 e basta."
"I contatti con le altre città" -riprende Marco- "sono nati come cosa necessaria e spontanea: ai concerti ci siamo accorti che veniva della gente da Bologna, Genova e da altri posti che avevano le nostre stesse esigenze. Ciascuno sviluppava le proprie attività ma poi tutto si fermava un po' per la mancanza di gente. Nel frattempo è saltata fuori questa scadenza di Comiso (dove eravamo un centinaio di punk anarchici) a fare un articolo per A-Rivista Anarchica è stato positivo. E adesso vengono qui al Virus persone un po' da tutta Italia, si riescono a fare riunioni e discussioni, pensiamo fra poco di fare qualcosa insieme ai punk di Bergamo."

Per Fabio però c'è un rischio, quello di autoghettizzarsi come punk e di cercare solo di sviluppare la comunicazione interna ai punk, senza invece cercare di proiettarsi maggiormente all'esterno, verso la gente. E' un rischio da tener presente.

QUALI RAPPORTI CON IL MOVIMENTO

C'è poi la "questione" dei rapporti con il movimento anarchico, con i gruppi, le iniziative, i giornali che preesistevano allo sviluppo dei punk. Più in generale, vorrei capire quale atteggiamento nutrano i punk -quelli qui presenti, singolarmente, non necessariamente i punk in quanto tali- verso la nebulosa "movimento anarchico". Se ne sentono parte? Il fatto che in alcune località facciano riferimento a sedi anarchiche (a Genova al Ferrer, a Bologna al Cassero, etc.) che significato ha per loro? E la collaborazione alla stampa anarchica (di cui l'articolo sullo scorso numero di "A" e questa intervista non costituiscono che un momento iniziale) come lo vivono? Si sentono più la parte anarchica dei punk o l'area punk nell'ambito del movimento anarchico? Tutte domande inevitabilmente schematiche, ma insomma la questione è posta. Ed i molti interventi dimostrano che è sentita, molto sentita.
Per Fabio c'è una premessa indispensabile, ora come ora fondamentale. "Il movimento anarchico è diviso in varie aree" -dice in sostanza- "e a me sta a cuore soprattutto di non venir etichettato o fatto confluire in nessuna di queste aree. Poi, naturalmente, prendo quello che posso prendere di buono, do quello che posso dare di buono, parlo con tutti. La cosa più importante per i punx anarchici oggi è quella di non confluire in nessuna area del movimento anarchico." Daniele è pienamente d'accordo con Fabio: innanzitutto, nessuna strumentalizzazione nè confusione.

"Io avevo già prima dei rapporti con il movimento anarchico" -dice Cristina- "perchè da anarchica sono diventata punk anarchica, per cui avevo già una mia idea sul movimento anarchico e sui compagni: ci sono compagni con cui lavoravo prima, lavoro ora e lavorerò sempre, sono i compagni con cui sto meglio. Una cosa che a me scoccia un casino (già l' hanno messa in luce gli altri ) è che vedi questa grande divisione tra compagni, queste aree divise, e poi ti trovi in mezzo un po' come un pirla perchè magari vai in un posto con tutta la tua ingenuità (per esempio a Comiso contro i missili, o contro le elezioni) e poi invece di avere tanta gente intorno ti trovi solo della gente che sta litigando e ognuno ti dice "ho ragione io!" "no, ho ragione io !", e tu ci rimani di merda perchè quello che ti aspettavi di fare te era un lavoro insieme.
Magari può essere anche una cosa bella la parte critica, ossia ognuno dice la sua, ci si scazza anche un po' ma poi nel bene e nel male ci si scambia le idee: però delle volte proprio nel momento in cui stai facendo le cose pratiche c'è questa cosa qua, e noi ci siamo rimasti proprio in mezzo."

Marco è d'accordo nel segnalare i ripetuti tentativi di cui i punx anarchici sono stati oggetto per farli confluire in questa o in quell'area, e per questo ci tiene a definirsi punk anarchico: "ma io" -aggiunge- "ho un casino di fiducia in questo movimento e spero che non si ripetano più queste storie qua (per le quali, fra l'altro, sia a Comiso sia a Milano, ero stato molto male). Non posso credere che anche dentro al movimento anarchico ci sono stati questi tentativi di strumentalizzazione: invece ci sono stati."
Papalla la vede diversamente. "Credo innanzitutto che il punk è un movimento (se così vogliamo chiamarlo) di rottura con il passato, con qualunque passato. Rompere con il passato vuol dire anche rompere con un certo tipo di istituzione anarchica, quella di Malatesta e del centro anarchico in cui bisogna essere militanti militonti, o anche del rosso ed nero, del compagno serio che c'è sempre e che non si può permettere di avere ogni tanto i cazzi propri perchè bisogna andare lì per fare quella cosa. Per cui più che parlare di area, preferisco parlare di aria che si respira in certi posti."

Anche Fabio si identifica molto poco con le espressioni del movimento anarchico (gruppi, giornali, ecc.): "mi piace l'articolo sul quel giornale, posso valutare positivamente questa o quella cosa, ma ci tengo di più a determinare la mia identità."
Marco ribadisce che condivide le critiche che sono state fatte in merito ai tentativi di strumentalizzazione dei punx, ma non accetta che per questo motivo si possa arrivare ad isolarsi dal movimento anarchico. Gli altri negano che si voglia arrivare a tanto e il dibattito prosegue, molto vivace.
Sempre in tema di strumentalizzazioni si inserisce il capitolo, ormai chiuso definitivamente, dei rapporti fra i punx ed i mass-media. Dopo una serie di esperienze tutte negative, al Virus hanno deciso di non avere più rapporti con nessun giornalista: e citano l'assoluta non-collaborazione offerta proprio ieri all'ultimo arrivato, un inviato di "Repubblica". Anche con i giornalisti "rivoluzionari" non gli è andata molto meglio: dell' unica intervista rilasciata a "Passpartù", una rivista dell'autonomia padovana, sono tuttaltro che soddisfatti, ma soprattutto in due ci tengono che venga scritta qui la loro rabbia contro Damiano Tavolierie, che era stato anni prima redattore di "Controinformazione", che li convinse a lasciarlo girare dei filmati all'interno del Virus assicurando loro che era materiale per archivio: finito però, poco dopo, negli schedari dell'ufficio "devianza govanile" della Provincia.
"C'era il tempo" -ricorda Fabio- "in cui ci fidavamo di questi bastardi, di questi spandimerda e parlavamo con loro e ci sforzavamo di tirar fuori noi stessi, le nostre idee."
Lo interrompo e gli butto lì un "pensa quando lo dirai ai me, di noi di "A", per questa intervista" e lui tranquillo: E' possibile. Ormai, comunque, è da un anno che i punx del Virus hanno chiuso del tutto con i mass-media.

VEGETARIANI PERCHE'

L'"Espresso", L'"Europeo" ed altri giornali che si sono comunque occupati dei punx hanno sottolineato, oltre alla loro nonviolenza (ben chiarita all'inizio di questa intervista), anche il fatto che sono vegetariani. E' vero? Lo sono tutti? E che significato ha per loro?
Fabio è vegetariano: "ma non mi sta assolutamente bene che i mass-media ci presentino come "questi bravi ragazzi, nonviolenti, che non sanno nemmeno più spaccare una vetrina e sono vegetariani". Non mi va di comparire su un giornale solo come vegetariano, e non come anarchico e come uno che vuole cambiare tante cose determinatamente."
"In effetti" -spiega Cristina- "molti di noi sono vegetariani. Io penso all'anarchia non come ad una cosa futura, ma ad una cosa che voglio cercare di vivere il più possibile in questa mia vita, fin nelle più piccole cose. Voglio cambiare non solo le cose esternamente, ma anche tutte quelle piccole cose che sono piccole parti del potere dentro di me. Una di queste cose era quella di mangiare carne, cioè di considerare gli animali degli esseri inferiori a me: per questo molti di noi hanno deciso di diventare vegetariani. Comunque è solo una delle piccole cose che formano il nostro modo di vivere: essere vegetariana, essere ecologista, essere igienista ecc...."

Ancora più sentita è la lotta contro la vivisezione. "Anche molti gruppi che non sono vegetariani" -prosegue Cristina- "sentono molto la questione della vivisezione, si impegnano a distribuire volantini contro la vivisezione, contro lo spreco ed il lusso tipo pellicce." Fabio sottolinea che comunque anche il vegetarianesimo si sta quasi radicando tra i punk.
Daniele però mette in guardia dall'aspetto "moda": lui stesso personalmente ha cercato di essere vegetariano ma ora non gliene frega niente e mangia tranquillamente carne. Fabio non è d'accordo: "anche se uno non mangia carne per sola moda, comunque è uno che in quel momento non sta mangiando della carne, e questo già di per sè è positivo." Interviene anche Claudina, vegetariana anche lei: anche se non vi è una coscienza dietro, è già positivo che non si mangi carne (che definisce "una cosa orribile").

Contro l'eroina, ciò che rappresenta ed il business che ci sta dietro, i punx del Virus si sono impegnati molto.
"Agli inizi" -ricorda Marco- "tra noi punk c'era una logica molto apatica e l'eroina è entrata quasi automaticamente tra di noi. Ma il fatto che abbiamo iniziato ad agire, a fare qualcosa (innanzitutto proprio contro l'eroina), ha posto fine a quel fatto. Comunque va precisato che siamo contro l'eroina ma più in generale tutta la mentalità apatica e qualunquista che c'è tra i giovani." Fabio sottolinea come questa lotta contro l'eroina sia molto sentita dai punx italiani, mentre all'estero è spesso pochissimo sentita.
In queste iniziative, la possibilità di avere uno spazio in cui ritrovarsi è di fondamentale importanza. Eppure di spazi specificatamente punk ce ne sono pochissimi in giro: il Virus a Milano, il Tuwat a Carpi, da fine settembre uno spazio a Ferrara, degli appartamenti occupati a Bologna (ne parla Nicola, che racconta anche un po' della attività e dei problemi dei punk a Bologna). In altre località frequentano le sedi anarchiche. Ma nella maggioranza dei casi sono costretti a ritrovarsi in piazza, con tutte le difficoltà ed i problemi conseguenti: a volte per suonare utilizzano cantine, case private ecc., ma la situazione è per lo più precaria: al Sud, poi, è spesso drammatica.

E' Fabio a porre ora una domanda. I ruoli momentaneamente si capovolgono: "di che tipo è l'interessamento che avete voi di "A" per i punk oggi?" mi chiede.
"Innanzitutto -gli rispondo (preso un po' in contropiede)- "vorrei che il mio non fosse un interessamento per i punx, ma per delle singole persone. Francamente il primo approccio alla questione è stato di tipo "esterno": da militante anarchico sono stato colpito, incuriosito ed interessato a questo "fenomeno" di segno libertario. Questo però è un atteggiamento che scatterebbe anche per un "fenomeno" che accade in Birmania. Poichè però è un fenomeno anche italiano, anche milanese, poichè ci siamo trovati insieme in piazza in alcune manifestazioni e iniziative (come quella per Zanoni), allora -al di là della curiosità per un movimento nuovo, diverso e di esplicito segno libertario- c'è soprattutto la volontà di conoscere degli individui, che vivono in una certa maniera, che fanno più o meno delle cose che faccio io, che vivono con maggiore coerenza alcune cose, con diversa coerenza altre, che non sentono delle cose che sento io (per esempio il discorso della militanza), ecc. . Più che un interesse generico per i punx, c'è la voglia di conoscersi meglio con quelli che hanno la stessa volontà.
Per quanto riguarda poi quest'intervista, è naturale che come compagni che da una dozzina d'anni portiamo avanti una delle pubblicazioni anarchiche ci sia l'interesse (al caso un po' tardivo) a dare spazio ad un modo di essere, di pensare, ecc. di segno libertario qual'è appunto il punk. Non solo pensando alla fascia per così dire libertaria dei nostri lettori, ma anche per quegli anarchici che dei punx anarchici sanno poco o niente."

PER ADRIANO ERANO TUTTI FELICI

E' stato citato Zanoni, è logico che il discorso cada sull'analogo gesto di Adriano, il punk del Virus che proprio qualche giorno fa -esattamente il 6 settembre- avrebbe dovuto presentarsi in caserma a Bari ed invece ha scelto di rifiutare sia il servizio militare sia quello "civile".
Chiedo se anche tra i punx ci sia stato qualcuno che ha storto un po' il naso di fronte ad una scelta che a volte anche tra i compagni è giudicata inutilmente masochista (la prospettiva, si sa, è quella di un anno di carcere militare). "La sera che io l'ho detto al Virus" -racconta Cristina- "erano proprio tutti felici, c'era gente che si chiedeva "ma io come posso aiutarlo?", molti dicevano "quello che sta facendo Adriano è veramente grande", altri affermavano "io non ce la farei" ma erano pronti a sostenerlo in qualsiasi maniera. E questo non solo per la gente del Collettivo, ma anche per i punk che ci girano attorno."
Per Papalla, invece, l'obiezione totale presenta degli aspetti negativi, che sono poi i soliti messi in luce dai suoi "critici": che per un anno sei chiuso dentro senza possibilità di contattare molta gente (mentre in caserma puoi fare propaganda a più gente e non perdere del tutto i contatti con i tuoi compagni ), ecc. ecc...

La discussione si infervora: in molti rispondiamo a Papalla, sottolineando soprattutto il valore etico e la forza (anche propagandistica) della coerenza vissuta fino in fondo, da chi paga di persona per un'idea che in teoria ci accomuna tutti.
Papalla risponde a sua volta, riproponendo le maggiori possibilità di un lavoro tra i militari di leva, ed anche al Virus -tra punx- si riproduce una discussione non certo nuova. E' comunque evidente che la scelta di Adriano ha provocato al Virus, in chi la condivide, una tensione di partecipazione molto forte.
A sostegno della sua scelta non mancheranno le iniziative di sensibilizzazione. L'intervista, sempre più trasformatasi in una chiacchierata su molti temi, va avanti ancora per molto.

Si parla -tra l'altro- della problematica uomo/donna all'interno del Virus, dei rapporti tra punx e heavy metal (alcuni gruppi heavy hanno suonato al Virus), dei controversi rapporti tra punk anarchici italiani ed il più vecchio punk inglese (con i Crass ecc. ecc.), del rifiuto dei punx a farsi inquadrare nelle "bande giovanili" tipo guerrieri della notte, della possibilità di una loro prossima collaborazione ad "A" e ad altri giornali anarchici ecc. ecc...
Chi doveva prendere l'ultimo metrò se n'è già andato, ci salutiamo e ce ne andiamo anche noi cinque redattori e collaboratori alla rivista. In macchina, mentre attraversiamo la città quasi deserta, ci scambiamo le nostre opinioni a caldo su questi punx anarchici che ora conosciamo un po' meglio: i nostri giudizi (non molto articolati per il sonno incipiente) sono sostanzialmente positivi. Ma non conosciamo quelli dei punx.
Paolo Finzi

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