DISCREZIONALITÁ O DIRITTO?


Signor Ministro,
Prima ancora che siano spese parole inutili, prima di gettare fiumi d'inchiostro e di farci grandi con richieste solidali a questo nostro ghetto di sofferenza, ci piacerebbe sapere chi è Lei. Perché ciò che rappresenta lo sappiamo fin troppo bene.
È importante questo: può voler significare la differenza tra l'iniziare una costruzione di un solido palazzo, oppure di un evanescente castello di sabbia.
Se Lei infatti è solo un politico, noi non abbiamo niente da dirLe, e tutti risparmieremo tempo. Ma c'è anche il caso che Lei sia un uomo di legge che fa politica: allora risparmieremo egualmente tempo perché capirà subito, se già non l'ha capito, qual è il vero problema e su cosa si fondano le nostre richieste. Scegliamo, per fiducia e per augurio, la seconda ipotesi: d'altra parte noi sappiamo e Lei sa che stiamo giocando d'azzardo, che la vita stessa è un gioco e che la politica è un gioco, di cui per decenza, non elencheremo le peculiari caratteristiche.
Il problema, signor Ministro, non sono i sessanta giorni al posto dei quarantacinque, né l'esortazione da parte sua ad applicarli: anche questo sarebbe un gioco, e più che un gioco un evidente mezzo per soddisfare l'apparire. Il vero problema risiede in tre lettere, brevi, semplici, ma che insidiano il Diritto alla sua base; brevi e semplici ma grandi ed incombenti come una montagna friabile posta davanti ad una verde valle: può. Questo Può, aliena da sempre il Diritto, mina la dignità del Legislatore, gioca in maniera sporca ed iniqua con la vita del cittadino. Può: terza persona del verbo potere: in astratto confondibile con il verbo dovere.
Ci faccia caso, signor Ministro, dove appare Può è caos, possibile ingiustizia, è incertezza globale. Può è infatti Merito, mentre Deve è Diritto. Può è un cancro, Deve è un ferro chirurgico, anche se a volte doloroso. La legge Gozzini è perfetta in molti punti, la concessione di sessanta giorni è una prospettiva allettante, ma sinché il Magistrato potrà applicarla, e non dovrà applicarla, continuerà a servire a ben poco. Continuerà ad essere il nauseante paravento politico per dimostrare la magnanimità dello Stato nei confronti del piccolo carcerato, nascondendone invece l'atavico disprezzo. Non è certo con Lei, uomo di legge, che andiamo ad invischiarci in dotte considerazioni filosofico-legali. Sarebbe ridicolo per noi ed insultante per Lei, che di Diritto può ben dare lezioni. Quello che vogliamo dirLe e chiederLe, e che Lei ha ben compreso, è che la legge Gozzini, come tante altre, se deve essere veramente equa e funzionale, deve essere assunta come diritto, e non come concessione.
Deve assumere la logica di un sillogismo senza inquinamenti, senza valutazioni del merito, senza incertezze. Se tu, condannato, ti comporti bene ed i tuoi educatori danno prova scritta di una tua precisa volontà a reinserirti socialmente (premessa maggiore e minore, verità di fatto), allora ti "spetta" (chiusura del sillogismo)... hai diritto a.
Che è molto differente dalla "chiusura" attuale: allora, "se" il Magistrato è in linea con lo spirito del Legislatore, "se" si è svegliato di buon umore, "se" non gli hanno rubato la macchina il giorno prima, "se" il tuo aspetto non gli piace, "se" il questurino di turno non ti odia, "se" non abiti in una zona ad alta densità criminale, e "se", chi più ne ha più ne metta... allora ti "concedo".
Signor Ministro, Lei dovrebbe e potrebbe insegnarci che non si deve giocare con la vita e i sentimenti degli uomini. E i carcerati, nonostante siano i "cattivi" sociali, sono sempre e comunque uomini, che non solo soffrono, ma che hanno bisogno più che mai di tangibili segni di esempio e di modelli di comportamento, per potersi ricuperare, a se stessi ed alla società. Tra recluso e Stato non deve esserci una lotta, ma una volontà reciproca di collaborazione.
E per darvi inizio, per fare, per essere, non c'è che questa strada: imporre, sì, cautele e censure alle leggi, ma esprimerle univocamente come certezze, come puro Diritto, non come mere possibilità.
Tale proposizione viene espressa, più concretamente, e privandola della spontanea enfasi, anche per dipanare un clima di assoluta incertezza, riguardo la previsione ed il calcolo dell'applicazione delle citate leggi, che troppo ampio spazio offrono a delle esegesi che derivano, esclusivamente e, a nostro avviso erroneamente, dall'interpretazione stessa posta in essere dal Magistrato di turno.
E se Lei è l'uomo rappresentante la seconda ipotesi della nostra premessa, ciò che vogliamo credere e che ci auguriamo per tutti, è che si adoperi perché siano abolite quelle spaventose, tre piccole lettere che, affidandosi a soggettive, presunte ed illative massime di esperienza, tracciano come regola l' "id quod plerumque accidit" - cioè quello che comunemente accade - che viceversa, Lei sa e noi sappiamo, che formano solo delle sporadiche eccezioni.



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