Le donne in Palestina: un'introduzione storica
Tratta
da Fatima Leila e le altre
- incontro con le donne palestinesi, 1985
Fondazione Internazionale Lelio Basso per il diritto e la
liberazione dei popoli
Le donne palestinesi hanno cominciato
a partecipare alle lotte anticoloniali nel 1920, cioè tre
anni dopo la Dichiarazione di Balfour e l'occupazione britannica,
che diede un ulteriore impulso all'immigrazione dei coloni sionisti
in Palestina. La protesta palestinese era iniziata ben prima, già
nel 1891, quando un gruppo di notabili palestinesi di Gerusalemme
aveva inviato al governo ottomano, del cui impero la Palestina faceva
allora parte, una petizione per protestare contro gli abusi dei
coloni ebrei che cercavano di spogliare gli abitanti delle loro
terre e di introdurre armi nel paese.
Via via che aumentava l'immigrazione ebraica, s'intensificava la
protesta dei palestinesi e, negli anni '20, ci fu una serie di manifestazioni
e di rivolte contro il mandato britannico e contro la minaccia sionista.
All'inizio, la partecipazione della donna alle lotte si era data
sul piano individuale ma, con l'incalzare degli eventi, le donne
cominciarono ad organizzarsi e, nel 1929, 300 di esse si riunirono
a Gerusalemme per chiedere all'Alto Commisario britannico il ritiro
della dichiarazione di Balfour e l'arresto dell'immigrazione ebraica
in Palestina. Nello stesso anno, sempre a Gerusalemme, viene fondata
l'Unione delle Donne Palestinesi, la cui prima presidentessa è
Nimat Al Alami. In pochi anni, tutte le città palestinesi
hanno una sezione locale dell'Unione e sono collegati anche tutti
i villaggi.
L'unione assicura un aiuto sociale ed umanitario alle famiglie dei
partigiani e agli orfani caduti, organizza riunioni politiche e
manifestazioni e invia sue delegazioni in altri paesi arabi a chiedere
sostegno alla lotta palestinese.
Nei primi anni, le donne che animano l'Unione si impegnano
a fondo in un'attività capillare, i cui frutti si vedono
nel 1936, quando scoppia lo sciopero generale che paralizza la Palestina
per sei mesi. Le donne partecipano alle manifestazioni, distribuiscono
volantini: poi il movimento si estende e l'organizzazione della
resistenza diventa clandestina. Le donne, allora, trasmettono segretamente
le informazioni militari e trasportano le armi da una parte all'altra
del paese, attraversando i posti di blocco.
Gli inglesi non sospettavano neppure alla lontana che queste donne
dall'aspetto ancestrale ed educate in modo tradizionale potessero
essere capaci di atti di resistenza. Eppure, già allora esse
partecipavano alla lotta armata insieme agli uomini ed è
nel corso di questi combattimenti che caddero le prime vittime.
Ad eccezione del piccolo gruppo di donne dell'alta borghesia, il
cui impegno politico veniva più facilmente accettato dal
proprio ambiente intellettuale e filo-occidentale, la maggioranza
delle donne attive, cioè le donne del popolo, si trovava
ad affrontare una situazione non facile. Da testimonianze dirette
di chi ha vissuto in quegli anni sembra che, soprattutto all'inizio,
l'impegno della donna si sviluppasse solitamente a fianco del suo
uomo; quando il marito, il padre, il fratello andavano in montagna,
le donne della famiglia assicuravano loro i rifornimenti. Sotto
la pressione della lotta, arrivare a svolgere un ruolo autonomo
è stato un breve passo, e rapido è stato il dilagare
della presa di coscienza nazionale.
Progressivamente, il movimento coinvolgerà anche il ceto
medio, più tradizionalista e dai ruoli più rigidi:
qui le donne hanno dovuto dar prova di molta lucidità e di
molta fermezza per guadagnarsi il rispetto e il riconoscimento della
loro società e scuoterne, dalle fondamenta, i vecchi tabù.
Dopo il 1947, la partecipazione della donna, in particolare nelle
città, non era ostacolata: le donne scavavano trincee, alzavano
barricate, costruivano ripari, cercavano armi e cibo, assicuravano
le cure mediche. Nei primi mesi dello sciopero del 1936, 600 studentesse
si riunirono a Gerusalemme dove, tra l'altro, votarono per il proseguimento
dello sciopero generale finchè non fossero stati raggiunti
due obiettivi: fermare l'immigrazione massiccia degli ebrei e indire
le elezioni nazionali. Sono numerosissime le storie di donne del
popolo, soprattutto contadine, che portavano ai partigiani in montagna
le armi nascoste nelle ceste di verdura. Alcune sono rimaste famose,
come Khalila Ghazal, uccisa dai britannici nel 1936 mentre cercava
di socorrere dei compagni feriti.
Anche dopo lo sciopero, la sollevazione del popolo palestinese continua
e si trasforma in ribellione armata, che verrà repressa dalle
truppe britanniche con l'attiva collaborazione delle squadre sioniste.
Nonostante i 15.000 morti e le difficoltà dovute al fatto
di dover combattere sia contro gli inglesi che contro gli sionisti,
due nemici più armati e meglio organizzati di loro, i palestinesi
continuarono a lottare fino al 1939, vigilia della seconda guerra
mondiale.
A questo punto ci sembra utile collocare meglio la questione palestinese
nel contesto internazionale al quale appartiene e cercare quindi
di cogliere la complessità dei nessi che la condizionano.
Dobbiamo ricordare che erano state le persecuzioni degli ebrei nella
Russia zarista, le discriminazioni, i ghetti, l'antisemitismo in
buona parte dell'Europa a far nascere e ad alimentare il movimento
sionista e che era stato l'impero coloniale più forte dell'epoca,
l'impero britannico, a sostenerlo fino al punto di dargli una terra
che apparteneva ad altri, cioè ai palestinesi. La Palestina
fu coinvolta solo marginalmente nella seconda guerra mondiale, ma
questo segnò, in realtà, la sua sorte. Infatti il
razzismo e l'eccidio degli ebrei da parte dei nazisti, sebbene indirettamente,
completarono l'opera dell'impero britannico, rendendo irreversibile
il progetto sionista. Prima del 1939, l'immigrazione degli ebrei
era tanto limitata da far temere ai sionisti il fallimento del loro
progetto. Di nuovo si sarebbe intesificata dopo l'avvento del nazismo
e del rifiuto, da parte degli USA, di aumentare le quote di immigrazione
degli ebrei nel loro paese. Gli stati europei seguirono la stessa
politica, giustificandola col rifiuto di credere all'esistenza di
campi di sterminio.
Finita la guerra, quando emerse l'orrore dei campi di concentramento
nazisti, l'appoggio all'impresa sionista fornì agli europei
l'occasione per cercare di riscattarsi dalla complicità,
dalle connivenze, dai silenzi di cui erano stati colpevoli durante
il nazismo, e allo stesso tempo rappresentò un modo indolore
per evitare che gli ebrei sopravvissuti cercassero asilo nei loro
paesi.
Inoltre gli Stati Uniti, il cui interesse economico (petrolio) e
strategico per il Medio Oriente era andato aumentando negli ultimi
decenni, entrarono massicciamente in scena, appoggiando incondizionatamente
l'alleato sionista prima ed israeliano poi, con ingenti aiuti in
armi e denaro. Quanto ai sionisti, avevano in mano un'arma nuova,
l'accusa di antisemitismo, per mettere a tacere chiunque osasse
criticare la loro politica. In questo modo, a differenza di altri
popoli che si battono per la loro liberazione, i palestinesi si
trovarono davanti a ostacoli multiformi. Anzitutto, un nemico chiaramente
individuale e tangibile, assieme al suo formidabile alleato americano.
E, in più, un'opinione pubblica occidentale ostile alla loro
causa per ragioni estranee alla storia palestinese e costretta,
dalle proprie colpe passate, a difendere con le parole e con i fatti
la politica espansionistica dello stato di Israele assieme ai soprusi,
la violenza, i massacri che inevitabilmente ha comportato e tuttora
comporta.
Nel 1974, la Gran Bretagna dichiara la propria rinuncia al mandato
sulla Palestina e porta la questione davanti all'Organizzazione
delle Nazioni Unite: l'assemblea Generale dell'ONU, nel novembre
dello stesso anno, approva la raccomandazione 181 che prevede la
divisione della Palestina mandataria in tre parti:uno stato ebraico,
uno stato palestinese e una zona internazionale (Gerusalemme). I
sei mesi che seguono sono i più cruenti della storia della
Palestina: non contenti del 56% del territorio palestinese, attribuito
loro dal piano di spartizione dell'ONU, i sionisti si prefiggono
l'obiettivo di conquistare la maggiore quantità possibile
di territorio del futuro stato palestinese. Attaccano militarmente
i villaggi, ammazzando e distrugendo per incutere terrore nella
popolazione e farla fuggire. Quando, il 14 maggio del 1948, in violazione
delle risoluzioni ONU, Ben Gurion proclama la nascita dello stato
di Israele, i sionisti occupano ormai il 77% del territorio palestinese.
La cacciata dei palestinesi, culminata nel 1948, ha modificato interamente
la struttura economica e sociale della loro società. La famiglia
si disgrega. Molti uomini non ci sono più: sono stati uccisi
o fatti prigionieri, oppure sono all'estero in cerca di lavoro.
Le donne sono costrette ad assicurare la sopravvivenza della famiglia.
Si costituisce allora una associazione femminile segreta, "Fiordaligi",
che si occupa dell'approvvigionamento in armi, cibo e vestiario,
dell'addestramento delle donne e della loro partecipazione alle
operazioni militari.
Contemporaneamente, altre donne portano avanti una lotta spontanea:
manifestazioni, scioperi, boicottaggi mentre, ad opera di donne
della piccola borghesia, nascono numerose associazioni di assistenza
e di beneficenza, in particolare a favore delle famiglie che erano
finite nei campi profughi in Giordania, Libano e Siria. Questa situazione
si protrae fino al 1967. Nel mese di giugno di quell'anno Israele
scatena una nuova offensiva ed occupa il resto della Palestina,
cioè la Cisgiordania, Gaza e l'intera città di Gerusalemme,
il Golan siriano e il Sinai egiziano. Di nuovo, morti, feriti, senzatetto,
chi fugge per la seconda o terza volta, mentre chi rimane subisce
la violenza dell'occupazione: coprifuoco, soprusi, espropri, prigione.
Nella Cisgiordania e a Gaza le donne palestinesi protestano contro
l'occupazione con manifestazioni. Dal 1968 la partecipazione delle
donne alle attività politiche aumenta considerevolmente.
Uno degli slogan più usati è "Prima la terra
e poi il nostro onore di donne". Nella stampa internazionale
di quell'anno leggiamo: febbraio, 5 donne arrestate a Nablus
perchè armate e militanti in un'organizzazione di guerriglia;
marzo, 8 donne arrestate perchè proteggevano dei guerriglieri
di Al Fatah; aprile, 300 donne manifestano a Gerusalemme,
molte arrestate e alcune ferite; maggio, 5 donne uccise durante
una manifestazione a Beit Hanun, 200 donne manifestano a Gaza: questo
elenco si potrebbe allungare indefinitamente, ma basti dire che,
da questo momento, sono numerosissime le donne che entrano a far
parte della resistenza armata, che manifestano per le strade, che
fanno scioperi della fame, che organizzano collette per le famiglie
dei combatenti. Basta un esame anche superficiale della stampa israeliana
per accorgersi subito di quanto le donne riescono a creare, nei
territori occupati, un clima continuo di agitazione e di rivolta.
Il fatto che molte migliaia di donne siano state nelle galere israeliane
per ragioni politiche è di per sé una conferma del
loro coinvolgimento nella lotta. Non abbiamo dati recenti sul numero
di donne finite in prigione ma, se prendiamo l'intera popolazione
dei territori occupati, maschile e femminile di tutte le età,
la media generale dei mesi trascorsi in galera, secondo una recente
tesi di laurea dell'Università di Bir Zeit, è di sette
mesi a testa.
L'OLP, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina fu fondata
nel 1964 ma l'importanza delle sue attività militari si afferma
qualche anno più tardi. Sempre nel 1964, nasce anche l'Unione
Generale delle Donne Palestinesi, che ha sezioni in tutti i paesi
arabi dove ci siano comunità palestinesi. A capo dell'Unione,
viene eletta Issam AbdAl-Hadi di Nablus che viene arrestata nel
1968 e poi definitivamente espulsa dagli israeliani. L'Unione lavora
soprattutto nei campi profughi del Libano. Nel 1968 per la prima
volta vengono aperti dei campi femminili di addestramento militare.
Questi campi hanno fornito alla resistenza combattenti di primo
piano. Una delle prime donne cadute in un'azione di guerriglia è
Shadi Abu Ghazaleh di 21 anni.
E' fuori di dubbio che la donna palestinese ha svolto un ruolo attivo
ed energico nella rivoluzione, ma ha dovuto superare numerosi ostacoli.
La società araba ateriore al 1948 era conservatrice e patriarcale
(e, in parte, lo è ancora). Per partecipare alla rivoluzione
del suo popolo, la donna palestinese ha dovuto quindi vincere la
resistenza legata a una tradizione repressiva e questo fatto ha
costituito un elemento di stimolo per tutta la società. Gli
eventi storici l'hanno lanciata, impreparata, nel pieno di una guerra
di liberazione, senza lasciarle il tempo di adattarsi. Nei campi
profughi, dove sono finite soprattutto le famiglie contadine, la
donna aveva perso tutto (il paese, la terra, la fonte di reddito,
spesso anche il marito), e si trovava addosso, nelle peggiori condizioni,
tutto il carico famigliare.Eppure, capì subito che aveva
un altro compito, prioritario, da svolgere: formare i fedayin, parola
che in arabo significa "colui che sacrifica la propria vita
per quella altrui". Infatti, il periodo che va dal 1948 al
1967 è il periodo che produce i partigiani dell'OLP.
Sono state le madri, nei campi, che si sono preocupate di conservare
l'identità palestinese. Con fermezza e lucidità, hanno
educato una generazione di uomini e di donne pronte a dedicarsi
alla causa della liberazione della propria terra. Le madri, ma anche
le nonne, hanno stimolato e alimentato la formazione di una coscienza
nazionale palestinese nei bambini e nei ragazzi, raccontando gli
atti eroici dei partigiani, la resistenza di interi villaggi, cantando
i canti della loro terra e quelli di lotta. Se si chiede ad un bambino
palestinese di dov'è, risponde sempre con il nome del luogo
di origine della sua famiglia.
Nella sua dispersione, il popolo palestinese ha conosciuto ogni
forma di dominio e di persecuzione. I palestinesi rimasti in Palestina,
sotto lo stato di Israele si sono visti, da un giorno all'altro,
togliere il primo, primissimo diritto di ogni cittadino: quello
di chiamarsi col nome che è realmente il suo. Un palestinese
non ha più diritto di chiamarsi tale. E' vietato. Per legge
si chiama ormai "arabo di Israele". I palestinesi dei
territori occupati sono, in gran parte, quelli fuggiti dalla loro
terra nel 1948 e che hanno quindi perso tutto. Vivono per lo più
in campi profughi. Insieme agli altri, originari di Gaza e della
Cisgiordania, si trovano da 18 anni sotto l'occupazione israeliana.
Hanno perso i loro diritti politici, cioè non possono eleggere
i loro rappresentanti al governo e sono quindi emarginati dalla
vita sociale, economica e politica del loro paese. Non hanno più
il diritto alla loro proprietà, alla libertà di espressione,
di organizzazione; non hanno diritto ad un sistema educativo e sanitario
adeguato, ad una cittadinanza, quindi a un passaporto che permetta
loro di viaggiare; non sono liberi di avere un sindacato. I profughi
che sono finiti nei paesi arabi subiscono, pure loro, varie forme
di repressione se non addirittura di massacro da parte degli stessi
regimi arabi (con o senza la collaborazione israeliana) come è
avvenuto nel 1970 in Giordania, durante l'ormai famoso "settembre
nero", o nel 1976 in Libano nel campo profughi di Tall el Zaatar.
Ma l'agressione più crudele e spietata, perchè esercitata
con una superiorità schiacciante di armi e mezzi forniti
dagli USA, i palestinesi l'hanno subita in Libano. Nella primavera
del 1982, scoppiano nei territori occupati numerose manifestazioni
di protesta, represse dall'esercito israeliano con parecchi morti
e la distruzione dei sindaci di molte città e villaggi. La
forza dell'OLP, la sua capacità di direzione dell'intero
popolo palestinese nonostante la dispersione, la sua libertà
di crearsi alleanze e nel mobilitare la solidarietà a livello
internazionale intimoriscono i governanti israeliani. Benchè
da più di undici mesi gli accordi di tregue sulle linee d'armistizio
al nord di Israele vengono scrupolosamente rispettati, il 6 giugno
le truppe israeliane attaccano il Libano. L'obiettivo, dichiarato
da numerosi leader israeliani, è la distruzione dell'OLP,
che ha la sua sede a Beirut. Ciò significa smantellare l'organizzazione
sociale dei palestinesi, le scuole, gli ospedali, i luoghi di lavoro
- per far fuggire la popolazione. Sono questi infatti gli obiettivi
privilegiati degli aerei israeliani che bombardono a tappeto, dal
mare, dalla terra e dall'aria, il Libano meridionale facendo decine
di migliai di morti e di feriti e centinaia di migliaia di senzatetto.
L'esercito di Israele bombarda Beirut ovest, la assedia e blocca
i rifornimenti d'acqua, luce e cibo. In agosto, con la mediazione
USA e con la forza multinazionale composta da americani, francesi
ed italiani, che ha il compito di proteggere le popolazioni civili,
i dirigenti e i guerriglieri palestinesi lasciano la città.
Ma il 13 settembre - 14 giorni prima di quanto previsto dagli accordi,
negoziati anche con l'OLP - e senza consultare quest'ultima, la
forza multinazionale lascia Beirut, che viene immediatamente occupata
dall'esercito israeliano. Il 15 gli israeliani installano il loro
quartier generale in un palazzo di sette piani a 200 metri dal campo
palestinese Chatila. Nella notte del 16 viene sospesa l'erogazione
dell'energia elettrica della città, ma i campi di Sabra e
Chatila sono illumiati a giorno dai razzi israeliani (3 al minuto).
Squadracce di falangisti (milizia fascista) libanesi dirette dagli
israeliani entrano nei campi e per 40 ore scatenano un massacro
di dimensioni apocalittiche, accompagnato da sevizie atroci e da
agressioni anche al personale medico dei due ospedali adiacenti.
Gli assassini infieriscono in particolare sulle donne di tutte le
età, anche sulle bambine, e sono rimaste immagini raccapriccianti
delle violenze e delle mutilazioni di cui esse sono state vittime.
Le pattuglie israeliane circondano i campi, impedendo l'uscita dei
profughi e l'ingresso ai primi giornalisti. Bulldozer israeliani
scavano grandi fosse comuni e distruggono le casupole dei rifugiati
con gli abitanti - morti o vivi - all'interno. Il 29 settembre l'esercito
israeliano si ritira e arriva un nuovo contingente di forze italiane,
francesi e statunitensi. Il massacro di Sabra e Chatila ha scosso
l'opinione pubblica mondiale. Ma la situazione disperata nella quale
continuano a vivere i palestinesi superstiti nel Libano non fa notizia.
Di nuovo, chi ne porta il carico maggiore sono le donne. Straziate
dai lutti e dal dolore, circondate da invalidi e mutilati, senza
casa, senza mezzi, senza lavoro, riescono in qualche modo a sopravvivere.
La guerra ha rafforzato la loro coscienza politica e non c'è
giorno che nel sud del Libano non ci siano manifestazioni e atti
di guerriglia contro l'invasore israeliano. Le donne vogliono che
si ricostituiscano le unità combattenti.
Dicono: "Dammi dei figli, mio Dio, e ne farò dei fedayin".
Donne dal mondo
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