Donne, indie e zapatiste nella guerra del Chiapas

GUIOMAR ROVIRA
SAN CRISTOBAL DE LAS CASAS

BRUNE, PICCOLINE, scalze, cariche di colori nelle loro bluse bordate di greche preziose e di fiori, circondate di figli con occhi d'ossidiana, le donne indigene del Chiapas hanno iniziato nel gennaio del '94 il loro lento risveglio. Fiorisce la loro coscienza, ritrovano se stesse. "Il cammino ormai è aperto", direbbe la comandante Trini, una nonna tojolabal (una delle etnie indigene del Chiapas, ndr.) convertita in membro del Comitato clandestino rivoluzionario indigeno (Ccri).

Oggi, migliaia di donne indigene, "basi di appoggio" dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale, soffrono le conseguenze dell'aver osato aspirare a una vita migliore. La violenza politica, scatenata contro i villaggi rebeldes, si è resa responsabile di nuove vittime, negli ultimi giorni.

Le bande armate

Le bande armate paramilitari fanno le loro incursioni ogni volta con maggior durezza e miglior armamento, sotto i buoni auspici del governo e appoggiate e addestrate dalla polizia e dall'esercito federale.

Ci sono circa quattromila e cinquecento indigeni che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi. Cinquentento tra loro sono rifugiati tra i monti, senza protezione dalle intemperie, donne, uomini, bambini e anziani. Non hanno cibo né abiti adatti né medicinali. La strategia del governo è quella del logoramento, e di non ottemperare agli accordi che aveva firmato nel febbraio del '96 con l'Ezln. Né intende, il governo, riaprire il dialogo. Questo ha scatenato una autentica guerra "sporca". Alcune località nel nord del Chiapas, e Chenalónegli Altos, le montagne sopra San Cristóbal, sono diventati delle polveriere.

Le donne sono vittime ora non solo di queste inumane strategia, ma perché le pallottole sono dirette anche contro di loro. Due indigene totziles, una di 45 anni e l'altra di 16, sono state assassinate da membri del Pri (il partito al potere in Messico, ndr.) il 18 novembre scorso nella comunità Aurora Chica, nel municipio di Chenaló, mentre cercavano di rifugiarsi sulla montagna nella loro fuga di fronte ai paramilitari. A Yaxjmel, un villaggio vicino, i priisti hanno bastonato e violentato tre donne. Poi le hanno legate a un altra persona, un uomo, e le hanno tenute incarcerate per tre mesi. Tutte le umili case degli zapatisti sono state bruciate. Sono già cinquanta le case che il fuoco si è portato via. E le donne, la cui vita gira attorno al focolare, si son viste spogliate di tutto, ovvero del poco che possedevano nella loro povertà. Hanno perduto il raccolto di caffè, hanno rubato loro i pochi animali, non possono raccogliere il mais dal loro campo.

Donne e resistenza

Perché? Sono zapatiste, o semplicemente di organizzazioni all'opposizione. Le bande paramilitari che operano in Chiapas con la connivenza del governo sono già sei. La decomposizione della società provocata dalla guerra "a bassa intensità" promossa da un governo che non fa nulla per dare risposta ai problemi sollevati dal conflitto zapatista ha provocato, per molte indigene, violenze contro loro stesse e i loro diritti, morte nelle loro famiglie, pallottole e terrore.

Ma, nonostante tutto, le zapatiste non spariscono. Il primo gennaio del '94 le donne indigene del Chiapas integrate nella guerriglia dell'Ezln come combattenti, miliziane e "basi d'appoggio", dissero: ci leviamo in armi per essere ascolate, perché la nostra vita era il silenzio, l'oblio. Un adonna indigena e insorta di 26 anni, la mayor Ana Maria, diresse la presa di Sin Cristóbal de Las Casas con un esercizio di impeccabilità militare. Una donna tzotzil inferma e analfabeta, la Comandante Ramona, è membro della direzione politica della guerriglia. Le donne del Chiapas hanno visto di colpo rotto lo specchio di se stesse, che le condannava ad essere mogli o madri sofferenti e mute.

L'esempio delle zapatiste ha reso possibile che le indigene cominciassero a pensarsi in modo diverso, capaci di altre cose, di uscire dalle loro case, di aspirare a qualcosa di meglio. Esse, portatrici delle culture ancestrali, guardiane della lingua, degli abiti e delle tradizioni durante secoli di colonizzazione e di spoliazione, hanno scoperto in molti casi quanto sono oppresse. E solo così il mondo ha avuto orecchi, loro hanno potuto pronunciare le loro parole e così recuperare la loro storia e la coscienza di se stesse. Le indigene delle comunità robelli hanno scoperto se stesse.

Perché infine, con la loro scommessa suicida e la loro ribellione armata, hanno intercettato lo sguardo dell'"altro". Non solo gli sguardi minacciosi dei soldati che ora sorvegliano i loro movimenti e le impauriscono nelle loro faccende quotidiane, come andare a prendere l'acqua. Non solo lo sguardo delle telecamere, davanti alle quali donna Maria, india chol, ha potuto racocntare che esperienza disperata sia non avere da dar da mangiare ai figli, non poterli curare quando si ammalano, vederli morire di diarrea o di una febbre che qualunque ambulatorio potrebbe curare. Si è vista la comandante Ramona, vestita con il huipil bordato, con la sua umile veste tradizionale, gridare per farsis entire dal governo e dal mondo.

Nel passato mese di settembre moltissime donne zapatiste, "basi di appoggio" (ossia donne dei villaggi, donne con famiglia) hanno affrontato la tremenda prova di lasciare i loro mariti a vegliare sulla casa e partire verso Città del Messico, come parte della marcia dei 1.111 zapatisti. Erano circa 400 donne, scelte dalle loro comunità. Viaggiavano con i loro passamontagna su quaranta pullman e molte di loro per la prima volta uscivano dalla selva o dal territorio del loro municipio. Hanno sofferto, perché non hanno l'abitudine di viaggiare. Ma le soteneva la curiosità e la fiduzia in una lotta che le include, e la promessa da mantenere nei cofnronti di quelli che avevano lasciato nelle comunità.

Lo Zocalo, la piazza centrale della capitale, accolse in un grandioso abbraccio i 1.111 uomini e donne zapatisti. Però fu una donna, con tutte quel che questo implica a livello simbolico, a prendere la parola a nome dell'Ezln davanti alle centinaia di migliaia di cittadini. La voce di Claribel fece irruzione come uno strappo nella storia: "Non siamo disposti a tornare nell'angolo dell'abbandono e della miseria senza speranza.
Se Zedillo (il presidente messicano, ndr.) ha una parola, la mantenga e la legge che riconosce i nostri diritti come popoli indigeni venga riconosciuta. Se Zedillo non ha una parola, allora ci faccia guerra e risolva con le pallottole ciò che non vuole risolvere con la ragione...".

Le parole di Claribel

Prima del '94, chi avrebbe immaginato, in Messico, che una ragazza indigena poteva parlare davanti a centinaia di migliaia di persone nello Zocalo della città più grande del mondo? Ora il discorso di Claribel scorre nel cyberspazio, nelle pagine dei web zapatisti, dal Giappone passando per Melbourne, il Canada, gli Stati uniti, l'Italia, il Togo, per citarne qualcuno. Però così come la dignità ritrovata ha implicato un cambiamento abissale per le donne indigene del Chiapas, le loro condizioni di vita continuano a essere le stesse, o peggiori. Continuano ad essere povere. E con l'esercito e i paramilitari addosso. Il governo preferisce mantenere in Chiapas i suoi 40 mila soldati, un migliaio di veicoli, le armi, le infrastrutture per la guerra, invece che, con questi soldi, costruire ospedali e scuole, soddisfare i bisogni di pane, tetto, lavoro, salute... E' più conveniente per questo mondo degli affari transnazionali alimentare la guerra che le bocche dei bambini. Ma, accada quel che accada, le parole delle donne del Chiapas sono state pronunciate e, come dicono gli zapatisti: "Non muoia, il fiore della parola".

* autrice de "Le donne di mais",

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