Una tesi: e se fosse la prima guerra contro il proletariato universale?

La guerra, da quando e' iniziata, e' stata analizzata, in modo piu' o meno soddisfacente, a partire da diversi angoli visuali. Vi e' stata naturalmente una prevalenza della lettura geo-politica ed una ricerca delle cause di ordine economico. Ma non sono mancati riferimenti all'aspetto, per cosi' dire, soggettivo del conflitto in atto. E cosi' c'e' chi ha parlato di masse arabe in lotta e della necessita' dell'imperialismo di frenarne la spinta contestativa degli attuali assetti planetari. In questo senso ci si e' di nuovo interessati della eterna questione palestinese, magari appoggiando quelle formazioni che non sostengono la scelta di Arafat di far parte della alleanza contro il terrorismo. In particolare dopo la messa fuori legge dell'ala militare del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP), su molti organi di stampa di movimento si e' insistito sul valore della battaglia portata avanti da questa formazione di derivazione maoista. E' senz'altro giusto, diciamo noi. Occorre appoggiare chiunque possa costituire una alternativa sia alle borghesie arabe sia alle tendenze di carattere marcatamente islamico. Il fatto che non ci piaccia il modo razzistico con il quale i nostri media presentano il "mostro dell'integralismo islamico" non vuol dire che vediamo in formazioni come Hamas una possibile via per la liberazione del proletariato palestinese, anzi. Ma la questione che piu' ci sta a cuore e' un'altra e forse proprio il riferimento al conflitto israelo-palestinese ne rivela appieno la portata. I lavoratori palestinesi sottopagati e concentrati in quei territori che ricordano i bantustan del Sudafrica che praticava l'apartheid, sono qualcosa di diverso da noi, dagli sfruttati del cuore dell'occidente? La risposta non puo' che essere negativa. Gli e' vero che i palestinesi vivono una condizione eccezionale che risulta essere lontana dalla nostra quotidianita', ma e' anche vero che sono integrati in una economia a capitalismo avanzato come e' quella israeliana, da cui dipendono i territori ed una parte stessa della borghesia palestinese (sebbene questa cerchi di smarcarsi dalla tutela di Tel Aviv aprendo ad investimenti stranieri, europei in particolare). In sostanza, i lavoratori palestinesi sono proletari nel senso pieno del termine, ma il loro problema non e' solo quello di non possedere i mezzi di produzione e di lavorare per produrre una ricchezza che gli si erge contro, estranea e nemica. Per loro la questione e' anche quella della liberazione nazionale. Anzi, quest'ultima risulta essere la prima questione. Per motivi oggettivi, ma anche per via di quella posizione tradizionale che ha sempre pensato la rivoluzione -in situazioni dove non era riconosciuta l'identita' di un popolo- in due tempi: quello della conquista della indipendenza nazionale e quello della rivoluzione socialista. Va da sé che il proletario palestinese non si percepisce immediatamente come proletario, ma come membro di un popolo oppresso cui e' negato il diritto alla esistenza su questo pianeta. Si', qui sta il problema. Che ha nella questione palestinese l'esempio piu' eclatante, ma che -in realta'- riguarda la totalita' di quel mondo arabo che stiamo osservando in tempi di guerra. Perché diciamo cio'? Forse perché viviamo in tempi di globalizzazione. O meglio, di internazionalizzazione reale del capitale. Gia', perché a noi -che siamo poco avvezzi al nuovismo- il termine globalizzazione piace poco, gli attribuiamo un valore riconducibile al solo aspetto descrittivo. Laddove, quando usiamo la definizione Internazionalizzazione del capitale ci riferiamo non ad un processo iniziato ora, ma ad un processo connesso al capitalismo sin dalla sua genesi. Ad un processo descritto, come ricorda un intellettuale servile ma non sciocco come Hans Magnus Enzensberger, gia' nel "Manifesto dei comunisti" del 1848. Ora, i termini radicali assunti da questo processo nell'ultimo ventennio, con fenomeni come il dislocarsi di un medesimo ciclo produttivo su scala planetaria, hanno fatto pensare a qualcosa di nuovo, ma cosi' non e' o almeno non del tutto. Stiamo assistendo piu' che altro ad una intensificazione del processo di internazionalizzazione connaturato al modo di produzione capitalistico. Il che porta pure a salti qualitativi, ma essi vanno intesi come sbocco estremo di qualcosa che viene da lontano. E' un po' come se su scala planetaria, nel mercato mondiale, avvenisse quello che e' gia accaduto nel mondo della produzione. Dove si e' passati dalla sussunzione formale del lavoro alla sua sussunzione reale. Come si sa, con il pieno dispiegarsi degli effetti della rivoluzione industriale, si e' passati da una attivita' manifatturiera che ancora gran parte conservava degli aspetti della lavorazione artigianale ad una prassi produttiva basata sulle grandi fabbriche, che via via ha perso ogni residuo rapporto con le forme produttive precedenti (si pensi al passaggio dall'operaio professionale, capace di ricostruire, in quanto lavoratore singolo, per intero il processo produttivo, all'operaio massa, ancorato ad una mansione ripetitiva ed impossibilitato a descrivere nella sua interezza il ciclo di lavorazione di una merce). Bene, con l'internazionalizzazione reale del capitale, il processo inarrestabile di espansione del capitale e' arrivato a toccare ogni landa del pianeta, anche la piu' dispersa. Operando in due sensi: in senso formale, cioe' collocando nello scambio delle merci su scala internazionale i risultati di attivita' un tempo legate al puro e semplice sostentamento di una comunita'; in senso reale, cioe' introducendo le forme produttive propriamente capitalistiche e non limitandosi ad integrare nel mercato mondiale formazioni economico-sociali precedenti al capitalismo. Ora, il portato di questo processo inarrestabile che si suole chiamare, attualmente, globalizzazione, e' il definirsi del proletariato universale, come classe unica degli sfruttati del pianeta, sia pure composta di mille particolarita' e di mille segmenti. In pratica, se il processo in questione avanzasse senza battute d'arresto (e la direzione intrapresa non ci sembra francamente arrestabile), di qui ai prossimi decenni in molti paesi la strategia delle forze rivoluzionarie dovrebbe subire seri mutamenti. Passando dalla scelta delle alleanze sociali tra soggetti oppressi (dai contadini agli operai, fino a settori impoveriti di piccola borghesia urbana) alla necessita' di ricomporre una sola classe frammentata. In sostanza si dovranno affrontare i nostri stessi problemi (al di la' della maggiore crudezza delle forme dello sfruttamento). E' ovvio che di questo sono coscienti i settori piu' "intelligenti" del capitalismo internazionale. Che, infatti, al di la' di altre motivazioni, stanno portando avanti quella che possiamo definire la prima guerra contro il proletariato universale. Certo, e' vero che questa guerra e' fortemente voluta dagli States per riprendere in mano la situazione, per riconquistare una egemonia in parte perduta in alcuni angoli del globo e per rilanciare la propria economia attraverso la produzione di "guerre mondiali a bassa intensita' (si veda il "Bilancio del Pentagono per il 2001", uno scritto di Gregorio Piccin pubblicato su www.intermarx.com). Ed e' pure vero che tra i suoi moventi c'e' il controllo delle risorse energetiche. Lo ha scritto finanche l'arabo "civilizzato" Magdi Allam su "La Repubblica", ricordando che il governo talebano e' stato creato dagli americani per favorire la stabilita' dell'Afghanistan, precondizione per il passaggio in quel territorio di un oleodotto e di un gasdotto che, attraversando l'Asia centrale, dovevano avere il loro sbocco nell'Oceano Pacifico (in Pakistan). E' anche vero che i proclami di quell'oscuro personaggio che risponde al nome di Bin Laden non lasciano dubbio alcuno: egli si fa portatore delle istanze di una parte della borghesia araba che vuole controllare da sé le proprie risorse energetiche. Una posizione forte soprattutto in Arabia Saudita, laddove si vocifera da tempo addirittura di un golpe che spinga il paese ad una direzione sempre meno filo-americana. D'altra parte di "guerra anti-saudita" non ne abbiamo parlato noi, nelle nostre sedi di movimento, sempre piuttosto carenti quando si tratta di analizzare i fenomeni. Ne ha parlato il "CorrierEconomia", l'inserto economico del "Corsera". E De Michelis, il redivivo ministro degli esteri craxiano, ha parlato sin dai primi giorni della possibile conquista del governo di un paese arabo da parte degli amici di Bin Laden, dei protettori dei Talebani. Ma queste spiegazioni hanno qualcosa che le rende parziali. Anche perché negli stessi ambienti americani, diverse sono le valutazioni in merito, ad esempio, alla rilevanza delle risorse energetiche dell'Arabia Saudita. Eland, direttore degli studi di politica della difesa al Cato Institute di Washington, sostiene che "la maggioranza dei settori vitali americani non dipende piu' dal greggio, ma da altre materie, come i semiconduttori, che importiamo per l'80% dell'Estremo Oriente. Siamo quindi meno vulnerabili di dieci anni fa, rispetto a un'eventuale crisi petrolifera. E' vero che importiamo il 60% del petrolio che consumiamo, ma solo il 23% viene dal Golfo Persico e meno del 15% dall'Arabia Saudita. Hanno piu' bisogno loro di vendere l'oro nero, unica fonte di ricchezza, che noi di comprarlo. Per questo non possono permettersi di alzare troppo i prezzi. Noi abbiamo l'alternativa del Canada e del Sud America" (Maria Teresa Cometto, "Casa Bianca anti-saudita", "Corsera" 22 ottobre 2001). Ora, si tratta di considerazioni senz'altro eccessivamente ottimistiche, ma che vanno tenute in conto nella valutazione delle motivazioni di questa guerra. E alle quali si deve aggiungere una novita', da ricondursi all'incontro -attorno alla meta' del mese di novembre- tra Bush e Putin, nel ranch texano di Crawford. In quella sede il buon Putin, uno dei vincitori indiscussi di questa prima fase della guerra, ha assicurato la sua disponibilita' a sfruttare di piu' le notevoli risorse naturali ed energetiche russe, con il chiaro intento di relativizzare l'importanza del mondo arabo sotto questo aspetto. Vedremo gli sviluppi della situazione da quel punto di vista, ma riteniamo utile tornare all'oggetto del nostro argomentare. Non per dire che la nostra provocatoria tesi sia la tesi che disvela l'autentica matrice del conflitto in atto. Ma per dire che, accanto ad altre chiavi di lettura, tra cui quella di derivazione marxiana della crisi di sovrapproduzione (e quindi della necessita' di distruggere settori del capitale per riavviare il ciclo di accumulazione capitalistico), chiave di lettura che fu gia' adottata -opportunamente- per la guerra contro l'Iraq dall'economista Gunder Frank, c'e' anche la nostra. Per evidenziare che, se non hanno tutti i torti coloro che vedono un accordo tra Usa e Russia per contenere il sorgere di un autentico imperialismo europeo (accordo bilanciato da rapporti che Putin intrattiene con l'Europa come contrappeso allo strapotere degli States), secondo una linea che in passato gia' porto' l'Europa ad essere divisa in due, la loro ottica non basta a spiegare l'immensa tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi, di giorno in giorno. Bisogna dirlo, questa guerra e' anche una guerra contro il proletariato universale. E' questo il dato che accomuna le potenze divise, che vogliono imbrigliare la spinta che viene in primo luogo dalle masse arabe, ma anche da altri segmenti della tendenziale classe unica a livello planetario. E' cosi' che si spiega l'insistenza sul conflitto di civilta', la ripresa delle mediocri tesi dell'altrettanto mediocre intellettuale Samuel P. Huntington. Noi siamo l'occidente civilizzatore voi siete il mondo che non riesce ad integrarsi nel capitalismo avanzato. Cosi' dicono tutti e non solo Berlusconi e gli ultrarazzisti Fallaci e Sartori nei loro deliri sul "Corriere della Sera". Certo, i piu' delicati sostengono che gli arabi hanno contribuito alla genesi della modernita', ma poi se ne sono distaccati. Ma in sostanza quello che ribadiscono e' pur sempre la nostra superiorita' nei confronti dei "popoli terzi". Un discorso odioso, soprattutto se si tiene conto di un fatto. Esso muove da una gigantesca bugia. Si dice che la situazione in cui versano certi popoli sia il portato della loro scarsa integrazione nel mercato mondiale e invece non e' cosi'. Gli e' che il mercato mondiale si basa sul meccanismo dello sviluppo ineguale, per cui la arretratezza di alcune aree e' condizione dello sviluppo di altre. Cio', sia ben chiaro, in un contesto diverso da quello delineato da marxisti di orientamento "terzomondista" che dividono schematicamente il mondo in centro e periferia. Questi studiosi hanno avuto grandi meriti nel demistificare un certo eurocentrismo della sinistra occidentale, risultato di una lettura sbagliata di Karl Marx, una lettura che -muovendo dal gia' citato "Manifesto", non contestualizzato storicamente- assolutizza l'aspetto progressivo dell'espandersi del capitalismo a livello internazionale. Noi siamo d'accordo con loro per il semplice fatto che il processo che Marx vedeva se non al principio in una fase non ancora avanzata, e' proseguito facendo perdere qualsiasi residuo di Progressivita' alla marcia del capitale alla conquista del pianeta. Siamo d'accordo con loro perché persa la spinta propulsiva nel senso del progresso umano del capitalismo, esso ha mostrato il suo volto nello sbocco piu' tragico della modernita': Auschwitz, l'orrore che costituisce uno spartiacque nella storia, la verita' rivelata del lavoro salariato ("Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi…). Ma non condividiamo, dei teorici come Samir Amin, l'idea che il mondo sia diviso cosi' nettamente appunto in centro e periferia. I centri e le periferie, le aree arretrate e quelle sviluppate, attraversano tutte le entita' nazionali, tutti i continenti. E tutte le entita' nazionali, tutti i continenti vedono la presenza di quello che gia' Marx prevedeva come soggetto universale. Ora, e' proprio contro la possibilita' che questo soggetto si costituisca come soggetto collettivo su scala planetaria che viene sferrata la tempesta di fuoco che, iniziata in Afghanistan, si protrarra' in Somalia, in Iraq e chissa' in quali altri posti.E' difficile che si costituisca un soggetto collettivo o anche che si verifichi una unita' di intenti tra comparti del proletariato -quello metropolitano e quello delle lande desolate- laddove si e' divisi come appartenenti a diverse civilta'. E laddove la spinta contestataria di gran parte del proletariato universale viene raccolta dai Bin Laden, dai barbuti talebani e da Hamas. Averlo presente costituisce per noi un passo in avanti nella consapevolezza, una bussola per l'agire politico di qui ai prossimi anni.