Scenari del conflitto interimperialistico: gli Usa, l'Ue e la barbarie di Israele.

Europa, dove sei? Per mesi si è sentita questa domanda a proposito del divampare dell'incendio in Palestina. E si è trattato di un interrogativo condiviso dai più, a prescindere dalla appartenenza politica.
D'altra parte, l'europeismo è trasversale, comprendendo nelle sue file tanto la parte cattolica del centrodestra quanto il grosso del centrosinistra e del movimento pacifista. Certo, ad ogni appartenenza politica corrisponde un diverso europeismo, ossia un diverso modo di concepire l'atteggiamento dell'Ue rispetto alle controversie internazionali. Ma vi è una esigenza che risulta comune ai diversi schieramenti: quella di un maggior protagonismo europeo nello scenario mondiale. Un protagonismo che ognuno declina a modo suo, basandosi sul proprio patrimonio culturale di partenza. C'è chi vuole un'Europa che competa con gli States sul loro stesso terreno e chi invece vede nel Vecchio continente il soggetto che può costruire un ordine mondiale equo e liberato dalle più gravi ingiustizie sociali. C'è, per specificare, chi vuole un'Europa che -superati i suoi complessi di inferiorità- decida con gli States sulle grandi questioni, salvo giungere a rapporti di forza tali che le consentano di agire da sola e chi vorrebbe che Prodi e i suoi facessero valere una logica diversa su ogni cosa, anche sostenendo rotture immediate con la Casa Bianca.
Al primo orientamento -in Italia- si rifanno in molti, incluse le frange moderniste del centrosinistra, ma forse l'esponente più significativo ne è De Michelis. L'ex dirigente socialista, infatti, condivide le più aspre critiche che vengono rivolte contro Arafat e poco sembra concedere alle ragioni dei palestinesi (anche rispetto ad una tradizione craxiana più generosa in tal senso), però insiste sulla necessità di uno scatto dell'Europa, di una ripresa della propria autonoma iniziativa. Come a dire: le nostre posizioni non possono essere dissimili da quelle di Bush jr, ma le cose le dovremmo gestire noi, oppure noi con gli Usa. Questa impostazione, applicata alla questione mediorientale, si traduce nella spinta a far entrare Israele nell'Ue, intendo tale passaggio come quello decisivo per un diverso ruolo europeo in un'area di interesse strategico. Per meglio collocare questo discorso, si tenga presente un fatto: De Michelis è tra i consiglieri di politica estera del premier italiano. La sua spinta, è vero, coesiste con altre meno inclini all'europeismo, però la voce dell'avanzo di balera socialista ha un suo peso nelle scelte del Cavaliere.
Anche per questo occorre evitare ogni schematismo quando si parla della politica estera italian, delle sue oscillazioni, dei periodi in cui risulta scarsamente intelligibile. L'Italia è la culla dell'incertezza, più che del filo-americanismo spinto. Ma se la politica estera nostrana risulta spesso confusa, quella comune dell'Europa unita sembra aver superato le insicurezze manifestate all'avvio, da parte americana, dell'operazione "Enduring Freedom". Lo dimostra proprio il conflitto israelo-palestinese. Non sono mancati, rispetto ad esso, momenti di mutismo dell'Ue, ma negli ultimi tempi -e si fa riferimento, qui, anche a fasi precedenti all'avvio dell'operazione "Scudo di difesa"- l'Europa s'è desta. Con la capacità, da parte della commissione presieduta da Prodi, di valorizzare le differenze al suo interno. Già prima del 29 marzo e del tentativo di "togliere al pesce l'acqua in cui vive" (cercando di piegare, con una politica di massacri, la resistenza palestinese, nonchè di sottoporre i Territori ad un più stretto controllo militare), l'Unione scalpitava.
Lo conferma un articolo di Adriana Cerretelli pubblicato su "Il Sole 24 ore" del 10 febbraio 2002. Lo scritto in questione registra le pulsioni emerse durante una riunione di Ministri degli esteri europei tenutasi a Caceres. Da esso emerge che "L'Europa non condivide l'approccio americano, anzi per bocca della Francia contesta apertamente, quando non mette letteralmente sotto processo la diplomazia unilateralista, assolutista e semplicistica dell'amministrazione Bush, per dirl con le parole dell'inglese Chris Patten, il commissario UE alle relazioni esterne. Anche se poi ribadisce, e una volta di più anche a Caceres, che senza Washington è impensabile immaginare di riuscire a stabilizzare la regione" (A. Cerretelli, "Sharon-Arafat, parlatevi. Ue contro Usa: priorità al dialogo politico", "Il Sole 24 Ore", 10 febbraio 2002). In sostanza, a Caceres si trovano sintetizzati 2 atteggiamenti che, se isolati ed estremizzati, possono anche risultare contraddittori. Il loro esser compresi in un unico disegno, ha portato l'Europa a muoversi intelligentemente durante la operazione "Scudo di difesa". Infatti, l'Europa Unita ha criticato anche duramente Sharon, dosando i termini ma lasciandosi andare, in alcuni suoi leaders, a considerazioni forti (Jospin, prima di ricevere una solenne mazzata elettorale, ha evidenziato l'assurdità delle richieste di Israele e Usa ad Arafat: come può fermare il "terrorismo" l'uomo tenuto prigioniero a Ramallah?).
Ovviamente, però, l'idea di una rottura integrale non era in campo, soprattutto rispetto agli States. Non solo per motivi legati ai rapporti di forza, ma anche per precisi interessi. Risulta chiaro che Israele rappresenti adesso un bastione americano, in una zona del mondo che sempre più vede nella moneta unica europea un riferimento. Ed è anche ovvio che l'ipotesi di uno Stato palestinese susciti più entusiasmo nelle capitali europee che a Washington. Soprattutto nel caso in cui questa nuova entità statuale disponga almeno di uno straccio di sovranità, così da non essere totalmente soggetta ad Israele e da agganciarsi al resto del Medio Oriente, agli amici arabi dell'UE.
Però anche per l'Europa, in virtù dei suoi propositi, l'Intifada è andata oltre. E non tanto perchè ha assunto la forma drammatica dei Kamikaze (forma che comprendiamo senza amarla, perchè può colpire indistintamente), quanto perchè la sua prosecuzione, la sua radicalizzazione possono sfociare in un qualcosa che vada oltre la rivendicazione dell'autodeterminazione nazionale.
Soprattutto adesso, dal momento che il conseguimento della "semilibertà" per Arafat riapre di fatto i giochi nel campo palestinese. Una Intifada che non si stringa più ad Arafat ed alla dirigenza palestinese di matrice borghese, può associarsi sempre di più alla lotta di classe. I palestinesi, nel corso di una lotta portata avanti senza mediazioni, possono prendere coscienza del fatto che il loro essere segregati, deprivati di identità e diritti si lega anche alla volontà di farne manodopera sfruttata senza limiti (dal vissuto simile, quindi, a quello dei neri sudafricani sotto l'Apartheid). Ora, questa acquisizione di consapevolezza può far paura non solo agli States ma anche all'Unione Europea. L'Europa Unita, infatti, non vuole una Palestina sostanzialmente indipendente, ma appena formalmente sovrana, così da guidarne lo sviluppo con la collaborazione di una borghesia locale debole e compiacente.
E' in virtù di ciò che l'UE deve collaborare con la potenza yankee. In Medio Oriente, europei e americani sono sostanzialmente avversari, ma hanno un nemico in comune: il popolo palestinese nei suoi settori combattivi e d'estrazione proletaria, l'Intifada nelle sue manifestazioni più radicali. Peciò debbono mettersi d'accordo, in termini che -indubbiamente- riequilibrano la situazione a favore di quella che , esagerando, viene definita iperpotenza. La politica espansionistica israeliana, questo è certo, avvantaggi gli USA ma li espone anche di fronte alle critiche del resto del mondo. L'Europa, invece, non è considerata come interlocutrice da Israele, ma sa parlare ai Palestinesi (o meglio, alla loro attuale dirigenza). Su queste basi ognuno ha bisogno dell'altro e ciò porta gli States a superare quell'unilateralismo che sempre più ne connota la politica estera. E' proprio l'unilateralismo ad aver portato Kissinger -molto ascoltato da Bush jr- a benedire l'operazione criminale iniziata da Sharon il 29 marzo, criticando il boia di Sabra e Chatila solo per la sua ossessione verso Arafat. Del resto, anche la politica americana ha le sue oscillazioni e le sue sintesi, più o meno riuscite. Vi sono i "falchi" e le "colombe" o, per meglio dire, gli unilateralisti alla Cheney e coloro che vogliono collaborare con le altre potenze, come Colin Powell. Ancora una volta la distinzione è tra chi si riconosce nelle parole di Kissinger e chi fa proprie le raccomandazioni di Brzezinski. Quest'ultimo ha rilasciato dichiarazioni di fuoco sulla attuale politica estera statunitense e sul comportamento di Sharon. Si veda il "Corriere della Sera" del 5 aprile 2002, con l'intervista raccolta da Nathan Gardel. Brzezinski in quella sede arriva a dire che: "Sì, il terrorismo palestinese c'è stato, ma la realtà è che abbiamo anche avuto reazioni eccessive e deliberate da parte di Sharon, intese non a reprimere il terrorismo ma a destabilizzare l'Autorità palestinese e a minare alla base gli accordi di Oslo, da lui sempre criticati". Di più: "Gli israelinai stanno diventando come i razzisti bianchi del Sud Africa, non esitano ad ammazzare i palestinesi in gran numero e lo giustificano con il pretesto dell'autodifesa. Le reazioni sono da entrambe le parti sproporzionate. Ed è in ultima analisi lo spettacolo del fallimento della strategia americana, almeno quella condotta fino ad ora".
l'invito rivolto a Bush jr non potrebbe essere più chiaro: occorre voltare pagina, magari ponendosi nell'ottica di una maggiore collaborazione con le altre potenze. D'altra parte, la gestione in proprio delle controversie internazionali, ha provocato momenti di frizione con tutti, anche con l'ONU del pur mite Kofi Annan. Lo registra il "Corriere della Sera" del 19 aprile. Si è andato a profilare, in un momento alto della crisi mediorientale, uno scontro "Annan contro Bush" (l'articolo è a firma di Ennio Caretto). Sul quotidiano milanese si legge: "E' scontro tra il presidente americano George Bush e il segretario generale dell'ONU Kofi Annan sull'operato del premier israeliano Ariel Sharon. Al ritorno del segretario di Stato Colin Powell dal Medio Oriente, Bush ha ieri elogiato Sharon come uomo di pace, dicendo che la storia 'dimostrerà che ha risposto alle nostre richieste di ritirare i carri armati'. Ma da New York, Annan lo ha indirettamente contestato, definendo orrenda la situazione dei palestinesi a Jenin, e ammonendo che in sua assenza il ciclo degli attacchi e delle rappresaglie si intensificherà in Israele e in Palestina".
Una eccessiva frizione con l'ONU, per quanto poco conti ormai questo organismo, non è cosa che l'amministrazione americana si possa permettere, almeno sul piano dell'immagine. Perciò, avendo Sharon svollto parecchio del lavoro sporco necessario, ora si può superare l'unilateralismo yankee e ascoltare Powell ed anche Brzezinski. Rilanciando, di conseguenza, il "governo mondiale" come concerto delle potenze. La cui ouverture, in questo caso, è spettata all'Europa. Lo leggiamo nella intervista che un Prodi meno desolato del solito ha rilasciato a "La Repubblica" il 4 maggio del 2002. In essa si fa riferimento all'accettazione, da parte di Colin Powell, della proposta di Prodi relativa ad una conferenza a 4 (ONU, Russia, Ue, USA) per la pace in Medio Oriente.
Prodi esulta e dice: "Alla fine ha vinto il realismo. Da mesi martello su questo punto: non c'era altra via per avviare un dialogo vero, in una situazione in cui nessun soggetto esterno gode della fiducia dei 2 combattenti. La realtà è questa: Israele non si fida di noi europei, i palestinesi non si fidano degli americani. Ora l'importante è fare presto". Sì, fare presto, per evitare che la situazione degeneri di nuovo. Il che, dal punto di vista europeo, non coincide con il venir meno delle violenze israelinae ai danni dei palestinesi. Certo, l'orrore di Jenin colpisce e sarebbe meglio evitare tragedie simili in futuro. Ma la questione per Prodi e compagnia bella è un'altra: se è vero che l'Europa ha riacquisito un ruolo, non è detto che lo mantenga. Occorre fare presto, quindi, per consolidare una posizione che è il frutto di una politica azzeccata, meno debole di quanto non pensino quei pacifisti che hanno scambiato il polo imperialistico europeo per un ente di beneficenza.