Crisi Usa e Guerra Permanente

Alcuni elementi di analisi: come ha reagito il Capitale monetario, alla crisi economica degli Stati Uniti ?

Questo articolo prende spunto da una serie di avvenimenti politici ed economici che dall'attentato alle Torri Gemelle di New York passano per la dichiarazione di Bush di inaugurare una "lunga guerra contro il Terrorismo" e per l'avvio effettivo della operazione imperialista in Afghanistan. Come stanno cambiando i contorni della politica mondiale? Quali poli stanno fra loro determinando le regole del gioco economico - politico - strategico nell'economia sempre più globalizzata? Quali zone di influenza e di mercato si stanno ricercando per ampliare i propri guadagni? E' davvero l'inizio dell'Impero, come scrive, fra gli altri in un suo recente libro, Giulietto Chiesa?
Dopo il crollo delle Twin Towers avvenuto l'11 settembre 2001, il capitalismo trasnazionale l'ha utilizzato per attuare l'ennesimo tentativo di rinnovare l'uscita dalla sua lunga crisi che, nonostante le brevi riprese, ritorna inesorabile a colpire. Nulla è davvero più come prima, anzi quasi tutto è cambiato, ma non la situazione che vede gli Stati Uniti, ma non solo loro, imporre un completo collasso economico ed esigere che i propri prodotti siano venduti in tutti gli altri stati o poli economici, (vedi gli accordi del Nafta); situazione che peraltro si sta effettivamente verificando anche nell'Unione Europea per alcuni prodotti particolari OGM, mais trangenico, carne estrogenata.
Una crisi strutturale quindi, che vede sempre più assottigliarsi le possibilità di ripresa, e che certo non può essere superata dall'economia del debito, fondamentalmente poggiata su alcuni elementi, l'indebitamento estero degli Stati Uniti, quello interno a ciascun paese; il debito pubblico e quello privato; delle imprese e dei singoli cittadini, indotti, tra l'altro, ad un consumo continuato di merci superflue. Ed in questa situazione, a nulla sono valse l'utilizzo della "flessibilizzazione" selvaggia e della precarizzazione sempre più diffusa della forza lavoro.
Dunque in questo contesto, il crollo delle Torri Gemelle ha anche comportato una strumentalizzazione di questi fatti con una strategia rinnovata, pianificata ed applicata sotto il segno di una maggiore violenza e di una maggiore aggressività (non solo militare ma anche linguistica e culturale). Senza trascurare l'inevitabile giro di vite repressivo contro i "terroristi", o semplicemente contro tutti coloro che si oppongono a questo stato di cose, o sono solo cittadini e cittadine di fede musulmana.
Questa violenza imperialistica viene anche utilizzata per cercare di superare la crisi di lunga durata nella quale si trova sia l'economia statunitense sia quella del capitalismo trasnazionale. Per questo si può vedere nella data dell'11 settembre anche l'occasione per il neo imperialismo americano di inaugurare il nuovo corso della sua azione prevaricatrice (dalla guerra all'Afghanistan alla prospettiva di una lunga e permanente guerra al terrorismo); per questo l'amministrazione Bush ha con prontezza e tempestività, che non hanno precedenti nella storia dell'umanità, costituito una "Santa Alleanza globale" contro il "terrorismo" (islamico, ma non solo!) quale presupposto ideologico - psicologico - politico allo scatenamento delle nuove aggressioni previste dall'amministrazione Bush nei prossimi mesi (è già in partenza la campagna stampa di aggressione all'Iraq di Saddam, prevista per il mese di gennaio 2003). Ma la "lunga marcia" della guerra, possiede dei contorni imprecisi e chiaramente indefinibili, mentre l'unico riferimento inequivocabile sembra essere l'aggettivo "infinita".
La guerra, modo e mezzo per l'imperialismo capitalista di continuare la propria politica e di risolvere le proprie contraddizioni interne è diventata, dall'intervento armato nell'ex Jugoslavia alla recente guerra ai Talebani afghani, il modo permanente e "normale" di gestire questa situazione di crisi strutturale, la sola ad essere effettivamente diventata permanente, ossia il modo "normale" di essere del capitalismo contemporaneo. Cioè non è più la guerra la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma è politica a configurarsi ora come guerra con altri mezzi.
In questa situazione, il Capitale finanziario diventa la categoria che indica il capitale finanziario imperialista cioè la fusione delle varie funzioni delle singole forme del capitale, quello monetario unito a quello bancario, collegati a loro volta a quello assicurativo, ai quali si aggiungono quello industriale e commerciale. Come tutti sappiamo bene da circa vent'anni il capitale si è stabilizzato nella sua forma monetaria, che esige la sua valorizzazione senza la mediazione del processo produttivo e che si riversa (tra l'altro) nel mercato del credito (capitale da prestito) e nell'acquisizione di attività finanziarie (azioni, obbligazioni, i titoli derivanti ecc.) : il capitale monetario attuale è quindi diventato speculativo. Questa parte di denaro impiegata per le speculazioni è quella più consistente di tutto il capitale mondiale. Ciò è evidente se si confronta il volume impiegato dalle attività finanziarie con il capitale impegnato nella produzione delle sole merci. La sua conseguenza è la sovrapproduzione di valore.
E' possibile inquadrare la crisi economica che in questi ultimi mesi ha e sta attraversando l'economia americana in questa cornice, oppure lo si può escludere, essendo sufficiente connotare l'evento economico americano nel ristretto quadro di un semplice ciclo di esaurimento delle scorte e di una transitoria stagnazione?
Nella fase di precedente espansione economica Usa si possono evidenziare alcuni elementi distintivi : boom della borsa; forti investimenti, soprattutto nel settore dell'informatica applicata al settore militare; un indebitamento crescente soprattutto del ceto medio per sostenere una domanda crescente per consumi e titoli finanziari ed interessi; un completo controllo e comando capitalistico sul lavoro, che ha comportato un occupazione ultra flessibile sufficientemente estesa, salari mediamente bassi, forte esternalizzazione dei processi produttivi; indebitamento delle imprese; un aumento rispetto agli anni precedenti del tasso di produttività del lavoro; un inflazione bassa, anche se in presenza di una crescita significativa; un dollaro forte.
La decisa crescita dei corsi azionari americani è un fenomeno che da circa vent'anni, seppur con alti e bassi, è verificabile. Esso è l'effetto combinato del deciso impiego del capitale monetario e di risparmi, quest'ultimo proveniente dai fondi di risparmio e di investimento, unito a quelli derivanti dai fondi pensione. Per cui i cosiddetti investitori istituzionali non sono altro che gruppi del capitale oligopolistico finanziario, normalmente trasnazionale, che centralizzano la raccolta e l'impiego in borsa di ingenti masse di capitali e risparmi. In questo modo il "boom" della borsa ha permesso alle diverse aziende produttrici nel contesto di una crescente domanda di titoli azionari prodottasi, rilevanti capitalizzazioni e ricapitalizzazioni, cioè l'accrescimento del proprio capitale a costi minimi e senza ricorrere al credito. Questo "boom" ha anche favorito l'indebitamento nei confronti delle banche, sia degli investitori che del ceto medio americano, spinto a consumare sempre di più beni voluttuari. Il medesimo ceto medio, possessore di % di quote di fondi, ha limitatamente beneficiato degli effetti che questa ricchezza ha prodotto. Anzi, molto spesso il sistema creditizio ha messo a disposizione di questo ceto medio potenzialmente acquirente diversi mezzi di pagamento riutilizzati, successivamente, per l'acquisto dei beni finanziari posti a garanzia dei fidi medesimi. Cosicché l'indebitamento di molte famiglie può essere considerato un effetto dell'eccedenza di capitale. Infatti nel 1998 il debito totale delle famiglie Usa ammontava a circa 6.250 miliardi di $, pari al 74% del PIL. Attualmente questo indebitamento è valutato come superiore all'80%, cioè più dell'80% del PIL, quantificato in 20 mila miliardi di lire (circa 9 volte il PIL italiano).
Questo clima di ricchezza ha anche spinto all'investimento i capitali stranieri, producendo due effetti, da un lato contribuendo ad alimentare il boom della borsa e dall'altro riequilibrando il forte deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti americana, rafforzando il dollaro, fattore che a sua volta ha attirato ulteriori capitali ed ha tenuto basso all'interno del suo mercato il prezzo unitario delle importazioni, contenendo in questo modo, anche l'inflazione. Ma per meglio intendere il processo che ha portato all'attuale crisi dell'economia americana occorre guardare alle politiche economiche ed industriali precedenti, fuoriuscendo, per un momento, dal capitale puramente finanziario. La profonda ristrutturazione che ha colpito l'economia americana tra il 1989 ed il 1990, insieme ad altri fattori tra i quali, l'accesso poco costoso al mercato dei capitali ed il bassissimo valore medio della manodopera hanno favorito e reso possibile l'investimento ed i profitti nell'industria manifatturiera nella prima metà degli anni '90. Successivamente a questo periodo, gli investimenti si sono concentrati nella tecnologia dell'informazione, delle telecomunicazioni, dei media, e più in generale, internet, computer, sofware ed hardwere. Sono stati proprio questi nuovi settori della produzione a sospingere il boom dell'economia americana registrato anche dall'Indice Dow Jones aumentato tra il primo semestre del 1982 ed il gennaio 2000 di 15 volte.
Possiamo scomporre la crisi in due fasi:
la prima è quella relativa ai primi cinque mesi del 2001, mentre la seconda è quella limitata ai primi 15 giorni di settembre, precedenti l'attentato alle Twin Towers. Dunque a partire dal terzo trimestre del 2000 le cose sono cambiate ed il dato macroscopico è stato la caduta del PIL che è passato da una crescita del 5,6% su base annua nel secondo trimestre del 2000, al 2,2% nel terzo, all'1% nel quarto e all'1,3% nel primo trimestre 2001. Le ragioni di questa caduta del reddito nazionale USA, risiedono principalmente nel crollo degli investimenti, sia nell'industria manifatturiera sia nella tecnologia dell'informazione, ma soprattutto nella sovraproduzione generatasi nel settore delle tecnologie informatiche. La causa è stata comunque chiara da subito, tanto che Sarcinelli, sul Sole 24 ore del 26 maggio 2001, scriveva "...rispetto ai livelli desiderati il rapporto tra il volume delle scorte ed il flusso delle vendite è fortemente peggiorato, sicché dalla metà del 2000 è iniziato un riassestamento con un inevitabile caduta della produzione soprattutto verso la fine dell'anno passato (1999) e nei mesi successivi" e concludeva aggiungendo che "..la fase che stiamo vivendo può trasformarsi in qualcosa di ben più serio di un ciclo delle scorte". Questo quadro si completa con il calo della produttività, degli ordini per i beni durevoli (calati in aprile del 5%) e del loro volume di acquisto dello 0,6%. E la risposta capitalistica a questa crisi? Per cinque volte si sono ridotti i tassi interbancari americani, passati dal gennaio 2001 al maggio successivo - seguiti da ulteriori quattro riduzioni nei mesi successivi - dal 6,5% al 4%. Ma qual'è stato lo scopo primario di questi tagli? Sostenere i corsi dei titoli finanziari; infatti, sostenere la borsa, significa cercare di : - evitare la svalorizzazione di ingenti masse di capitali; - tentare di sostenere i consumi soprattutto della classe media detentrice, come abbiamo già visto, dei titoli finanziari e consentire l'ulteriore indebitamento; - tentare di sostenere l'indebitamento di parte corrente della bilancia dei pagamenti e quindi l'architettura su cui poggia l'intero sistema. Situazione questa, che consente al deficit americano di attrarre avanzi delle bilance commerciali degli altri paesi (Giappone ed UE).
Ne "Il Manifesto del 13 ottobre 2001, si sosteneva (in piena guerra Usa contro i Talebani ed Osama Bin Laden) che il deficit estero degli Usa viene pagato dal flusso degli investimenti proveniente dal resto del mondo. Per questo, è possibile immaginare, il caos che per assurdo, si potrebbe verificare se invece che di afflusso si parlasse di deflusso dei capitali esteri dagli States. Un tentativo forte di risposta alla crisi è stato il varo, nella scorsa primavera, del piano sui tagli fiscali, caldeggiato dall'amministrazione Bush jr., provvedimento teso a rafforzare la domanda dei consumi, con l'accrescimento della quota del reddito disponibile. Si trattava di un piano di 1.350 miliardi di dollari in dieci anni. Il connotato di classe è evidente : gli stessi industriali riconoscevano che i beneficiari di questi sgravi (un terzo) erano per l'1% la parte più abbiente dei contribuenti americani, mentre un altro terzo andava al seguente 19%, ed all'80% degli americani la restante parte. Ed è sempre la classe padronale americana a spiegare chiaramente i benefici di questa politica di sgravi fiscali ed il suo impatto sull'andamento della borsa. Infatti, secondo la maggioranza degli analisti di Wall Street, almeno una parte del gettito fiscale restituito dal governo alle famiglie, finirà sul mercato azionario; tanto più che i maggiori beneficiari della manovra fiscale saranno i contribuenti con i redditi più elevati, cioè proprio quell'1% di cui sopra, che rappresenta il "nocciolo duro" della società statunitense che investe in Borsa.
E' quindi chiaro l'intento della riforma attuata attraverso questi sgravi . tutelare dai rischi di svalorizzazione il capitale monetario impiegato negli investimenti speculativi in senso imperialista. Quindi preservare i valori immobiliari, è l'esigenza prioritaria anche in questa crisi.

Una crisi già annunciata : i quindici giorni che hanno preceduto l'attentato dell'11 settembre.

La simultanea crisi economica e finanziaria delle tre aree imperialiste più importanti - Usa, Giappone ed Unione Europea -, evidenti anche dalla lettura dei dati che sono stati pubblicati sulla stampa economica americana ed internazionale, hanno subito una scarsa evidenziazione nei 15 giorni precedenti l'attentato alle Twin Towers. Tuttavia, alcuni elementi emergono chiaramente dalla lettura di alcuni quotidiani. Per esempio viene comunicato che, nel mese di luglio 2001, gli ordini per i beni durevoli erano calati dello 0,6%; mentre i sussidi di disoccupazione ai senza lavoro superavano i 3,2 milioni di persone (rispetto al 1992); contemporaneamente, l'indice di fiducia dei consumatori, in agosto, scendeva di due punti rispetto al luglio. Ancora, il giorno 29 agosto 2001 il Dipartimento al commercio comunicava che, in sede di revisione, il PIL Usa del secondo trimestre 2001 era aumentato del solo 0,2% su base annua. Dal mese precedente, l'economia statunitense dunque ristagna; tiene ancora il settore edilizio, grazie però ai tassi agevolati sui mutui. Anche il rapporto della Fed rileva nello stesso mese di agosto ed i primi giorni di settembre 2001, un attività debole e spesso in fase di ulteriore decelerazione. Il settore in crisi è quello manifatturiero e le vendite al dettaglio sono diminuite. Contemporaneamente, l'associazione dei costruttori edili comunica la discesa di ben 5 punti dell'indice di attività nei primi cinque giorni di settembre rispetto ad agosto, mese nel quale sale al 4,9% il tasso di disoccupazione (da gennaio 2001 sono stati persi più di un milione di posti di lavoro).Continuano a scendere anche il Nasdaq e l'indice di Wall Street, mentre le sette riduzioni dei tassi a partire dal gennaio 2001 e gli sgravi fiscali della primavera sono del tutto inefficaci.
Ma come sappiamo l'11 settembre l'attacco alle Torri Gemelle accelera il processo di crisi facendo emergere delle risposte emergenziali alla situazione economica, che viene anche ad arricchirsi di un nuovo obiettivo : la lotta al "terrorismo" (islamico e non). Ma non basta. Dopo l'11 settembre le risposte alla crisi sono sempre caratterizzate dal tentativo di salvaguardare il capitale monetario nelle attività speculative, e comprendono una serie di misure fra cui l'immissione di liquidità nel sistema da parte delle Banche centrali americane ed europee; riduzione dei tassi da parte della Fed della BCE. Le ricadute seguite all'11 settembre spazzano via (apparentemente) la crisi economica che viene dall'amministrazione americana e da Bush fatta retrocedere di fonte al nuovo "nemico" Osama Bin Laden, nei confronti del quale viene ora proclamata una "guerra infinita". La cui matrice è però chiaramente riscontrabile nella forte crisi economica degli States. Anzi della crisi sincronica in cui si vengono a trovare tutti i pilastri dell'economia mondiale : gli Usa, il Giappone e l'Europa. Anzi, meglio della riduzione dei tassi e della politica degli sgravi, per risolvere questa crisi può fare la guerra, perché l'economia di guerra diviene il pilastro alla crisi, spazzando via tutte le discussioni sul surplus delle pensioni.
Lo stesso Paul Krugman ritiene che i fatti dell'11 settembre abbiano prodotto politiche più espansive che sotto il profilo sia monetario che fiscale. Dice ancora Krugman "..Sia chiaro non credo che gli Usa possano seguire il Giappone nella sua profonda recessione . Ciò che temo è una profonda fusione di fattori che ci trascini in un periodo prolungato di stagnazione". Per questo dunque l'economia di guerra e la dichiarazione di una guerra permanente (prossimo obiettivo l'Iraq di Saddam Hussein), si presenta come una fase necessaria agli Usa in quanto entrambe assicurano il mantenimento del primato americano nei confronti degli alleati Quindi bisogna tenere conto del fatto che attualmente l'imperialismo non è più organizzato sulla base dello stato nazionale, ma su poli dentro cui si organizzano e si coordinano vari Stati tendenzialmente sempre più omogenei sul piano economico, finanziario, valutario e militare. Ed è profondamente errato ritenere che gli Stati non abbiano più una funzione determinante. Lo stato è allargato a livello regionale (ad esempio l'UE) ma mantiene la sua funzione di sostegno politico ed economico all'accumulazione capitalistica sia attraverso la politica fiscale e di bilancio, sia attraverso la politica commerciale ed internazionale verso le altre aree e gli altri poli imperialisti. Infine, anche attraverso lo strumento militare. Il processo di disgregazione degli Stati avviato dai poli imperialisti più forti (Usa ed Europa) contro gli altri Stati dell'Europa dell'Est, ma anche contro l'Africa "decolonizzata" o l'Asia non più baluardo antisovietico (vedi Indonesia ed in prospettiva l'India e la Cina), confermano che questa "interazione" è uno dei progetti caratteristici dell'imperialismo moderno. Per cui attualmente la funzione degli Stati rispetto all'area del NAFTA è evidentemente una funzione centralizzatrice ed egemonica sia nei confronti degli stati integrati nel blocco (Messico e Canada), sia nei confronti dell'area di influenza del blocco stesso (America Latina). Il progetto dell'Area di Libero Scambio delle Americhe, prevista per il 2005, estende questa centralizzazione a tutta l'America Latina. La dollarizzazione dell'Ecuador, del Salvador, di Panama, del Guatemala e dell'Argentina è indicativa dell'obiettivo di costruire un grande polo economico, commerciale, valutario intorno agli Stati Uniti, da contrapporre a quello europeo. Quest'ultimo polo, pur seguendo un processo che rimane più complesso - ha visto crescere la sua funzione centralizzatrice intorno all'asse franco - tedesco e la sua funzione disgregatrice verso l'Europa dell'Est (dalla crisi jugoslava alla deflagrazione dell'URSS, alla secessione cecoslovacca).
Si rileva ancora un forte limite di questo processo : in Europa fino ad ora è andata procedendo la centralizzazione economica, ma è anche progredita più lentamente quella politica. La Gran Bretagna, infatti, si muove più in sintonia con gli States che con l'UE. Tuttavia, questo ritardo viene colmato abbastanza in fretta. L'allargamento continuo dell'UE verso Est ed a Sud, inglobando nuovi Stati e nuovi mercati, viaggia ormai parallelamente all'organizzazione di un efficiente esercito europeo e di un esecutivo più dinamico che vede la Germania acquisire un potere sempre maggiore (vedi il vertice svoltosi a Nizza): Tutto ciò crea e basi materiali ed oggettive per un maggiore concorrenzialità dell'Europa Unita sul piano economico, in aree di tradizionale pertinenza yankee. Ne è un esempio il recentissimo accordo economico del Cile con l'UE per l'apertura del suo mercato alle merci di provenienza UE. Ma quanto sta accadendo significa una concertazione o una competizione tra i due poli imperialisti? Il rapporto tra il nascente polo imperialista europeo con gli altri due poli della triade, ma soprattutto con gli Usa, è sicuramente un rapporto di competizione. Infatti per l'economista americano Martin Feldestein, l'introduzione dell'euro potrebbe addirittura portare alla guerra tra Usa ed Europa. (E' a tal riguardo "curioso" osservare come anche il cancelliere tedesco Kohl abbia affermato che l'unificazione monetaria dell'Europa può diventare una questione di guerra o di pace nel XXI secolo tra quest'ultima e gli States). Dunque le tensioni tra l'euro ed il dollaro, il fallimento delle trattative dell'OMC a Seattle o l'uso da parte Usa di crisi geopolitiche nei Balcani e nel Medio Oriente, possono essere lette come contraddizioni inviate contro l'Europa dagli States.
Ma questa competizione coesiste anche con un rapporto di collaborazione "trasversale" tra le trasnazionali europee e statunitensi. Le fusioni e gli incroci azionari sono ormai numerosi sulle due sponde dell'Atlantico. Occorre infine sottolineare come questo rapporto di competizione e concertazione ha avuto finora le sue "camere di compensazione" per le mediazioni ed i compromessi necessari alle operazioni necessarie nelle organizzazioni sovranazionali del capitale finanziario (FMI, OCSE, OMC, i vertici del G7 e G8, la stessa ONU). In queste sedi i conflitti economici hanno trovato fino ad oggi, il modo di essere discussi e risolti senza il bisogno della guerra. Le mobilitazioni popolari sono state sicuramente importanti, tuttavia dietro il fallimento di Seattle, o il "siluramento" di Camdessus dal FMI, è possibile intravedere anche la competizione crescente tra Unione Europea e States.
Ma l'Europa è oggi dunque un polo competitivo? In questi ultimi anni si è diffusa nella sinistra europea una persistente sottovalutazione del carattere imperialista dell'UE. Questa sottovalutazione è emersa con forza ancora più evidente durante l'aggressione alla Jugoslavia, nella quale il ruolo dell'Europa veniva letto in chiave subalterna agli Usa. In realtà l'Europa di questo secolo, il XXI, è ormai un polo imperialista maturo sul piano economico che si sta dotando, sia pur gradualmente, di tutti gli armamenti ed apparati coercitivi interni ed internazionali per dare materialità alle sue ambizioni ed agli strumenti di competizione con gli Stati Uniti.
Anche Prodi, in un suo recente libro "Un idea dell'Europa" esplicita le ambizioni imperialiste europee piuttosto chiaramente. Non viene affatto nascosto il carattere di "superpotenza nazionale" che l'Europa andrà ad assumere a partire dalla rinuncia alla sovranità nazionale in materia monetaria (con l'entrata in vigore dell'euro) perché "...Europa significa una grande potenza che può giocare un ruolo di rilievo nello scacchiere mondiale..". La "zona dell'Euro", precisa Prodi "..costituisce un buon punto di partenza per tenere testa agli Usa, paese rispetto al quale è, e continuerà ad essere, sempre più viva la concorrenza sui mercati internazionali..Naturalmente la concorrenza tra i paesi più industrializzati del mondo e quelli in via di sviluppo, è un primo livello a cui guardare. Il secondo livello è costituito dalla competizione che si svolgendo all'interno dei paesi OCSE, principalmente tra Unione Europea e Giappone, la cosiddetta "Triade". L'introduzione dell'Euro se non ha dunque portato ancora alla guerra, sta in ogni caso sta sicuramente ridisegnando la mappa dei rapporti di forza economici internazionali e quelli politici; i "luoghi" dove questa mappa del potere economico sicuramente si modifica è nelle "aree di influenza" dei vari poli imperialisti. Infatti mentre in America Latina si riaffaccia il progetto di dollarizzazione (per esempio in Ecuador), gran parte dei paesi dell'Europa dell'Est, guarda all'Euro come moneta di riferimento, anche in vista della loro integrazione nel polo imperialistico europeo. Già dal 1996 si diceva dopo i molti anni d'incertezza gli States hanno riconosciuto che il loro legame con l'Europa è diventato si più importante, ma anche più conflittuale. Un primo momento critico si era già verificato durante lo svolgimento del GATT, durante il quale le trattative ed i contrasti commerciali hanno assunto la portata di conflitti per la supremazia economica e tecnologica non più solo in Asia, ma anche in Europa. Richard Holbrooke, ha spiegato che alla fine della guerra fredda, gli States hanno avuto la tentazione di ritirarsi dall'Europa ma non lo ha mai fatto proprio perché l'interesse economico era preponderante. Il contesto delle relazioni statunitensi si è andato via via modificando, tuttavia rimane perdurante l'interesse economico degli States, soprattutto per quanto riguarda alcuni settori dell'economia: per esempio l'apertura del mercato europeo agli alimenti geneticamente modificati (mais, soia, carne trattata con gli estrogeni, ecc.), pratica a cui l'UE oppone forti resistenze, ma che ripetutamente viene richiesta dall'amministrazione americana, anche attualmente nell'ultimo viaggio di Bush in Italia.
Dunque per gli States chi comanda in Europa torna ad essere determinante e a tale fine è stata funzionale la trasformazione della Nato in strumento di sicurezza attiva anche al di fuori dei suoi "naturali" confini. In questo modo gli Usa non possono fare più marcia indietro, anzi devono tenere conto del fatto che esistono in questo "gioco" due incognite : la Russia di Putin e la Germania. Infatti la Russia non è assimilabile all'Europa ed alla Germania, per cui il conseguente atteggiamento da adottare è quello di non interessarsi delle questioni interne (Cecenia in particolare) della Russia, ma porre comunque dei paletti su altre questioni internazionali (l'accordo firmato ieri - 24 maggio 2002 - sulla riduzione dei 2/3 dell'arsenale bellico nucleare - rientra in questo disegno? -. Ma torniamo alla lunga crisi strutturale dell'economia mondiale. In questo senso quali sono i territori da conquistare al libero mercato? E come tutto questo progetto si può realizzare e conciliare con la guerra?
Abbiamo visto come una parte considerevole degli investimenti Usa siano stati dirottati verso il settore informatico e militare. Anche la guerra in Afghanistan può essere letta come il tentativo (legato al petrolio) di avere dalla propria parte una sponda amica - anche attraverso le alleanze con Musharaf, presidente del Pakistan, sia come allargamento verso la piena monopolizzazione del controllo delle rotte petrolifere ed energetiche dell'Asia. Per questo possiamo affermare con Andrea Catone che "un capitalismo di stato di guerra viene visto come possibile antidoto alla crisi di sovra produzione irrisolta,". In questo modo la borghesia imperialista tenta, ancora una volta, di realizzare una gigantesca mobilitazione reazionaria di massa in nome di una guerra santa contro il "terrorismo" e tutti gli alleati dell'estremismo islamico.