Buchenwald è il capitalismo, Jenin è il mondo intero..

Genocidio, sterminio.
Sono parole che si stanno riaffacciando con forza nel dibattito politico e culturale. Ciò per diverse ragioni. La prima attiene all'infuocata discussione tra storici, segnata dall'emergere di correnti fortemente revisioniste. Nolte ha fatto scuola e adesso è all'ordine del giorno il paragone tra lo sterminio degli ebrei attuato dai nazisti e la "eliminazione della classe borghese" tentata dai bolscevichi. Il secondo fenomeno, anzi, avrebbe ispirato il primo. La pubblicistica su questi temi raggiunge un livello di inaudita volgarità, particolarmente in Italia dove l'attività degli storici è piegata a finalità politiche immediate e l'accostamento tra esperienze lontane, non importa quanto superficiale, conferisce già di per sè prestigio allo studioso.
Ma di genocidio e di sterminio si parla correntemente anche a proposito di eventi attuali che possiamo analizzare in tempo reale. Se ne parla, ad esempio, a proposito di ciò che accade in Palestina.
"Sharon Genocida" è uno slogan che viene gridato da precisi settori dei cortei, quelli più radicali, quelli che non credono nell'ossimoro della "diplomazia dal basso". D'altra parte, sul fatto che la politica israeliana persegua lo sterminio dei palestinesi, sono in molti ad essere d'accordo, anche fuori dalla sinistra rivoluzionaria ed anche senza evocare lo spettro del genocidio. Si pensi a "L'Osservatore Romano", il cui direttore Mario Agnes -irremovibile nella critica ad Israele- ha ricevuto per questo duri attacchi da parte della grande stampa italiana.
Alla luce di quanto detto, occorre confrontarsi con la questione del genocidio, perchè -in questo momento storico- la violenza del capitale si sta dispiegando con una forza inedita e perchè bisogna superare ogni equivoco, ogni confusione. Dobbiamo chiederci da dove nascono certe cose, se sono un frutto esclusivo della irrazionalità e della distruttività insita nell'essere umano o se la loro origine è anche e soprattutto un'altra. Bisogna capire se Buchenwald è una parentesi tragica e quasi inspiegabile nel cammino della specie umana verso sempre nuovi lidi di progresso o se le sue radici sono lontane e ben individuabili. Forse ancora una volta ci si deve misurare con una lettura materialistica della storia, per cogliere l'autentica matrice di fenomeni più che mai attuali. E' stato proprio un marxista, peraltro assai originale, come il greco-francese Nicos Poulantzas a spiegare quanto fenomeni quali il totalitarismo ed il ricorso al genocidio costituiscano tendenze non superabili della modernità capitalistica, legate al definirsi stesso dello spazio Statuale. Come ha scritto Poulantzas: "I genocidi sono (...) una invenzione moderna legata alla spazializzazione propria degli Stati-nazione: forma di sterminio specifica della costituzione-pulizia del territorio nazionale che si omogeneizza recingendo. Le espansioni e le conquiste precapitalistiche nè assimilano nè digeriscono: i greci e i romani, L'Islam e i crociati, Attila e Tamerlano uccidono per aprirsi il cammino in uno spazio aperto, continuo e già omogeneo, compiono, cioè i massacri indifferenziati propri dell'esercizio del potere dei grandi imperi ambulanti. Il genocidio diventa possibile solo grazie alla chiusura degli spazi nazionali contro quelli che diventano così corpi estranei all'interno delle frontiere. Simbolo: Il primo grande genocidio della storia moderna, quello degli armeni, accompagna la fondazione del giovane Stato-nazione turco da parte di Kemal Ataturk, la costituzione di un territorio nazionale sui resti dell'Impero Ottomano".
Il genocidio,quindi, è un orrore della modernità, un orrore legato al fatto che lo Stato-nazione abbisogna di un processo che riconduca ad omogeneità le differenze, eliminando ogni cosa risulti irriducibile nella sua alterità. La Turchia, nel suo processo di avvicinamento all'occidente a spese degli armeni, ce lo dovrebbe aver insegnato, ma non è così. Della tragedia armena si ricordano in pochi. La Turchia continua a fare pressioni affinchè non venga riconosciuto il carattere di genocidio alla tragedia armena stessa. Gli storici, poi, hanno difficoltà a documentare quell'evento a causa di ostacoli all'accesso al materiale contenuto negli archivi turchi. Parliamoci chiaro: ritornare sul dramma armeno oggi, vuol dire parlare -anche involontariamente- del trattamento che la Turchia riserva ai Kurdi, della politica di sistematico sterminio nei loro confronti.
Perciò di un episodio basilare della contemporaneità si parla poco e così non si arriva a comprendere bene neanche ciò che fecero i nazisti. E' indubbio, infatti, che i nazisti conoscessero quanto accaduto decenni prima di Buchenwald e Treblinka nella Turchia che si stava definendo in quanto moderno Stato-nazione. Di più, i nazisti partivano dal presupposto che se si era dimenticato quell'accadimento, anche le loro persecuzioni ai danni degli ebrei sarebbero cadute nell'oblio. Non è stato così, certo, molti libri ricostruiscono lo sterminio nei lager nazisti non solo degli ebrei ma anche dei comunisti, degli omosessuali, degli zingari. Molte immagini poi sono state dedicate a quell'orrore e se ne abbiamo la forza possiamo sempre confrontarci con le opere filmiche di Resnais, Wajda, Pontecorvo, Spielberg e altri. Però per comprendere appieno la punta più alta di orrore toccata dalla umanità occorre ritornare alla questione armena, definire il nesso tra quanto accadde nei campi di sterminio nazisti (dove si applicò la tecnologia avanzata per uccidere su vasta scala) e quanto capitò a quella popolazione cristiana d'oriente. Ciò non porterà mai a negare la specificità ed anche l'unicità del genocidio attuato ai danni degli ebrei, è ovvio. Però è anche ovvio che il salto di qualità che si compie con i lager viene da lontano, che se il razzismo biologico è altra cosa dal razzismo culturale ottocentesco, magari legato alla politica coloniale, tra i due differenti fenomeni un legame di parentela comunque esiste. In sostanza dobbiamo operare come operò Marx, il quale sostenne che l'anatomia dell'uomo spiegava l'anatomia della scimmia, cioè che analizzando il modo di produzione capitalistico si potevano cogliere i tratti salienti delle forme produttive precedenti o meno avanzate (quando Marx parla della successione dei modi di produzione, non lo si dimentichi, il suo discorso si colloca sul piano della astrazione logica e non su quello della mera cronologia).
Muovendo da questa indicazione metodologica, possiamo dire con sicurezza che è a partire dalla analisi dei campi di stermino nazisti che possiamo comprendere tutto l'orrore che li ha preceduti ed anche quello che verrà dopo di essi, sebbene questo non presenti quasi mai per intero quei connotati di concentrazione della violenza, di uso della tecnologia e di diffusione di un razzismo biologico che sono specifici del nazismo all'opera.
Forse il nazismo non ha cancellato la possibilità di fare poesia, al contrario di ciò che pensava Adorno. Lo spazio della poesia si è preservato nel reticolo di socialità che gli esseri umani hanno saputo mantenere anche in situazioni estreme, segnate dalla negazione della loro dignità e della loro sfera più specificamente umana. Ma dopo i lager tutto l'orrore va letto alla luce dei lager stessi.
Per questo dobbiamo dirlo, gridarlo anzi!
Dirlo e gridarlo quando:
sappiamo che i bambini turchi di 12 anni lavorano per Benetton,
quando Belgrado viene rasa al suolo con il pretesto di una responsabilità collettiva dei serbi nelle nefandezze di Milosevic,
quando le genti dell'est vengono deportate in Israele dalla Manpower per essere impiegate in lavori interinali,
quando i nostri occhi non riescono a proteggerci dalle immagini di Jenin. Dobbiamo dirlo e gridarlo con decisione:
Buchenwald è il capitalismo!
Sì, occorre riprendere con forza il discorso portato avanti coraggiosamente dal negletto Amadeo Bordiga, il più sottovalutato tra i grandi teorici marxisti italiani. Evidenziando ancora una volta che la scritta "Arbeit Macht frei" (il lavoro rende liberi) non fa altro che disvelare la realtà del lavoro salariato, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo nella società capitalistica. Sostenendo che la unicità della esperienza dei lager sta nel loro essere non episodio a parte nella storia umana ma punto di convergenza di molte tendenze culturali e di tutte le spinte oppressive che hanno contrassegnato la modernità capitalistica. Con i lager si ha la dimostrazione di quale abisso possa essere raggiunto dal progresso qualora esso sia mosso dalla logica del profitto.
E' una consapevolezza, questa, che deve farsi strada, che si farà strada tra chi vuole rovesciare il mondo. A Roma come negli inferi, a Calcutta o a Dar Es Saalam. Tra i contadini filippini come tra gli operai ancora legati alla produzione fordista del Brasile. E a Buenos Aires, dove la precipitazione degli eventi, la crisi irreversibile di un modello economico-sociale, ha creato le basi per il definirsi di istanze di autentico autogoverno popolare.
Ma a questa consapevolezza deve affiancarsene un'altra: se Buchenwald è il capitalismo, la Palestina è il mondo intero. Per intendersi: in Palestina vengono consumati orrori come Jenin perchè in quella terra si incontrano tutte le spinte e le tensioni che agitano lo scenario internazionale e la realtà del capitale attuali.
E' rispetto al conflitto israelo/palestinese infatti che si delinea una frizione tra USA e UE sempre meno latente. Ed è rispetto ad esso, ancora, che si rivela da sempre la sostanziale ambiguità delle borghesie arabe, agganciate al carro dell'occidente ma antioccidentali quando fa comodo, quando si afferma la possibilità di conquistare un posto al sole sulla scena mondiale (e allora quante strumentalizzazioni della questione palestinese porta avanti la pavida borghesia araba!). Di più, in quella terra troviamo anche un mercato del lavoro tra i più avanzati sul terreno delle nuove forme di sfruttamento, un mercato che trae la sua manodopera dai bantustan dove sono reclusi i palestinesi e dalle terre più desolate dell'est europeo (la Romania, luogo delle scorribande dei piccoli e medi imprenditori del nord est italico). E quant'è avanzata la situazione anche su altri piani in quel fazzoletto di terra! L'operazione "Muraglia di difesa" non ha forse sperimentato tecniche di controllo territoriale che, in futuro, potrebbero affermarsi ovunque si generi il conflitto? O vogliamo forse ascrivere al passato l'immagine dei robot che fermano i giovani kamikaze? La lotta palestinese, d'altra parte, con tutte le contraddizioni che la accompagnano in questa fase (a prima vista, meno laica e avanzata di quella che coincise con la prima Intifada), è una minaccia per la stabilità di tutto il Medio Oriente e rischia di contagiare le masse arabe sfruttate di ogni dove. Israele non può che far valere i mezzi della tecnologia più avanzata o meglio la più avanzata tecnologia dello sterminio per fermare i palestinesi. Già, Israele, l'entità artificiale costruita per volontà dell'imperialismo, lo Stato che -proprio per questo- disvela meglio le caratteristiche di tutti gli altri Stati, anche di quelli nati attraverso un lungo processo storico.
Israele si fa garante -soprattutto per conto degli States- dell'ordine mondiale in via di definizione laddove si apre la possibilità di metterlo in discussione. Ciò rimanda al fatto che anche di un'altra cosa dobbiamo renderci conto. Noi oggi scendiamo in piazza per contestare questo mondo capovolto, per dire che il Fondo Monetario e la Banca Mondiale sono responsabili dei disastri di un intero pianeta e che la FAO gestisce di fatto la fame nel mondo. Scendiamo in piazza, quando giungiamo ad un alto livello di consapevolezza, per sostenere che l'unico modo attraverso il quale possiamo liberarci dalla precarietà che domina le nostre vite è quello di saldare le nostre lotte a quelle degli sfruttati degli altri angoli del globo, di ricercare l'unità del proletariato universale.
Ma se noi possiamo contestare l'esistente è anche perchè c'è chi lotta nei luoghi dove si concentrano e precipitano le contraddizioni che segnano il mercato mondiale e il costituendo ordine mondiale. Chi vede la propria azione di trasformazione della realtà collocarsi nelle frontiere più avanzate del conflitto e -per questo motivo- incontra quotidianamente Buchenwald, la vera faccia del capitalismo.
Sì, se scendiamo in piazza lo dobbiamo anche a loro. Ai Kurdi, ai Palestinesi, alla loro "arretrata" lotta per l'autodeterminazione nazionale. Lo dobbiamo ad un passato ostinato che non si rassegna a soccombere di fronte al presente, preparando, quindi, il nostro futuro.