SEVERINO SPACCATROSI

ANTIFASCISTA NEI CASTELLI ROMANI

Capitolo 1

Il 13 giugno 1927, il mio principale (21) festeggiò, da buon "socialista" il suo onomastico e invitò i tre lavoranti a mangiare il dolce e a bere lo spumante a casa sua e a fare vacanza nel pomeriggio. Angelo Gottarelli ed io rifiutammo di andare al  "simposio"  andando ognuno per proprio conto.

Erano le 14, quando uscii dal "laboratorio" sito a Tor Sanguigna n. 14, proprio dietro Piazza Navona. Faceva abbastanza caldo e passo passo mi incamminai verso il Campidoglio riflettendo su certi problemi che mi assillavano da mesi.
Mi si poneva la questione sempre piò pressante di come fosse possibile l'esistenza e la tolleranza di squadre fasciste che assassinavano e bastonavano a sangue tutti quelli che volevano, o meglio che non la pensavano come loro. Mi ponevo il problema della ricerca di un'organizzazione che combattesse questa masnada di briganti. Mio padre era stato un dirigente socialista, un capo lega dei contadini poveri e dei braccianti ma non ebbi mai la percezione che lui ed i suoi compagni si siano posti il problema come organizzazione, non dico di attaccare i fascisti, ma almeno di difendersi. L'impressione era che aspettassero che le cose si risolvessero da sole e nell'attesa ognuno cercava di sbrogliarsela come poteva, di mimetizzarsi, di nascondersi.
Nel 1924 lavoravo da Nestore Torregiani. Veniva ogni tanto a trovarlo "Mazzucillo" (Mario Catani), a portargli "L'Unitá", l'organo del Partito Comunista Italiano. Nestore la prendeva, la pagava e la metteva sotto il bancone; mai però lo vidi leggerla o sfogliarla. Ecco, la comprava per far piacere al suo amico "Mazzucillo", per non dirgli di no! "Mazzucillo" ogni giorno si recava all'edicola Caracuzzo, l'unica esistente allora nel paese e si portava via tutte le "Unitá" invendute, tenendole sotto la giacca - non era ancora illegale  "L'Unitá", ma c'era il pericolo di incorrere in qualche solenne bastonatura da parte dei fascisti - e pensava lui, "Mazzucillo", a portarla, di casa in casa, ad amici e simpatizzanti invogliandoli ad acquistarla.

Ora, andando verso il Campidoglio, pensavo a "Mazzucillo", al lavoro metodico, tenace e coraggioso che faceva. Dov'era egli ora? Riandavo col pensiero al coraggioso e chiassoso Francesco Carnevali, detto "Palettone" mentre si dava da fare ad armare lo striscione che annunciava - era il gennaio 1921 - la costituzione del Partito Comunista d'Italia, sezione della Terza internazionale. La sera prima aveva avuto luogo, in un locale di Palazzo Savelli, ad Albano, una grande assemblea del Partito Socialista Italiano. Dopo un acceso dibattito si staccarono dalla sezione del Partito Socialista e si recarono, al canto dell'internazionale, al Teatro Sociale, sito in via di Mezzo della Rotonda n. 37/39, ove si costituirono in sezione comunista i seguenti compagni: Giovan Battista Bianchi (Titta), Alfredo Carliseppe, Francesco Carnevali (Palettone), Mario Cattani, Anacleto Cattani, Emilio Colini, Armando Dante, Giuseppe De Rossi (Peppe S. Matteo), Giuseppe Farina, Augusto Gambetti, Arduino Gasperini (Spaghetto), Armando Giannini, Tommaso Guglielmi (Finestrella), Gustavo Iadanza, Duilio Leandri, Alfredo Lupi, Armando Marescialli, Giuseppe Monti, Giovanni Palmierini, Osvaldo Peduzzi, Virgilio Pera, Vincenzo Ragno (Iupone), Augusto Risi, Anacleto Ronca, Ettore Sabatini, Armando Sbordoni, Angelo Secchi, Coriolano Valeri, Giuseppe Vanni, Mario Vistarini.

Contemporaneamente, nel circolo giovanile socialista, i giovani, in maggioranza, passavano al Partito Comunista, ma essi restavano nel circolo giovanile, erano, non li ricordiamo certamente tutti: Candido Avenale, Alfredo Biagioli, Pietro Cardosello, Giovanni Carliseppe, Domenico Catani, Aurelio Del Gobbo, Paolo Della Ripa, Nino Della Ripa, Orlando Dionisi, Armando Fabbri, Angelo Falessi, Zenone Giobbi, Adolfo Meloni, Enrico Monderna, Antonio Piersanti, Armando Ragni, Tommaso Secchi, Augusto Secchi. Terzini che poi presto passarono al partito: Vincenzo Gasbarri, Elvezio Pennazza, Alfredo De Nicola, Vittorio Raffaelli. Successivamente, dopo il 1921, ma prima del 1926, entrarono nel partito Giovanni Bellardinelli e nella Federazione giovanile Umberto Pezzi (Fusaia) e Angelo Bellardinelli.

Nell'aprile 1926. ne furono arrestati otto, giovani soprattutto, tolto Armando Marescialli, gli altri, Zenone Giobbi, Gustavo Biagioli, Candido Avenale, Angelo Falessi, Domenico Catani, Pietro Cardosello, Dante Armando e Pancrazio Garofolo (22) con l'accusa "per incitamento all'odio di classe e contro i poteri dello Stato". Sembra che siano stati il primo gruppo di comunisti arrestati nei Castelli Romani; sono stati rimessi in libertá dopo sei mesi ed un mese prima che promulgassero le leggi eccezionali. Cosa faranno ora tutti questi compagni?

Avranno avuto paura delle leggi promulgate dallo Stato fascista e si saranno perciò mimetizzati, nascosti? Infatti andavo a farmi tagliare i capelli alla barberia di Ernesto Catani, ove vi lavora anche suo fratello Domenico ed essi offrivano come lettura ai clienti il noto giornale fascista "L'impero"; ma si, anche questi comunisti avranno avuto paura, anche loro cercano di far dimenticare i loro trascorsi, anche loro cercano di mimetizzarsi, di nascondersi.

Mentre andavo cosœ riflettendo, mi si era affiancato, senza che mi avvedessi, Angelo Bellardinelli, imbianchino, con il quale frequentai la IV elementare, militammo entrambi nel 1919-1920 nei circoli Edmondo De Amicis, nei "Rossi e Neri". Confidai a Bellardinelli il problema che mi assillava e quanto desiderassi far parte di un'organizzazione che combattesse il fascismo. "Senti," mi disse " io non conosco che i comunisti". "Ma lottano veramente i comunisti?" chiesi dubbioso io. "Prendi contatto con loro e te ne accorgerai" ribattè lui "se poi non ti soddisfano, fai presto a lasciarli, nessuno ti obbligherá a restare con loro se non lo vuoi tu". "Sapresti dirmi a chi dovrei rivolgermi, ne conosci qualcuno a cui possa parlare?". "Rivolgiti a Umberto Pezzi".

La sera appena tornato ad Albano, mi misi alla ricerca di "Fusaia", nomignolo di Umberto Pezzi, finchè lo trovai; conoscevo da tempo anche lui, avendo fatto parte entrambi di un "club di nuotatori". Suo padre, Paride, socialista, con l'affermazione del fascismo fu immediatamente esonerato dal posto di bidello delle scuole elementari e non trovò piò la possibilitá di collocarsi in alcun altro luogo, con conseguenze per la famiglia, facili da immaginare. Spiego a Pezzi lo scopo per cui lo cerco da qualche sera. Mi risponde che l'organizzazione alla quale io vorrei prendere parte non esiste piò: si è disgregata da quando Vincenzo Gasbarri è dovuto partire per il servizio di leva. Ma come è possibile che un'organizzazione possa disgregarsi perchè una persona, sia pure importante quanto si vuole, si assenta per un periodo di diciotto mesi !? Eppure è cosœ, ribatte lui tetragono. Non accenna per nulla alla promulgazione delle leggi eccezionali. Ad un mio invito a fare un tentativo insieme per rimettere su l'organizzazione riprendendo le fila una per una, mi getta uno sguardo di commiserazione mentre mi dice che è inutile, non c'è nulla da fare, bisogna attendere che torni Gasbarri. Veramente la questione non era cosœ semplice come pensava Pezzi e cioè che l'organizzazione del Partito Comunista si era disgregata perchè era partito Gasbarri per il servizio militare, ne altrettanto semplice che si potesse ricostruire riprendendo le fila una per una, come sostenevo io.

Senza dubbio, la partenza di Cencetto (Gasbarri), avrá contribuito allo stato in cui si trovava l'organizzazione, ma la ragione fondamentale non risiedeva lá, ma in tutta una serie di fatti che si erano verificati. Dalla partenza di Gasbarri per il servizio di leva, vi erano stati una decina di arresti di compagni accusati "per incitamento all'odio di classe e contro i poteri dello Stato" e furono rilasciati dopo sei mesi, vi era stata la promulgazione delle leggi eccezionali con l'istituzione del Tribunale Speciale e soprattutto giá da sei mesi quelle leggi venivano applicate concretamente. Il Tribunale Speciale emette sentenze mostruose dal primo febbraio 1927. L'appartenenza al Partito Comunista, dopo il 25 novembre 1926, si paga con tre anni di carcere, fare della propaganda per il partito comunista o parlare contro il fascismo o passare ad un altro un giornale o un opuscolo antifascista si paga con cinque anni di carcere, mettere su una organizzazione comunista o antifascista si paga con dodici anni di carcere!
Le condizioni di esistenza per gli antifascisti ed, in modo particolare, per i comunisti, erano diventate molto piò difficili e la disgregazione dell'organizzazione a cui alludeva Pezzi era piò dovuta a questo che non alla partenza di Vincenzo Gasbarri. Decisi comunque di attendere il suo ritorno, che avrebbe dovuto avvenire dopo due mesi.

Tornò, infatti, la sera del 10 settembre. Erano stati lunghi mesi per me che l'attendevo con tanta ansia, ma quella sera che tornò, non gli potei parlare per motivi ovvii: vi erano i parenti ad attenderlo. Non riuscii a vederlo e di conseguenza, a parlargli, neppure la sera successiva. Ma la sera del 12 settembre lo vidi tutto agghindato e lo fermai, proprio davanti all'orologeria Tornincasa. Lo fermai, gli chiesi se poteva concedermi cinque minuti e, concessi, gli dissi chi ero, di chi ero figlio e soprattutto lo scopo per cui lo avevo fermato, che lo aspettavo da tempo, che giá mi ero rivolto a Umberto Pezzi e che lui infine, Vincenzo Gasbarri, prendesse delle informazioni su di me, che io mi rendevo conto che le questioni che avevo poste erano delicate e che quindi sarei ritornato da lui dopo qualche giorno a prendere la risposta.
"Non occorre che ritorni per prendere la risposta" ribattè lui, "da questo momento fai parte del movimento".

E' indescrivibile la commozione, la fierezza e la gioia che provai alle parole pronunciate da Vincenzo Gasbarri! Il petto mi si gonfiò di orgoglio e non posso ripensare a quegli attimi senza essere preso da sentimenti di commozione. E per tutta quella sera fui pervaso da una eccitazione nervosa provocata dalla gioia di far parte, finalmente, dell'organizzazione che avrebbe combattuto piò e meglio di qualsiasi altra contro i briganti fascisti.
Io conoscevo Vincenzo Gasbarri da tanto tempo. Lo conoscevo dal 1915. Avevo sei anni allora, ed abitavo in Via Cellomaio n. 72. La mattina, quando scendevo le scale per andare a scuola, la prima cosa che si offriva al mio sguardo era il deschetto in un canto della strada di Guido Giobbi detto "Panzone", presso cui faceva l'apprendista ciabattino Vincenzo Gasbarri: poteva avere nove anni allora. Egli si trovava lá, giá da qualche ora, ma non appena il campanone di San Pietro cominciava a suonare l'ora della scuola, "Cencetto" si alzava, si toglieva il grembiule, prendeva la cartella appesa ad un chiodo infisso nel muro e vi appoggiava il grembiule che si era tolto e si avviava a scuola: frequentava la terza elementare. Trovava il tempo di ritornare presso il deschetto nell'intervallo di tempo, dal mezzodœ all'inizio delle lezioni pomeridiane e vi ritornava terminata la scuola sostandovi fino a che non faceva buio.

Con Vincenzo Gasbarri scambiammo alcune idee sulla situazione complessa e difficile esistente e ci lasciammo con il proposito di rivederci alcuni giorno dopo. Fu allora che mi mise in contatto con Elvezio Pennazza, giovane stuccatore. Lo conoscevo soltanto di vista, ma mi rimase impresso il suo fare rapido e deciso allorchè con altri operai si dette da fare per adattare i locali della vecchia Annona, per farne la sede del "Club Sportivo Operaio" (23) .
Vincenzo domandò ad Elvezio ove credeva fosse giusto collocarmi, al che Elvezio rispose: "Mettiamolo nella cellula numero 4". Nella cellula numero 4 ho dovuto però constatare che c'ero solo io, perchè gli altri che ci dovevano essere non c'erano piò, come pure non c'erano piò tanti altri. Tutta l'organizzazione era stata sconvolta, tanto è vero che ad una richiesta di un nominativo di un compagno di Albano per formare il nuovo comitato di zona dei Castelli Romani, Gasbarri e Pennazza ritennero opportuno dare il mio nome, ed io non ero che da un paio di mesi nell'organizzazione. Ci rendemmo conto con Gasbarri e Pennazza, che occorreva impostare tutto un lavoro nuovo, assolutamente cospirativo.

Si trattava di fare un bilancio su quali forze "vecchie" si poteva contare, perciò occorreva avvicinare al piò presto tutti i compagni, uno per uno, esaminare con loro la situazione, farne risaltare la complessitá, muoverci con cautela, incoraggiare i compagni, dimostrare ad essi come se ora la situazione ci costava la perdita di qualche compagno, la stessa situazione avrebbe contribuito a darci compagni piò audaci, coraggiosi e combattivi e che il domani non poteva che essere nostro.

Stabilimmo cosœ di compiere un lavoro di propaganda e di riorganizzazione verso le vecchie forze e di reclutamento di forze nuove, si stabili quasi spontaneamente e tacitamente una divisione del lavoro: verso le vecchie forze avrebbero operato Gasbarri e Pennazza verso le nuove, avrei operato io.
Non posso, giunto a questo punto non citare un'esperienza che fu d'insegnamento per il mio futuro lavoro.

Fino all'agosto 1927, mi recavo a lavorare a Roma, partivo come molti altri operai con il treno delle 5,38 da Albano e tornavo a casa alle ore 20. Sul treno, sia all'andata che al ritorno, mi incontravo e parlavo con molti operai, ma con uno di essi, mi incontravo piò spesso. Questi era un fabbro e allorchè ci incontravamo, non lesinava lezioni di antifascismo, di comunismo. Io ascoltavo volentieri quello che egli mi diceva, mi sembrava giusto, stimavo molto quell'operaio e quando venni a contatto col partito pensai a lui come ad uno dei membri eventuali da reclutare: naturalmente, non pensavo di reclutarlo cosœ in quattro e quattro otto, ma avrei iniziato col passargli qualche copia dell'"Unitá", poi gli avrei dato qualche opuscolo, infine l'esperienza avrebbe fornito l'idea di come proseguire. Fu cosœ una sera; ormai non andavo piò a lavorare a Roma ma lavoravo ad Albano, presso Peppino il napoletano. Lo andai ad attendere nei pressi della stazione, ci vedemmo, ci salutammo e camminando un pò soli appartati, ebbi modo di parlargli e di dirgli che avevo qualcosa da fargli leggere:  "L'Unitá". Si mostrò molto contento, anzi entusiasta, gli dissi che, come colui che l'aveva data a me e s'era fidato perchè mi conosceva, ma io non sapevo chi esso fosse, cosœ io la passavo a lui perchè lo conoscevo, ma lui non aveva mai conosciuto chi gliela aveva data. Anche lui doveva farla leggere a qualcun altro che conosceva, ma questi doveva dimenticare chi gliela aveva data... insomma, lui non era un bambino, sapeva come stavano le cose, diede prova di aver capito benissimo. Ci salutammo col proposito di rivederci.

Tornai da lui dopo una decina di giorni per sapere qualcosa, le sue impressioni e a chi aveva fatto leggere l'Unitá, avevo intenzione inoltre, di passargli un opuscolo. Appena mi vide, mi salutò cordialmente e mi disse che il giornale l'aveva passato a quattro operai che lavoravano con lui e che ne erano rimasti contenti, ma... si dette una grattatina sulla testa e mentre se la dava mi gettò un sguardo cosœ implorante che fu piò significativo delle parole che pronunciò: "non mi portare piò la stampa Severino, fammi questa cortesia!" Se in quel momento mi avessero dato una coltellata mi avrebbero fatto meno male! Lui, che aveva sempre cercato di darmi lezioni di antifascismo e di comunismo! Cosœ lo avevano ridotto la promulgazione delle leggi eccezionali e la paura del tribunale speciale! Mi disse che sarebbe rimasto sempre amico mio, mi scongiurò di comprenderlo... ci salutammo, "ciao Severino, e coraggio". Non so se coraggio lo dicesse per me o per lui, sono piuttosto propenso a pensare che lo dicesse per me, fatto sta che ogni qualvolta mi incontrava, quasi gridava: "ciao Severino, e coraggio!". E siccome quelle parole alle volte quasi le gridava istericamente e cosœ dette da lui potevano quasi compromettermi, ogni qualvolta lo vedevo, cercavo di schivarlo e di non farmi vedere.

Tra i primi compagni che reclutai al partito, vi furono Luigi Benedetti, Vincenzo Bonamici, Giuseppe Galeani. Il primo, avendo una bella calligrafia, fu invitato presto a ricopiare con inchiostro copiativo appelli e volantini che poi tiravamo al poligrafo. il piò che se ne poteva (ne facemmo uno anche per gli edili dell'impresa Castelli che aveva preso l'appalto dei lavori delle Ville Pontificie). "Giggi" si prestò sempre ben volentieri, ma un giorno la sua mamma che mi conosceva, avendo io lavorato alle dipendenze di suo marito e per aver successivamente lavorato a casa sua per cucire giacche da sposo di Giggi, mi chiamò e mi tenne questo discorso: "Senti, Adriana, la moglie di Giggi, si è accorta che suo marito stava scrivendo cercando di non farsi vedere, ma lei ha voluto vedere a tutti i costi cosa aveva scritto suo marito e dopo aver letto, ha avuto tanta paura che ha abortito. Anch'io ho veduto lo scritto di Giggi che l'ha tanto spaventata ed ho capito subito che glielo avevi fatto scrivere tu, la prossima volta, quando gli dovrai far scrivere qualche altra cosa, portala a me, ci penserò io a chiamarlo e a farglielo ricopiare a casa mia, cosœ non ci sará nessun pericolo che la moglie possa vedere".  Rimasi un pò perplesso perchè Giggi non mi aveva detto niente di tutta questa storia. Ringraziai molto la sora Annunziata, ma da allora credo che non ci siamo piò rivolti a Giggi per ricopiare i testi da riprodurre al poligrafo.

Vincenzo Bonamici, ci conoscevamo da quando insieme, frequentavamo la quarta elementare, credo che per lui quella fu l'ultima classe che frequentò; io andai avanti ancora altri due anni, ma quando mi resi conto che mio padre doveva prendere soldi ad interesse per farmi fare l'abbonamento al tram per frequentare le tecniche a Velletri, non ne volli piò sapere della scuola, finii, quindi, appena la prima tecnica e andai subito a fare l'apprendista fabbro, ma dopo un anno i miei convennero che a me, non molto forte di costituzione, non si addiceva un tale mestiere e mi mandarono a fare il sarto. Quando divenni comunista e reclutai Bonamici, era il momento che piò sentivo, di altri periodi passati, il peso della mia ignoranza ed arretratezza. Dovevo parlare ad altri operai come me, fargli sentire ciò che sentivo io, far loro comprendere la necessitá della lotta contro il fascismo; la giustezza di essa, fare comprendere il meccanismo della societá, come dallo stesso suo movimento si generi contemporaneamente ricchezza e miseria, sfruttatori e sfruttati e che solo la classe operaia avrebbe potuto creare una societá senza brutture, ma come comprendere appieno queste cose e farle comprendere agli altri? Ecco la necessitá di elevare il proprio livello culturale. Ma da dove cominciare? Solo a cominciare dalla lingua, quanto c'era da imparare! Non si conoscevano che poche e smozzicate nozioni. La formulazione del pensiero non " una cosa che si apprende in quattro e quattr'otto, ma " una cosa che si acquista con una lunga pratica di esercizio e tirocinio dalla piò tenera etá sotto la guida attenta dei propri genitori. Ma che possono apprendere i figli della classe operaia, dei contadini poveri e degli sfruttati in generale, se i loro genitori possiedono della lingua solo un ristretto dialetto ed i figli li vedono solo qualche ora al giorno?
Mettersi a studiare a 17-18 anni senza un indirizzo adeguato, quanti sforzi e giravolte inutili! I compagni appena venni a contatto con loro, mi fecero avere il compendio del "Capitale" il capitale di Cafiero, il "Manifesto dei Comunisti", "Dalla II alla III Internazionale". Ottavio Caracuzzo, figlio del padrone dell'edicola, buon diavolo, mi aveva venduto per ventisei lire, tutto un blocco di "libri di grande istruzione", cosœ era scritto nella fascetta con cui li aveva avvolti ed esposti nell'unica vetrina, dandomi la possibilitá di pagare un pò alla volta. Ma non si poneva solo il problema di studiare, di come e cosa studiare, il problema di procurarsi i denari, come procurarsi il tempo, dopo aver lavorato dieci ore: giá, i sarti ancora non avevano conquistato la giornata di otto ore, poi c'era il lavoro di partito, con le sue riunioni, i contatti da mantenere, i nuovi da reclutare, ma poi, piò di tutti, acutamente si poneva il problema di dove studiare. In casa, in una camera con cinque persone è pressochè impossibile, andare in cucina la questione si complica, la cucina si deve dividere con le altre famiglie con le quali si coabita: cosœ potei dedicare qualche ora allo studio la sera e la mattina presto, allorchè i miei, prendendo a mezzadria un vigneto, con annessa Il Manifesto una casa, sito a Campoleone - proprietá Barchesi - se ne andarono per sette o otto mesi l'anno ad abitare nella casa del vigneto che avrebbero lavorato durante l'anno, lasciandomi cosœ padrone della camera che avevamo in affitto ad Albano. Bonamici, sapendo che quando la sera ero libero da impegni mi ritiravo a casa per studiare, mi pregò caldamente che lo conducessi con me, perchè anche lui avrebbe voluto migliorare le sue cognizioni. Si portò anche i libri delle materie che avrebbe voluto studiare, un libro di aritmetica ed altri libri delle ultime elementari e delle medie inferiori. Bonamici venne per parecchi mesi, finchè una bella sera di primavera, del 192,9 mentre io stavo ricopiando il testo di un discorso del compagno Togliatti pronunciato a Mosca nel 1928 alla sesta riunione plenaria dell' Internazionale Comunista, riportato dal compagno AIfio Mandrella di Genzano appena ritornato dal Confino e che poi io, la domenica successiva, avrei riletto in una vasta riunione di compagni a Velletri, mentre Mandrella lo avrebbe commentato di tanto in tanto... il compagno Bonamici faceva il suo compito. Ogni tanto, durante il mio lavoro gettavo uno sguardo su Bonamici e osservavo come tutto concentrato era intento Palmiro Togliattia scrivere e a fumare che sembrava una ciminiera. Alfine, dissi che era ora di smetterla, era passata da tempo la mezzanotte e lui si era pippato mezzo pacchetto di nazionali e aveva scritto ben quattro pagine di quaderno col nome suo incrociato con quello della ragazza per la quale spasimava a quel tempo. Poi, ho rivisto, dopo tanto tempo, Vincenzo Bonamici, nel 1946, che si faceva onore nei giorni caldi della lotta per la proclamazione della Repubblica a Piazza del Popolo.
Peppe Galeani, non restò molto nel partito. Nell'ottobre 1930, lo incontrai per caso ma non aveva giá piò nessun legame con il partito per il centro di Roma, lo lasciai subito, dovevo recarmi ad un posto importante.

Eravamo riusciti, dopo tanto tempo, a ricostituire i legami col centro del Partito ed ora doveva andare ad un appuntamento con un funzionario. Rividi Peppe Galeani nel 1935, mentre mi conducevano all'ufficio antropometrico del carcere di Regina Coeli, subito dopo la condanna a 20 anni di reclusione. Non appena mi vide divenne rosso come un peperone e non fu capace di biascicare una parola; solo nel momento in cui si allontanava ebbe il coraggio di salutarmi e piò s'allontanava e piò gridava forte il suo saluto; mi è rimasto impresso nella memoria. Cosœ, povero Peppe! Poi nel pieno della lotta per la resistenza nel novembre-dicembre 1943 Peppe Galeani rubò un mitra ad una delle guardie repubblicane a Roma e lo portò in dono ai partigiani di Albano. Lo portava sotto il paletot ed arrivò presso Benedetti "Giggi" e cercava Severino; forse, voleva mostrargli che egli, Peppe, non sapeva solo derubare le signorine ed i preti, e che infine lui non era marcio del tutto.

Tramite Elvezio Pennazza presi contatto con i compagni di Genzano. L'organizzazione del Partito a Genzano era il centro dirigente di tutta l'attivitá dei Castelli Romani. Giá tutta una serie di compagni dirigenti erano stati tolti dall'organizzazione dalla polizia che li aveva inviati al confino: Angelino Bernardini, Alfio Mandrella che conobbi negli ultimi anni del 1927 allorchè ebbe una licenza dalla polizia per la morte di un parente.

Pietro Rotondi e Salvatore Capogrossi (questi era allora senza dubbio il compagno piò notevole che avesse l'organizzazione dei Castelli Romani) furono utilizzati dal centro del partito che li inviò a lavorare in altre regioni d'Italia. Capogrossi fu inviato a lavorare nel Mezzogiorno (24).
Avevo avuto occasione di vederlo ed ascoltarlo in una riunione che egli presiedè in una sera alquanto buia e fredda dietro il monumento di Menotti Garibaldi presso i villini di Ariccia agli ultimi giorni del 1927. Ci parlò della situazione del nostro partito e di quella internazionale. Ebbi modo di conoscere agli ultimi del 1927, il compagno Ercole De Santis che mi sollecitò di prendere al piò presto i contatti con i compagni di Anzio e Nettuno tramite Domenico Catani (25) .
Mi incontrai con Camillo Spinetti per prendere accordi onde rivederci al piò presto per stabilire come nuovo Comitato di Zona dei Castelli Romani tutto un programma di lavoro, conobbi altresœ parecchi compagni di Genzano.

Da un breve esame del lavoro svolto in direzione del reclutamento di forze nuove, mi accorsi presto che avrei dovuto reclutare anche e soprattutto in un'altra direzione.
Albano, quaranta quarantacinque anni fa, aveva tutte altre caratteristiche delle attuali. Non raggiungeva i diecimila abitanti e tolti i cinque seicento operai, in maggioranza muratori e qualche decina di impiegati, che si recavano a lavorare a Roma, tolto qualche centinaio di piccole imprese artigianali con altrettanti dipendenti nel paese ed un centinaio di piccoli commercianti e negozianti, il resto, circa un migliaio e mezzo di famiglie era dedito all'agricoltura. La stragrande maggioranza di queste famiglie erano composte in gran parte di braccianti, semibraccianti, contadini poverissimi e poveri, non molti, anzi pochissimi i medi, i ricchi si potevano contare sulle dita.

Il nostro effettivo di partito si componeva nella grande maggioranza di piccolissimi artigiani ed operai dipendenti di piccole imprese; ecco, dovevamo reclutare fra i muratori e fra i braccianti e contadini poverissimi e poveri. Questo doveva essere il serbatoio fondamentale dove dovevamo attingere le nostre forze, fondamentale abbiamo detto, non esclusivo. Nel campo dei giovani braccianti contadini si sentiva parlare molto bene di Angelo Monti. Attorno ad Angelo Monti gravitavano tutta una quantitá di giovani braccianti, contadini poveri ed anche qualche muratore influenzati da lui. Guadagnato alla causa Angelo, sarebbe stato facile conquistare gli altri. Cosœ un giorno, verso gli ultimi del 1927, mi misi alla sua ricerca. Non era difficile cercarlo, bastava fare il giro delle tre o quattro osterie ove comunemente i giovani contadini si radunavano, dopo aver lavorato tutto il giorno, per farsi una partita a carte. Lo trovai in una osteria sita in via Piano delle Grazie, mi rivolsi a lui e senza tanti preamboli gli dissi che gli dovevo parlare e se era tanto cortese da dedicarmi cinque minuti. Lo condussi con me verso la strada che dava al cimitero e cominciai col dirgli che mi ero rivolto a lui perchè suo padre era stato uno dei fondatori della sezione del partito Comunista ad Albano nel gennaio del 1921. Suo padre quindi era stato un uomo di lotta ed i figli non potevano non rappresentare la continuitá di ciò che giustamente aveva iniziato il loro padre, come fosse necessario combattere il fascismo e tante altre cose. Che riflettesse su quanto gli dicevo, noti volevo una risposta immediata, perchè la questione doveva essere ben riflettuta e valutata. Non si poteva entrare a far parte della gioventò comunista se non si sapeva far fronte a tutto ciò che comportava questa appartenenza.
Dopo una settimana ritornai a prendere la risposta, che fu positiva. Con Angelino Monti, la gioventò comunista di Albano conquistava uno dei giovani migliori e coraggiosi.