Capitolo 10
Nominato a comandante delle formazioni partigiane dei Castelli, Pino Levi Cavaglione
Solo alla fine di ottobre convocammo a Genzano, con Salvatore
Capogrossi, i responsabili militari di tutte le squadre, in quella sede feci
la proposta di fare responsabile militare di tutte le squadre operanti nei Castelli,
Pino Levi Cavaglione. Perchè Pino? Perchè la squadra sua, costituita
da neanche un mese, aveva già condotto delle azioni di guerra, non solo,
ma lui oltre ad essere colui che aveva preso l'iniziativa di queste azioni di
guerra, le aveva dirette e ne era stato il primo esecutore. Anche qualche altra
squadra aveva già condotto azioni di guerra delicate, ma l'iniziativa
non era qui del comandante militare, ma del Commissario politico, il primo ne
era stato un fedele, preciso esecutore.
La questione finì con un compromesso. La creazione di un comando composto
da tutti e tre: Pino Levi Cavaglione, Fabio Braccini e Ferruccio Trombetti,
i quali avrebbero discusso con me le azioni militari da fare e i luoghi ove
farlo. Perciò credetti opportuno che il comando militare si spostasse
e si portasse lì dove c'era la squadra dei Piani Savelli ove era commissario
politico Alfredo Giorgi e responsabile militare Ferruccio Trombetti.
Venne continuamente da me Augusto D'Agostini, il compagno responsabile di partito
di Ariccia, rastrellato dai Tedeschi perchè denunciato da luride spie
e portato al campo di concentramento. Riuscì a fuggire dal campo. I tedeschi
per rappresaglia presero il vecchio padre e la sorella, li avrebbero lasciati
liberi solo quando egli si sarebbe consegnato ai tedeschi. Voleva un consiglio
da me, cosa dovesse fare. Non consegnarsi ai tedeschi, naturalmente! Quante
discussioni dovetti fare per convincerlo che quella era la sola cosa giusta
da fare! Alla fine la sorella e il suo vecchio padre li dovettero rilasciare,
ma se lui si fosse consegnato non lo avrebbero certo risparmiato!
Agostino D'Agostini mi presentò nei giorni successivi Lorenzo D'Agostini
responsabile di zona dei Castelli del lavoro militare del partito d'azione.
Avrei avuto con lui legami molto stretti, inerenti all'attività che conducevamo
entrambi. La sua casa a via Magna Grecia ? sempre stata a disposizione del movimento
partigiano e sua moglie Clara non solo lo assecondò
ma fu una sua intelligente collaboratrice. Anche la casa di Ariccia con la sua
mamma e sua sorella Giovannina sono state di un aiuto inestimabile per tutto
il movimento partigiano. Egli avrebbe condotto tutta una serie di azioni coraggiosissime,
e lui che mi avrebbe mantenuto in contatto diretto con il comitato militare
centrale, mi avrebbe fatto conoscere in seguito il prof. Edoardo Volterra e
sarebbe venuto un giorno con lui alle "Cese". Per la sua attività
Lorenzo D'Agostini sarebbe stato arrestato e torturato a via Tasso.
Da un esame sommario delle convinzioni politiche degli
elementi che formavano l'effettivo delle varie squadre costituitesi in tutti
i Castelli Romani risultava che non solo la stragrande maggioranza era formata
da comunisti, ma dalle altre correnti non si dichiarava che qualcuno, che erano
qualche monarchico, qualche cattolico, ma dove erano socialisti, democristiani,
azionisti? Pregai tutti i giovani compagni di porre la questione nei comitati
di liberazione comunali per sollecitare le altre correnti a prendere parte viva
anche alla formazione e alla costituzione delle squadre armate. Ad Albano, la
questione nel seno del Comitato di liberazione la posi io stesso. I compagni
socialisti, mi rispose Ridolfi e anche Caporilli, di giovani da mandare nelle
squadre non ne avevano, erano a disposizione tutti compagni di una certa età.
Gli azionisti per bocca di Armando Sannibale mi risposero che loro erano quattro
gatti, che non avevano nessun giovane. Una risposta diversa mi diedero i democristiani
per bocca di Romano Di Baldo. Questi mi disse che essi non avevano nessun ordine
dei loro diretti superiori. "Ma come
? possibile, Di Baldo?" gli chiesi
"Ma allora cosa significa Comitato di Liberazione? Come ci si libera dai
tedeschi e dai fascisti, con delle chiacchiere?". Ma
egli ribattè che se non gli davano ordini i superiori non si sarebbero
mossi. "Ma chi sono i vostri diretti
superiori nei Castelli Romani?".
Mi rispose che era l'avvocato Nicola Angelucci e mi autorizzò di andare
a parlare con lui anche a nome suo.
Egli mi diede l'indirizzo dell'avvocato Angelucci, vi andai e mi accompagnava
per l'appunto Lorenzo D'Agostini di Ariccia. Ma non combinammo nulla. Noi dicevamo
una cosa e lui rispondeva con un'altra: era chiaro che egli diffidava di noi.
D'altra parte non potevamo andare a chiedere certe cose, così direttamente,
forse se avessimo condotto Romano Di Baldo con noi la cosa sarebbe stata diversa,
si sarebbe meglio chiarita. In seguito Romano morì sotto i bombardamenti
e l'avvocato Angelucci finì a via Tasso.
Intanto, il comando militare a tre non andava. Pino e Fabio avevano caratteristiche
tutte diverse e concezioni contrastanti, Ferruccio non aveva una posizione.
Non poteva avere una posizione subordinata. Forse Fabio dovrebbe essere stato
utilizzato in un altro genere di lavoro, quello inerente alla sua specializzazione.
Egli era un ingegnere e avrebbe potuto aiutarci molto. Ma sembrava troppo triste
e privo di volontà, sembrava che non avesse capacità di amalgamarsi
con noi. Dissi al Comitato di Liberazione centrale militare che avrei proceduto
alla nomina di Pino Levi a unico comandante militare centrale e nessuno si oppose.
Pompilio Molinari mi pose la questione verso la seconda quindicina di novembre:
se eravamo in grado di accogliere ed utilizzare uno scaglione di una ventina
di sovietici liberati dal campo di concentramento sito nei pressi dello scalo
di Monterotondo.
D'accordo con Capogrossi ci incontrammo con colui che organizzò la liberazione
dei sovietici dal campo di concentramento di Monterotondo: Alexei lvanovic Fleiscer,
un russo maggiordomo a Villa Thai, ambasciata del Siam. Questo russo di una
antica famiglia di cadetti, fuggì dalla Russia al tempo della rivoluzione,
dopo tante vicissitudini era divenuto comunista in Italia. Alessio parlava correttamente
7-8 lingue europee compreso l'italiano, era un uomo eccezionale e coraggiosissimo.
Con lui insieme a Capogrossi, prendemmo accordi precisi. Tutte le mattine per
una decina di giorni alle ore otto precise, io mi sarei recato a Piazza Roma,
nei pressi di una panchina o seduti sulla panchina sita presso il mercato del
pesce ci sarebbero stati i russi che Alessio avrebbe indirizzato ad Albano.
Gli altri li avrebbe portati direttamente Alessio. Quelli che sarebbero venuti
da soli a Piazza Roma, dovevano avere in mano l'Osservatore Romano. Dapprima
i russi sarebbero stati portati a casa di Alfredo Giorgi dove sarebbero stati
ricevuti da Laura, Peppina e Nennella. Dopo una sosta di un giorno ad Albano
i russi vennero accompagnati a Genzano ove Capogrossi aveva gi? disposto che
essi sarebbero stati ospitati in due casette in muratura situate nella contrada
"Muti". Spesso mi sarei recato da questi sovietici con Pino per spiegare
loro le azioni che avrebbero dovuto svolgere in posti determinati. Essi erano
diretti dal tenente Michele Kassian, il primo che trovai una mattina ad attendermi
alla panchina di Piazza Roma.
Dal taglio delle linee telefoniche alla asportazione di lunghi tratti di linea
per creare difficoltà nelle loro comunicazioni, dalla disposizione dei
chiodi quadripunta
nei tratti di strada ove era piò facile incapparvi affinchè le
gomme dei loro mezzi fossero stracciate e messe fuori uso, alle azioni di mitragliamento
sulle macchine tedesche per uccidere chi ne era alla guida e gli altri che vi
erano sopra e la presa di possesso di ciò che vi poteva essere utile
per i partigiani; alla eliminazione dei portaordini, alla eliminazione dei tedeschi
isolati; dalla posa delle mine che sembravano dei semplici sassi dove passavano
automezzi tedeschi ad azioni di brillamento di mine per impedire il traffico
ostruendo le strade e per incutere terrore e panico fino alle grandi azioni
di sabotaggio per impedire il traffico sulle grandi linee ferroviarie nazionali,
non ci si era giunti in quattro e quattr'otto, ma via via accumulando esperienza
giorno per giorno.
Quanto abbiamo cercato degli specialisti che sapessero soprattutto conoscere
e saper maneggiare gli esplosivi, sapessero armare, confezionare una mina! Ricordo
che mandarono uno da Roma, ma non era un romano, dicevano che se ne intendeva.
Si faceva chiamare Mario, il Francese. "Sai
armare una mina?". "Altrochè,
è la mia specialità!". "Ma
dici davvero?". "Ohò,
che dico delle balle?". Partecipò ad
un attentato dinamitardo, il primo che fallì sulla Roma-Napoli via Formia.
Non era lui che aveva armato la mina perchè lui non era buono a nulla,
ma vi partecipò come membro di squadra che protegge con la sua guardia
coloro che stavano scavando fra i binari per mettere
bene a posto, nel punto giusto tutto l'apparato e applicare l'esplosivo fra
le ganasce dei binari. Commise un errore imperdonabile, si perdette la pistola
che la squadra gli aveva affidato. Pino era giustamente furibondo contro di
lui. Voleva che lo si punisse, si raccomandava e chiedeva che lo perdonassimo.
A me, faceva tanta compassione. Lo mandarono via dai Castelli Romani. Passò
le linee e ripassò da queste parti vestito da americano, con la quinta
armata e quante arie si dava! Ricordo la descrizione che me ne fece Cesare Passa,
di quel fallito attentato dinamitardo al quale partecipò anche lui, fatto
nello stesso posto ove fu fatto circa un mese dopo, cio? sullo stesso ponte
delle sette luci; ma fallì perchè l'esplosivo era troppo poco,
erano solo 3,5 Kg. Di fronte allo scontento e all'amarezza che manifestavo per
tanti sforzi e sacrifici fatti dai nostri compagni, il povero Cesare, mi diceva
col viso sul quale scorreva qualche lacrima: "Tu non puoi immaginare neanche
lontanamente, Severino, che spettacolo impressionante e spaventoso nello stesso
tempo e ciò che si prova sentire con un fortissimo boato e vedere al
tempo stesso il locomotore tutto avvolto dalle fiamme e sollevato pi? di un
palmo dal binario e ricadere già sopra i binari e riprendere ad andare.
Noi che credevamo di avercela fatta, rimanere esterefatti, come è possibile
che non sia avvenuto nulla, come è possibile che il treno abbia potuto
riprendere la corsa come se nulla fosse avvenuto?!". Questo spiega
perchè poi su quel ponte si esercitava una strettissima vigilanza. Ogni
mezz'ora passavano su di esso due pattuglie. Per giorni e giorni, notte e giorno
i nostri compagni, Ferruccio Trombetti, sostituito ogni tanto da Giuseppe Mannarino,
un calabrese della squadra, avevano studiato nei minimi particolare ciò
che avveniva sul ponte. Il tempo in cui si vedevano che spuntavano le due pattuglie,
quanto tempo impiegavano a percorrere il ponte, quanti minuti impiegavano per
allontanarsi e il tempo preciso in cui ricomparivano le altre due pattuglie.
Non si poteva fare in tempo a mettere a posto tutto l'approntamento dell'apparato
della mina in 15 minuti, tempo massimo che potevano restare i nostri compagni
allora, dovevamo lasciare il lavoro fatto, coprire bene ciò che avevano
fatto affinchè le pattuglie passando non si accorgessero di nulla, e
quando erano passate ritornare in fretta sul ponte e proseguire il lavoro con
la massima calma, mettere bene i detonatori, le capsule al fulminato di mercurio
che avrebbe schiacciato il locomotore perchè dopo tanti secondi, calcolato
al decimo di secondo, sarebbe successo il disastro. Certo, il lavoro dei compagni
che stavano approntando la mina era protetto dai compagni di squadra che erano
armati di mitra, di pistole e di bombe.