Capitolo 5

Deferimento presso il Tribunale Speciale di Roma

Dal 23 dicembre 1934 alle ore 22, fui a Roma. La città l'attraversai da Termini a Trastevere, per essere condotto a Regina Coeliregina coeli dentro un furgone carcerario tra due carabinieri, gli stessi che mi prelevarono la mattina dal carcere di San Vittore. Dopo pochi giorni rividi i miei, la mia mamma, il papà, Marcello, mio fratello minore, che era un bel bambino di circa sei anni, poi, dopo qualche giorno avrei rivisto anche mio fratello Corrado. Ferruccio, a quel tempo, era sotto le armi e mi scriveva di quando in quando.
Dopo qualche mese che mi trovavo a Roma, venne chiusa l'istruttoria e venni messo in una cella insieme a due compagni: Rodolfo Raffone, un tarantino già condannato dal tribunale speciale nel 1928 a quattro anni, anche questa volta, con la sentenza n. 35 del 15 febbraio 1935, si beccherà altri quattro anni; l'altro Francesco Piredda, un sardo di Nuoro, ma legato all'organizzazione di Partito nell'Ilva e nella OM di Savona: anch'egli prenderà quattro anni con la sentenza n. 15 del 2 marzo 1935. Nel periodo che sarei rimasto a Roma in attesa del processo avrei conosciuto ancora: Ermenegildo Vittoviani di Risone (Istria) che sarà condannato a quattro anni con la sentenza n. 25 del l aprile 1935, Giuseppe Bigot di Cormone (Gorizia) che prenderà cinque anni con sentenza n. 27 del 6 maggio 1935, Gino Provvedi di Poggibonsi (Siena) che prenderà due anni con la sentenza del 5 aprile 1935, n. 23, Amedeo Napolitano di Benevento, un sottufficiale dell'incrociatore "Colleoni"Imcrociatore Colleoni che si prenderà quattro anni con la sentenza n. 22 del 2 aprile 1935.
Erano quasi cinque mesi che ero a Roma e finalmente il 20 maggio 1935 venne celebrato il processo del quale facevo parte (28).
Quando nell'aula del Tribunale fu letta la sentenza con le pene inflitte ad ognuno di noi, Ettore Borghi, Albino Colletti e il sottoscritto non eravamo presenti nell'aula. Preferirono non condurci allorchí veniva letta la sentenza per misura precauzionale, temevano che facessimo qualche manifestazione. Il sottoscritto, aveva già avuto un paio di battibecchi sia col Presidente del Tribunale, Filippo Antonio Guattieri, sia con il procuratore Francesco Dessy. Filippo Guattieri, il quale fattomi uscire dalla gabbia, mi fece avvicinare al banco della presidenza per domandarmi cosa ci fosse scritto nella lettera cifrata che avevano, al che risposi che non ero lì per rispondere alle sue domande e delle mie azioni ne dovevo rispondere solo al mio Partito; non ricordo ciò che ribattè, ma ciò che mi rispose mi permise di soggiungere "Eh, allora le questioni che ha posto, poteva risparmiarsi di porle!". Dessy, il procuratore iniziò a parlare di me con queste parole: "Ed ecco Spaccatrosi Severino, che ogni tanto fa lo spaccone, sentite, sentite cosa manda a dire ai suoi genitori nella lettera scritta il tal giorno". E cominciò a rileggere le righe della lettera sequestrata che ho già citato avanti "E' da pazzi pensare che io farò tutti gli anni che mi daranno, certo che una parte li farò, l'altra parte la faranno loro". Non finì neanche di leggere che io gli domandai: "Ebbene, ora che ha letto, cosa crede di aver fatto, ha forse dimostrato che io sono uno spaccone?".

I fascisti che erano dietro le transenne, mi facevano dei cenni che se mi avessero tenuto nelle loro mani chissà cosa mi avrebbero fatto. Che impressione ci ha fatto la condanna? Proprio nessuna, tutti, piò o meno, ci aspettavamo gli anni che ci hanno inflitto. Un mese prima circa, mi vennero a prendere in cella per condurmi ad una udienza. "Chi sarà?" pensavo "Non ho chiesto udienza a nessuno". Mi si presentò un uomo sulla cinquantina di anni, mi disse che era l'avvocato tal dei tali e che era stato scelto dal Tribunale per la difesa d'ufficio per me. "Allora ascolti bene cosa le dico" gli risposi "Lei, non può fare assolutamente nulla per me, la prego, quindi, di non presentarsi ai miei genitori promettendo loro di farmi mitigare la pena, essi non hanno una lira da darle, d'altronde non le devono nulla, la prego, quindi di lasciarli in pace". Si compiacque con me perchí comprendevo perfettamente la situazione che lui veramente non poteva farci assolutamente nulla, mi volle stringere la mano e un arrivederci al processo.

Allorchè questo avvenne, tutta la sua linea di difesa consisteva in questo: "Che non era logico, non era giusto infliggermi la condanna massima di tre reati distinti, allorchè uno li contemplava tutti e tre. Voi condannate al massimo della pena chi costituisce, organizza e dirige organizzazioni del Partito Comunista, dodici anni; il massimo della pena per chi fa propaganda per il Partito Comunista, cinque anni; massimo della pena per chi fa parte dell'organizzazione del Partito Comunista, tre anni. Ma colui che costituisce, organizza, dirige come può fare questo, se contemporaneamente non – anche membro del partito o propagandista?". Non fu una trovata originale, ma i giudici non vollero sentire nulla, ní prima di lui e tanto meno, ora, con lui. Come ho già detto, le condanne ce l'aspettavamo e non eravamo affatto intimoriti, c'era uno spirito di lotta altissimo. Albino Colletti, dopo gli otto anni beccati al processo, gliene fecero un altro nella stessa giornata, irrogandogli altri quattro anni per essersi fatto pescare lo stesso giorno del primo maggio strillare dalla finestra affinchè udissero fuori: "Viva il primo maggio, viva il Comunismo!" cosa che si faceva, un pò tutti.

Certo, la questione per coloro che avevano lasciato fuori moglie e bambini era un pò diversa da quelli che non avevano questi problemi. Nel nostro processo su 17 persone, solo quattro avevano lasciato moglie e bambini: Tabini, Sala, Ghiringhelli, Rossetti. Sala e Ghiringhelli sarebbero usciti il settembre prossimo; la questione era piò difficile per Tabini, meno per il Rossetti. Il Borghi mi pregò, quel giorno del processo, di stare un pò vicino al Tabini per incoraggiarlo, – chiaro però, che la preoccupazione per la moglie ed i figli dei compagni arrestati – in ragione inversa alla solidarietà che i compagni rimasti fuori saranno capaci di creare intorno alle famiglie degli arrestati. Rossetti e Tabini facevano parte di una organizzazione che operava in una zona industriale ove la solidarietà di classe era una virtò ormai acquisita.
Ritornato a Regina Coeli, mi misero insieme a due compagni del gruppo Borghi: Luigi Pacchetti e Achille Rossetti, calzolaio il primo, operaio alla Breda, il secondo. Insieme, rifacemmo la grammatica italiana che io avevo già studiato quando ero a Milano. Si studiava insieme un'oretta la mattina, poi il fondamentale della lezione lo scrivevo sulla "lavagna" - i due grandi vetri della finestra - si scriveva così bene su di essi con il sapone! La sera si ripeteva ciò che si era appreso. Una volta con la mia solita mancanza di tatto, feci un'osservazione al Pacchetti per non essere ancora riuscito a ritenere alcune nozioni: ruppe in un irrefrenabile pianto; rimasi molto male, non per lui, ma per me, che non ero ancora capace a trasmettere quel che volevo senza incorrere in simili infortuni e glielo dissi apertamente, sinceramente, francamente autocriticandomi.
Non era passato neanche un mese dacchè ebbe luogo il nostro processo, che una sera, verso le ore 20, aprirono con gran fracasso la nostra cella e quelle dove erano gli altri compagni del processo e ordinarono: "Fuori con tutta la roba!". Ci portarono all'ufficio matricola ove ognuno ritirò le proprie cose e tutti ci chiedevamo con curiosità dove ci avrebbero condotto. Ci venne finalmente detto un nome: Castelfranco Emilia. Tutti credevamo di partire la sera stessa ed invece con tutti i nostri fagotti e valige ci portarono ai cameroni di transito, che proprio perchí tali, la pulizia lasciava molto a desiderare, non si faceva in tempo a poggiare il sedere su quelle brande che si era assaliti da una grande quantità di cimici che ti faceva levare la voglia di sedercisi una seconda volta, cos? i meno resistenti alle cimici passarono la notte completamente in bianco, passeggiando, discorrendo e fumando. Inaspettatamente, alle tre del mattino mi chiamarono insieme ad un altro che era stato condannato per spionaggio, salutai alla svelta tutti i miei compagni di processo: Borghi, Colletti ed altri. Li avrei rivisti in parte nel 1945-46, degli altri avrei avuto loro notizie solo di quando in quando.
I carabinieri di scorta ci fecero salire, il mio compagno di catena e me, su un furgone e ci condussero alla stazione Termini. Ci fecero salire immediatamente su un treno che era, già sul binario di corsa per Napoli. Ad Aversa, dove giungemmo verso le 19, ci fecero scendere e siccome avremmo dovuto prendere il treno che andava in direzione delle Puglie alle ore 16, ci condussero in attesa, nel carcere di Aversa dove ci misero in una luridissima cella, dove dovevano mettere i detenuti puniti. Ripensando a certe cose, non riesci a spiegarti come alle volte, sei portato a comportarti in un certo modo, piuttosto che in un altro. Appena entrati in quell'antro maleodorante, il maresciallo dei carabinieri ci fece una lunga filippica circa lo stare attenti a non imbrattare i muri della cella perchí, in caso contrario, ce l'avrebbe fatta pagar cara. Al primo sguardo, si comprendeva che doveva essere una gran carogna. Passò un'ora, ne passarono due, tre e poi venne lo stimolo a dei bisogni naturali e mi accorsi che nella cella non c'era l'occorrente ove farla. Al fine al buio scorsi in un canto un vaso di vimini: a cosa servirà questo? Certo non servirà per fare pipì, anche un bambino l'avrebbe compreso e lo comprendevamo anche noi benissimo, ma c'era soltanto questo a disposizione. "Hai visto che grinta il maresciallo?" mi fece quello che era con me, un uomo sui cinquant'anni "Immaginiamoci quello che farà se la faremo nel cestello di vimini" aggiunsi io "Cestello di vimini, hai detto?" replicò il mio compagno "Ma allora tanto vale farla per terra e buona notte!".

Alla fine optammo per il cestello per vedere la grinta che avrebbe fatto il maresciallo. Venne infine l'ora in cui ci vennero a prendere per ricondurci alla stazione. Ci condussero fuori della cella e i carabinieri ci stavano ammanettando, quando arrivò, come scaraventato da una catapulta, il maresciallo, con gli occhi fuori dalle orbite: urlava verso di noi come un ossesso, parole che sembravano uscire da una mitraglia. I carabinieri si erano fermati e si erano irrigiditi sull'attenti, alla fine il maresciallo riuscì a far capire di quale reato ci si incolpava e noi, quel Cappelletto di Novara ed io, imperterriti a sostenere di fronte ai carabinieri, che il maresciallo stava prendendo una cantonata, perchí noi lasciavamo la cella esattamente come l'avevamo trovata. Figuriamoci il maresciallo! Per la bile divenne paonazzo e i due carabinieri s'intimidirono tanto di fronte a questo suo atteggiamento, che si credettero quasi in obbligo di stringere tanto le manette di fronte al loro superiore che bastò questa stretta per procurarci un gonfiore ai polsi che durò un paio di giorni.

Alle sedici, prendemmo il treno, ci fecero salire su di un vagone in cui era scritto Bari. Era la fine del mese di giugno. Il treno era affollatissimo, il mio compagno di catena non aveva un soldo ed io possedevo 65 centesimi, un vaglia di 50 lire era rimasto a Roma, me lo avrebbero trasmesso quando sarei arrivato a destinazione. Il caldo era soffocante, i carabinieri, con 35 dei centesimi che avevo mi acquistarono un pacchetto dl Milit, sigarette, che davano solo ai militari, li ringraziai caldamente perchè quello che ci avevano fatto era un grande favore: noi non avevamo chiesto ne avremmo mai chiesto niente ma non potevamo rifiutare il favore che essi spontaneamente ci avevano fatto. Arrivammo a Bari verso le ore 19 e immediatamente ci condussero al carcere, dove ci misero in due celle separate. Ero veramente stanco ed affamato, durante Carcere di Turiil viaggio non avevamo mangiato nulla e anche adesso non avevo di che mangiare ma in compenso, c'era una branda pulita in una cella altrettanto pulita e potevo farmi una bella dormita fino all'indomani mattina. La mattina dopo ci vennero a prendere per tempo e ci condussero con un trenino a Turi che dista da Bari una ventina di chilometri. I carabinieri, consegnarono i trenta centesimi che mi erano rimasti ad una guardia presente che mi aveva offerto della frutta in cambio dei trenta centesimi, infatti dopo pochi minuti mi portarono una scodella quasi colma di albicocche che non mangiavo da anni.