NOTE SPARSE SULL'ARTICOLAZIONE DI UN PERCORSO AUTONOMO SU MEMORIA DI CLASSE/STATO/PRIGIONIA POLITICA

 

 

Le iniziative che si sono consumate attorno al 12 dicembre, con i profondi limiti che le hanno segnate, ci offrono lo stimolo per una riflessione su nodi strettamente connessi alla ridefinizione di un'identità e di una progettualità antagoniste. La centralità della questione della detenzione politica - così come si è affermata in un anno di discussione nel "movimento" - ha trovato una conferma in tutte le manifestazioni e le discussioni collegate alla ricorrenza della strage di Piazza Fontana. Altrove, abbiamo definito un "anno vissuto pericolosamente" quello in cui una serie di questioni - la liberazione dei/delle compagni/e prigionieri/e, il carcere come istituzione totale - sono state immesse nella riflessione di un' area culturale e politica fino a quel momento in tutt'altro affaccendata. Come sì è detto più volte, una generazione di compagni/e cresciuta in esperienze di piccola resistenzialità ( come i centri sociali ) si è dovuta cimentare con tematiche concernenti i nodi della strategia, il confronto tra le diverse opzioni esistenti nella sinistra rivoluzionaria nel momento di massima conflittualità che si è espresso in questo paese (gli anni '70). E' stato un bene o un male? Dipende, a ben vedere la discussione sviluppatasi sulla liberazione difficilmente ha affrontato i nodi appena accennati, impedendo ai più un'adesione totalmente cosciente agli "schieramenti" che piano piano si sono formati.

A qualcuno potrà sembrare inutile, in quanto non si sta vivendo una fase prerivoluzionaria, ma sentiamo l'esigenza dì riparlare di quelle che sono state le diverse vie della conquista del potere ipotizzate nella sinistra rivoluzionaria in certi anni. Vorremmo discutere, ad esempio, di come all'idea dell'attacco al cuore dello stato si contrapponessero altre strategie, magari legate alla constatazione che lo stato e - più in generale- il potere borghese non ha uno ma molti cuori? Si pensi, in tal senso, a quella strategia da "guerra di posizione" di gramsciana - definizione che nella sua effettiva ambivalenza- è stata vista dai revisionisti come "lunga marcia" dentro le istituzioni, e da alcune/i compagne/i come conquista di tutte le "casematte" (il luogo di lavoro, la scuola, la pubblica amministrazione nel suo complesso ) in cui si articola il potere capitalistico, nella prospettiva della creazione di momenti di rottura e di contropotere da generalizzare ed unificare. Riflettere un attimo su certe cose può far bene, nel momento in cui si diffondono illusioni su un uso in chiave "alternativa" delle istituzioni rappresentative. Fare riferimento alla "durezza" dello Stato del capitale può aiutare a liberare il campo da perniciose mitologie come quella "municipalista-libertaria", fondata su un'idea del tuffo fuorviante della dialettica tra autogoverno territoriale e democrazia rappresentativa

( cioè, capitalistica).

A nostro avviso, la base di certe impostazioni va riritracciata nella teorizzazione negriana del superamento della legge del valore/lavoro che, negando la ragion d'essere tecnico produttiva del capitale, ne riduce il dominio a puro arbitrio. Quando sfugge il fondamento materiale del potere, lo stato stesso diviene un'entità che si erige su un terreno friabile.

Niente di più semplice, quindi, che prenderlo in mano in poco tempo, in modo del tutto indolore, magari a furia di pressioni sui parlamentini locali da parte degli "utenti- lavoratori-cittadini". Liberarsi da certe demenziali fantasticherie non è impresa delle più facili. Occorre, come si diceva prima, una ricognizione di quelle che sono state le opzioni che si sono scontrate nella sinistra rivoluzionaria nel corso della sua storia. Non è utile, nè sensato far risalire al tradimento individuale dei "capì" derive come quella padovana, bisogna comprenderne le radici più lontane.

A tal fine, indispensabile è ricostruire una memoria della incompatibilità, una memoria che parta non dalle lotte tra questa o quella organizzazione ma dalla classe proletaria stessa, nei suoi momenti di rottura come in quelli di apatia, nelle sue spinte autonome come nelle ricadute in una condizione di subalternità. Solo a partire da una memoria che- usando gli strumenti della "storia orale" - ricostruisca l'esperienza proletaria almeno degli ultimi decenni, è possibile procedere alla valutazione delle diverse opzioni strategiche presenti nella sinistra rivoluzionaria italiana. Fondamentale, dal nostro punto di vista, è la rilevazione del livello dì internità dell'Autonomia come delle formazioni combattenti alla classe stessa. Le varie ipotesi organizzative vanno misurate sul terreno della loro capacità reale di esprimere l'istanza autonoma della classe proletaria in una data fase storica, dì essere, cioè, articolazioni del "Partito storico della classe" (Marx). Porre la discussione su un terreno cosi alto ci è necessario, vista la quantità impressionante dì mistificazioni e di equivoci che si stanno diffondendo sui temi che stiamo affrontando. Ricostruire una memoria della incompatibilità può aiutare a rompere con quelle impostazioni che, nel nome della "chiusura di un ciclo storico di lotte", fondano pratiche di fuga dalla creazione di momenti di opposizione sociale. Non si scordi, qui, l'indecente filippica sulla vendetta dello stato contro questi poveretti che stanno ancora in galera e non sono in condizioni, nè hanno voglia di fare del male.

Quale irrazionale accanimento contro di loro è quello per cui, in una fase di transizione verso un nuovo ordinamento (in cui sarebbe il caso di fare uscire, come direbbe Cossiga, gli scheletri dagli armadi, tanto la "guerra è finita" e l'ha vinta lo Stato ) si mantengono, contro l/le brigatisti/e, le misure "speciali" adottate nella fase della "emergenza".

Ora, il discorso andrebbe rovesciato. A nostro avviso lo si può fare solo leggendo i mutamenti che stanno avvenendo rispetto a forma e ruolo dello Stato. In questa fase della mondializzazione capitalistica, distinta dalle precedenti per il carattere transnazionale dei processi produttivi, lo Stato perde il monopolio della decisione dì schmittiana elaborazione. E' vero che la spinta all'integrazione nel mercato mondiale di sempre nuove aree, la sussunzione continua dei modi di produzione non capitalistici avvengono dalla genesi del capitalismo stesso, sono tendenze ad esso connaturate.

Ma se prima ciò si traduceva nella esportazione di capitali che mantenevano una base nazionale, ora la "globalizzazione" - cioè l'attuale fase dei processi di mondializzazione capitalistici - comporta ben altro, con conseguenze dirette anche sulle funzioni dello Stato-nazione. Si assiste così ad una perdita di controllo - da parte dello Stato - della sfera produttiva, ad un automatico recepire, nell'adozione delle politiche economiche nazionali, i dettami di quegli organismi finanziari (FMI e Banca Mondiale) che, sempre di più, diventano il luogo di sintesi delle volontà delle singole frazioni del capitale transnazionale. Lo Stato, che perde alcune funzioni, mantiene la sua ragion d'essere, ad esempio, nel mantenimento del "monopolio dell'uso legittimo della forza" (Max Weber). Ciò rimanda direttamente alla funzione repressiva, perché monopolizzare l'uso della forza vuol dire disporre sulla vita, la morte, la libertà dei "cittadini" al di quà di qualsiasi "habeas corpus" o residuo di diritto individuale definito nelle fasi di ascesa al potere della borghesia contro l'assolutismo feudale. Nella fase attuale, la repressione sì connota sempre più in senso preventivo. Di conseguenza, il mantenimento di compagne/i in galera costituisce, più che una vendetta, un monito contro chi volesse ancora alzare la testa contro l'ordine stabilito, mentre il mantenimento di leggi come la legge Reale corrisponde alla necessità di stroncare sul nascere qualsiasi contestazione a "politiche dei sacrifici" e compatibilità definite dal capitale transnazionale. Per meglio comprendere l'oggi, gettiamo lo sguardo al passato, all'attuazione - soprattutto con i primi governi del centrosinistra e negli anni '70- della "Costituzione più avanzata del mondo". Possiamo farlo chiarendo una cosa, cioè che partiamo dal seguente presupposto teorico: lo Stato non è, storicamente, nè soggetto superpartes che dirime le controversie che si producono nella società civile (come nella impostazione simil-hegeliana dominante nella storia del movimento operaio) nè oggetto in mano ad una frazione, quella più forte, del capitale.

"Lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalista si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale" (F. Engels, Antiduhring, pag. 297). La proprietà pubblica e privata, il modello di economia mista disegnato dalla carta costituzionale del '48 non sono i prodotti del socialismo, come sostenevano Togliatti e soci. Le nazionalizzazioni di questo o quel settore vitale (si pensi a quello energetico ) dell'economia non debbono far pensare ad una logica non capitalista. I fini sociali della proprietà, l'interesse generale di cui ciancia la costituzione non sono altro che l'interesse e gli scopi del capitalista collettivo, il quale ragiona in termini di prospettiva, di mantenimento del modo di produzione capitalistico nel suo complesso, anche contro l'egoismo dei singoli gruppi capitalistici.

Sfatare il mito della costituzione del '48, ricordando che il PCI indicava - negli anni'70 - nella integrale attuazione della stessa il limite invalicabile entro cui si doveva muovere la rivendicazione operaia, non è privo di ricadute sull'oggi.

Nel momento in cui si definisce un nuovo patto costituzionale, fondato su una costituzione materiale legata alla centralità assoluta dell'impresa, ad un nuovo sistema produttivo basato sulla flessibilità delle tecnologie e della manodopera, poco senso ha attardarsi nella difesa di una Carta che definiva le condizioni per la sopravvivenza del capitale stesso in un suo momento storico preciso. Molto più senso ha, sulla scia delle riflessioni qui raccolte, tentare di praticare - nelle esperienze microconflittuali in cui siamo ancora inseriti - forme di democrazia "altra", cercare di cogliere di nuovo il nesso tra intervento territoriale e nei luoghi di lavoro e definizione di forme di contropotere. L'indicazione astensionista alle ultime elezioni amministrative romane, al di là di ogni valutazione contingente, rientra in questo ordine di preoccupazioni, si colloca in una ben precisa prospettiva di lavoro e di discussione.

Cosa c'entra tutto ciò col fatto che compagne/i stanno ancora in galera? Perché non state un po' con i piedi per terra? Questa è la domanda che ci pongono in molti nel cosiddetto "movimento". Non ci si stupisce, ma dovrebbero rispondere loro: come si può parlare di una battaglia di liberazione, quando non si sa cosa potrebbe voler dire per questo stato l'adozione di questo o quel provvedimento? E, d'altronde, si può continuare a ricondurre l'istanza di liberazione dei/lle compagni/e ad una campagna d'opinione che prescinde tanto dai rapporti di forza per fare uscire tutti/e nel modo migliore, quanto da una riflessione seria su come si colloca questa battaglia nella fase che stiamo vivendo?

Per noi che non tifiamo per nessuno, che non abbiamo "prigionieri del cuore", centrale è dar voce a chi, in questo Stato, non deve parlare. Rivendicare l'internità all'antagonismo di chi oggi sta ancora in galera, vuol dire approfondire la riflessione fin qui abbozzata, articolarla in iniziative concrete e coinvolgere nel percorso su temi intrecciati tra loro, come quelli qui enunciati, chi sta dietro le sbarre per essersi posto, a suo tempo, gli stessi problemi che ci stiamo ponendo noi.

 

  

COLLETTIVO POLITICO ANTAGONISTA UNIVERSITARIO