PAESAGGIO NELLA NEBBIA

Note per orientarsi nelle trasformazioni della forma-stato

Commissione per la critica del diritto e dello stato (1)

La tradizionale indifferenza di settori del movimento antagonista verso il nodo dello Stato ha favorito non poco le derive attuali. Quelle, per intenderci, legate all’idea del totale superamento dello Stato-nazione. Nel riconsiderare certe questioni, bisogna fare un passo indietro, avvicinandosi all’origine delle difficoltà interpretative che scontiamo attualmente.

In principio fu Bobbio.

La debolezza analitica non è tratto distintivo del militante di oggi. E non concerne solo i settori più radicali, la cosiddetta sinistra rivoluzionaria. Lo dimostra la scarsa opposizione incontrata, negli anni ’70, dalle bordate di Bobbio contro Karl Marx; il pensatore di Treviri, secondo la valutazione del celebrato filosofo italiano, avrebbe svolto critiche anche giuste ai limiti del liberalismo, ma nel proporre l’utopia del superamento della politica, si sarebbe perso per strada la fondazione di una autentica teoria dello Stato.
Di fronte a certe argomentazioni, i teorici del PCI si sono distinti per opportunismo enegligenza teorica, inchinandosi alla grandezza di Bobbio. Non si dimentichino lefarneticazioni sulla possibilità di ricavare una teoria dello Stato a partire da singole frasette di Marx ed Engels, alternate a rimproveri agli stessi, rei di non aver sviluppato a sufficienza certi punti.
Hanno difettato di acume anche i gruppi della cosiddetta nuova sinistra, presi dal dogmatico richiamo all’esistenza di una teoria dello Stato nei classici del marxismo, visti come la fonte di ogni verità. Solo il "professore" ha saputo attaccare Bobbio senza ricorrere ai più triti luoghi comuni, al marxismo sclerotizzato delle parrocchie imperanti negli anni ’70. Tuttavia, lo stesso Toni Negri ha commesso l’errore di accettare il terreno di scontro proposto dall’avversario. Nella sua risposta, infatti, egli evidenzia un fatto: non si può chiedere una teoria dello Stato a chi si muove nell’ottica della distruzione dello stesso.
Non si potrebbe fare a meno di sottoscrivere questa affermazione, se non ci venisse un dubbio, molto forte. Può esistere una teoria dello Stato tout-court? Noi riteniamo di no, perciò partiamo dal presupposto che vi sia un vizio di fondo nel dibattito suscitato da Norberto Bobbio. Non può esistere, a nostro avviso, un ente, lo Stato, praticamente eterno, tale da attraversare le diverse fasi storiche, indipendente dalla realtà specifica della formazione economico-sociale in cui si colloca. In verità, non si può prescindere dal modo di produzione cui lo Stato si riferisce, altrimenti si sconfina nel più vieto idealismo. Da questo punto di vista, in Marx ed Engels si colgono elementi positivi; elementi che rimandano a ciò che è possibile e di cui si ha veramente bisogno: una teoria dello Stato nel modo di produzione capitalistico.

Né stato-oggetto, né stato-soggetto. Lo stato è il capitalista ideale collettivo.

Da questa base, dunque, vogliamo partire per superare i limiti storicamente comuni alle "diverse anime" della sinistra. Qualcuno potrebbe obiettare che abbiamo messo insieme, in una valutazione fortemente critica, approcci teorici comunque differenti. Indubbiamente, le divergenze ci sono e non vanno minimizzate, tuttavia, ci permettiamo di dire che la sinistra antagonista solo in alcuni casi ha superato le due diverse (ma speculari) impostazioni sul tema dello stato che hanno dominato nella storia del movimento operaio.
La prima di queste visioni di un nodo così spinoso è ancorata all’idea, di matrice hegeliana, dello stato-soggetto. Esso sarebbe un ente super-partes volto a dirimere la controversie che si verificano nella società civile. Sua caratteristica peculiare risulterebbe essere la neutralità rispetto al conflitto tra la classi. In tal senso, quindi, potrebbe essere usato in favore dei settori sociali oppressi. E’ facile intuire come la gran parte della socialdemocrazia europea e alcuni teorici del PCI siano stati gli alfieri di questa illusione, speso tradotta in strategie riformiste. Attualmente, però, una richiesta di neutralità allo stato viene avanzata da molti centri sociali, per i quali la "lotta non deve essere portata in tribunale". I conflitti, secondo una campagna portata avanti anzitutto dal Leoncavallo, debbono essere depenalizzati : lo stato deve utilizzare verso di essi la mano leggera, non difendendo più gli interessi dei potenti
(2). Come a dire che gli argomenti più logori del riformismo classico ritornano, sotto mentite spoglie, in settori del cosiddetto movimento. Ciò per dare idea della diffusione della prima lettura tradizionale del nodo dello stato. Se ci addentriamo nella seconda, scopriamo che essa trae alimento da una frasetta di Marx ( lo stato è il comitato d’affari della borghesia ) sganciata dal contesto d’origine. L’idea dello stato in quanto mero strumento nella mani dei più forti, spesso accompagnata da una fraseologia simil-rivoluzionaria, ha fondato –negli anni della terza internazionale – una politica di alleanze tra il proletariato e le altre classi sociali. I teorici stalinisti, infatti, hanno teorizzato una stato-oggetto nelle mani neanche della borghesia nel suo complesso, ma di una sua componente : quella più forte in quanto legata al capitale monopolistico. E’ la vulgata classica dello stamokap(3) in base alla quale la classe sfruttata deve trovare un accordo con i segmenti della borghesia esclusi dal potere. Se essa corrisponde agli anni più bui della storia del movimento operaio, se è vero che si tratta di una variante volgare, a fondamento di politiche frontiste, dello stesso discorso sullo stato strumento, è altrettanto evidente che – estremizzando le conseguenze di una teoria – ne rende più visibili i limiti. Infatti, se lo stato è un oggetto basta dare un calcione a chi lo controlla e appropriarsene per quello che è, senza avviare una trasformazione dei suoi istituti tale da anticiparne il definitivo superamento. L’esperienza dei paesi dell’est dice molto a proposito dei rischi connessi a certe impostazioni. Se i due tentativi interpretativi di cui sopra sono forieri di sciagure, è il caso di rintracciare proprio nei "classici" le linee fondamentali di una elaborazione alternativa. Riferendoci ad Engels possiamo affermare che : "Lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale"(4) . Lo Stato, cioè, non è neutrale ne legato al capitale da un rapporto strumentale : esso è sia stato dei cpitalisti che stato del capitale.
Rappresenta la sintesi delle volontà dei singoli capitali e nello stesso tempo, opera in difesa di un modo di produzione nel suo complesso. Il che si traduce anche in provvedimenti che al singolo capitalista possono non andare giù.

Continuità dello stato e guerra civile : il caso italiano.

Le scarne annotazioni di cui sopra, nel loro carattere generale, ci consentono di inquadrare meglio alcuni momenti della storia istituzionale italiana. Se lo stato difende il capitale anche contro l’egoismo di determinati settori della borghesia le diverse forme che esso si dà, per gestire la situazione nelle varie fasi, non debbono trarre in inganno.
Rimane sempre una continuità sostanziale ed il caso italiano, dal fascismo ad oggi ne è un preciso esempio. Negli anni ‘43-’45, in cui forte sembra essere il pericolo di un’esplosione conflittuale da parte delle classi oppresse, la monarchia si produce in un golpe preventivo verso Mussolini, in funzione conservativa. Il buon Benito aveva servito egregiamente l’interessi del capitale attraverso le forme corporativistiche e la cooptazione in modo autoritario della forza lavoro, indotta a produrre sempre di più in favore della patria. Una volta esaurita la necessità del regime, occorreva perseguire altre vie. Il che voleva dire salvare la nave dal momento che una parte dell’equipaggio stava affondando.Perciò la gran parte della burocrazia statale si proietta, già negli anni della guerra civile, verso la futura democrazia rappresentativa, contenendo le spinte più radicali provenienti dalla lotta partigiana. Non è estraneo a questo quadro il riciclaggio, in regime repubblicano, di buona parte dei quadri dell’Italia fascista. In proposito occorre evitare il moralismo di chi si scandalizza dell’amnistia ai fascisti operata da Togliatti, insistendo solo sulle responsabilità soggettive di uomini politici o di partiti. La mancata epurazione risponde ad una "necessità oggettiva" del capitale. I quadri facisti non a caso, vengono utilizzati in chiave offensiva verso il conflitto sociale da parte di uno stato che vuole preservarsi da radicali trasformazioni
(5). Gli equilibri cristallizzati nella costituzione del quarantotto non esauriscono completamente le istanze emerse negli anni della resistenza. Per questo motivo si può dire che, per tutto il dopo guerra si ha una prosecuzione – in forma talora strisciante, talora più aperta – della guerra civile del ‘43-’45. Lo stato vi interviene in modo aperto.

La costituzione del ’48 tra aspetto formale e fondamento materiale.

Come si vede, poco senso ha il piangere nostalgicamente la costituzione del ’48. Eppure, a fronte del rafforzamento del potere esecutivo in atto, non pochi si lasciano prendere da un risentimento forte verso le forze reazionarie che avrebbero vanificato i buoni propositi di quel patto, impedendone l’attuazione e anticipando le tendenze plebiscitarie odierne. Quanto c’è di vero nel mito della costituzione violata? Molto, se ci si riferisce agli anni immediatamente successivi alla sua approvazione (6). Pochissimo, se si fa una valutazione complessiva di cinquant’anni di storia repubblicana. Come hanno osservato De Caro e Coldagelli (sul numero 3 dei "Quaderni Rossi"), la carta del ’48, anticipatrice quando fu varata, rivelò tutta la sua attualità in coincidenza con la ristrutturazione in chiave fordista attuata alla fine degli anni cinquanta. In essa lo stato italiano, configurandosi come stato costituzionale, stabilisce un equilibrio tra gli interessi delle forze sociali organizzate. Il conflitto vi viene riconosciuto, purché meditato dai partiti e dai sindacati. Le forze tradizionali della sinistra –PCI in testa- vedono nell’orizzonte definito della costituzione, il limite invalicabile entro cui deve svolgersi il conflitto sociale (7).
Per queste ragioni, la sinistra storica entrò, negli anni ’70, in un conflitto aspro con movimenti che intendevano rovesciare il sistema capitalistico. Nel mettere in discussione la costituzione materiale, cioè i rapporti economici e sociali vigenti in un dato momento
(8), non si poteva non trascendere la norma scritta, richiamare alla rottura delle regole del gioco. La costituzione del ’48 si adatta alla perfezione ad una fase in cui vige un patto di produttività tra capitale e lavoro, legato alla direzione riformista di un movimento operaio che vede la centralità dell’operaio di linea. I tentativi, a partire dal ‘68-’69, di minare alla fondamenta certi accordi, il rifiuto operaio del lavoro salariato vedono uno sforzo di contenimento da parte dello establishment. Così si ricava tutto quello che si può dalla carta del ’48 (statuto dei lavoratori, nuovo diritto di famiglia, decentramento amministrativo) . Dove la strategia riformista fallisce, interviene la più brutale repressione: si pensi alla legislazione d’emergenza, a provvedimenti come la legge reale del ’75. Chi non si riconosce nelle forze dell’arco costituzionale, viene privato delle minime tutele individuali. Il doppio binario dell’azione statale rispetto alla lotta, non deve sorprendere, né può essere attribuito a fenomeni come lo scontro tra diverse anime –una democratica e l’altra reazionaria- dello stato. Il fatto che lo stato abbia usato tutti i mezzi necessari, fino alla stragi, per combattere le istanze rivoluzionarie, non rimanda ad ipotesi come quella del doppio stato. La stessa segretezza, l’esistenza di livelli paralleli, sono connaturati allo stato contemporaneo, ne costituiscono un aspetto essenziale. Come rivela Nicos Poulantzas : "Lo smembramento di ogni ramo ed apparato di stati (esercito, polizia, amministrazione giustizi, apparati ideologici) in reti formali ed apparenti da una parte, in nuclei stagni, strettamente controllati dal vertice dell’esecutivo, dall’altra, e lo spostamento costante dei centri di potere reale dai primi ai secondi "(9), costituiscono una tendenza dello stato contemporaneo. Su questo punto si ritornerà affrontando la possibilità che ogni stato si riserva di violare la sua stessa legalità. Quello che ci preme adesso è sottolineare quale è stato l’atteggiamento concreto di questo stato, in virtù di questa costituzione, Verso chi non si identifica nella sua logica.

Lo stato-piano e l’inglobamento della soggettività operaia.

Il fatto che da una quindicina d’anni una costituzione che ha fatto il suo dovere (per il capitale) sia messa in discussione rimanda al cambiamento dell’assetto produttivo che la sottendeva. Prima di entrare nel merito, è necessario fissare alcuni elementi caratterizzanti la fase del miracolo economico, proprio perché, dalla sua conclusione, hanno inizio i lenti processi che ancora oggi non sono giunti a piena definizione. Quando parliamo, come abbiamo appena fatto, di un patto di produttività, vogliamo richiamare al superamento delle caratteristiche di una fase del capitalismo, quella concorrenziale che ha generato contraddizioni tali da mettere in apprensione molti economisti borghesi. Sono proprio i Quaderni Rossi a cogliere il salto di qualità svolto dal capitalismo maturo che, per superare le sue difficoltà, cerca di servirsi delle lotte operaie come momento di sviluppo e di razionalizzazione del processo di valorizzazione. Lo spartiacque tra una fase e l’altra è dato dalla crisi del ’29. Da allora il riconoscimento della soggettività operaia diventa "condizione vitale di conservazione del capitalismo (...) . Il suo controllo entro i tempi di sviluppo del capitale diventa fattore di stabilizzazione interna allo sviluppo stesso, condizione essenziale per la conservazione della forza viva in forza produttiva del capitale "(10) . Lo stato come capitalista collettivo funziona programmando e contenendo i bisogni proletari dentro la legge del valore. In ciò, come si è detto, si serve di partiti e sindacati, impegnati nel canalizzare l’azione operaia entro i limiti della mediazione parlamentare. Ciò non sfugge a Negri che afferma " Questo obbiettivo politico, per cui l’autonomia di classe operaia deve risultare sempre costretta dentro la struttura di potere data, finisce per costituire il paradosso del sistema keynesiano "(11). A questo sfondo, che riguarda tutti i paesi occidentali, si deve riferire l’azione svolta a partire dalla carta costituzionale in Italia. In questo paese, la contestazione della costituzione arriva a coincidere con la rottura del compromesso keynesiano, rottura legata alla ricomposizione, a livello di fabbrica di un soggetto autenticamente rivoluzionario. Questo soggetto riuscì ad usare la rigidità dei movimenti produttivi in cui era compreso, scavalcando la mediazioni politico-sindacali.

Stati-impresa ? Su alcuni degli attuali cambiamenti.

Al superamento delle rigidità produttive, si ricollegano trasformazioni istituzionali descritte da molti studiosi. Si pensi al saggio che Revelli ha pubblicato in " Appuntamento di fine secolo "(12) . In esso si descrivono anche alcuni tratti salienti della attuale forma-stato, registrando mutamenti epocali. Se in passato lo stato, con la sua struttura gerarchica, i suoi meccanismi interni controllati da una crescente burocrazia, serviva da riferimento all’impresa per la sua organizzazione interna, ora non è più così. Quando si parla di " stato-impresa ", se si usa questo termine in chiave descrittiva e non quale categoria di validità generale, si allude ad una crescente concentrazione del potere nell’esecutivo, in linea con il modello di funzionamento aziendale. Chiaramente non si può omettere la causa ultima di tale tendenza, non si può non registrare la necessità che, in una società sempre più determinata dalla centralità dell’impresa, vi siano forme di comando ferree, volte a plasmare dei voleri del capitale ogni aspetto delle nostre vite. In questo quadro, le forme tradizionali della mediazione sociale, vengono meno. Il nuovo sistema produttivo, legato all’imperativo della flessibilità, alla produzione snella e al tendenziale ridimensionamento all’economia di scala, punta alla diversificazione delle merci prodotte sul mercato. Garantire un potere d’acquisto comune a tutti, stimolare, attraverso una politica di redistribuzione dei redditi, una domanda tesa ad assorbire sempre maggiori quantità di prodotti, non sembrano essere le priorità attuali. Lo stato, quindi, non si fa più "garante" dei lavoratori e concentra il suo intervento nell’economia su due piani : la creazione di infrastrutture tali da favorire gli investimenti del capitale transnazionale, la politica degli incentivi all’imprenditoria. In relazione alle classi subalterne –ed è questo un punto lasciato sostanzialmente scoperto da Revelli- esso sviluppa forme sempre più perfezionate di coinvolgimento nello sfruttamento intensivo che le colpisce. Tutto ciò passa ancora per le forze storiche della sinistra ed è stato da alcuni designato col termine "neocorporativismo". Non siamo sicuri che una simile categoria si attagli ad una fase storica come quella attuale, ma riteniamo doverosa una riflessione su alcune sue implicazioni. Tutto ciò rimanda alla profondità dei mutamenti in atto. Stando al nostro impianto concettuale di partenza, ogni teoria dello stato in un modo do produzione deve articolarsi in più discorsi sulle fasi che lo stesso attraversa (13). Lontani da ogni dogmatismo, dobbiamo registrare, quindi, passaggi e modificazioni anche sostanziali. Si pensi a quelli che toccano lo stesso principio di sovranità, per come si è affermato in concomitanza con l’emergere del moderno stato nazione. Il concetto di sovranità rimanda ad una pienezza del potere statale che si concretizza nel monopolio della forza (Weber) e nel monopolio della decisione. Il primo aspetto, su questo non ci piove, attiene ancora ad uno Stato che, proprio in virtù di certi passaggi economici, si dota di nuovi strumenti repressivi. Esso si collega al controllo totale che, di fatto, lo Stato mantiene sulle nostre vite, al suo "monopolio della violenza sui corpi", alla sua possibilità di dispensare la morte. Nel corso della guerra dei trent’anni, infatti," lo stato si vede attribuita, anche nei paesi liberali, una forza legittima sulla vita, la morte e la libertà. Sono lì a dimostrarlo la mobilitazione totale, i tribunali militari, i plotoni d’esecuzione, le decimazioni"(14) . La prima e la seconda guerra mondiale sono stati i momenti in cui il monopolio dell’uso legittimo della forza si è espresso con più forza, rivelando i caratteri totalitari dello stato contemporaneo. Da questo punto di vista, il moderno assolutismo di Carl Schmitt non è solo un esempio della Lukacciana " distruzione della ragione ", ma una traduzione in sede teorica di spinte presenti nella realtà istituzionale contemporanea; realtà in cui poco senso hanno gli stessi diritti individuali rivendicati dalla borghesia nella lunga fase che ha segnato l’ascesa. Le aberrazioni insite nelle teorizzazioni del giurista nazista, non sono frutti esclusivi della sua indole, data la materialità dello stato nel modo di produzione capitalistico. Solo come argomento dissuasivo si può richiamare alla difesa di certe prerogative individuali, violando le quali lo stato infrangerebbe la legalità, le norme che esso stesso si è dato. Il fatto che vi sia un continuo travalicare le garanzie da parte di un ente che monopolizza in sé la forza, non è legato alla cattiveria delle classi dirigenti che si avvicendano al comando, né a qualche disfunzione da superare. Vi è una dialettica tra norma scritta e pratica reale che, entro certi limiti, comprende la stessa trasgressione della legge da parte degli organismi statali. Se, paradossalmente, Schmitt dice di più sullo stato di quanto non dicano giuristi di sinistra o marxisteggianti, ciò non toglie che a fronte dei mutamenti in atto, alcuni momenti della sua elaborazione perdono di attualità. Basta riflettere su quello che egli definì "monopolio della decisione" per rendersene pienamente conto. Tale concetto postula uno stato che controlla ogni aspetto della vita nazionale. E’ ancora possibile ciò alla luce dei caratteri assunti dalla sfera produttiva ? In quella che possiamo chiamare la fase della " internazionalizzazione reale del capitale"(15) , i processi produttivi assumono un carattere transnazionale. Di uno stesso processo, cioè, possiamo avere il cervello in un paese a capitalismo avanzato e le fasi della lavorazione dislocate in più luoghi nel mondo (possibilmente laddove la manodopera costa poco).Ciò sottrae allo stato il pieno controllo dell’economia, facendone un ente che si muove nell’ottica del capitale transnazionale. Le conseguenze di questo fenomeno sono rilevanti sul piano pratico e teorico. Lo stato perde la pienezza del suo potere se non tutte le sue funzioni. La nozione engelsiana di capitalista ideale collettivo, ha ancora una sua validità, poiché descrive uno stato che non è né portatore di una volontà autenticamente sganciata dal capitale, né puro strumento nelle mani di un capitale non più a base nazionale.
Tuttavia, nelle sue determinazioni pratiche va nuovamente indagata. Molto difficilmente lo stato può essere ancora il luogo di sintesi delle volontà dei singoli capitalisti, nonché l’elemento regolatore del contrasto tra gli stessi. Lo studio dettagliato di quelle che sono le istituzioni finanziarie sovranazionali diviene una necessità. Occorre capire fino a che punto FMI e banca mondiale assolvano a funzioni precedentemente eseguito dal moderno stato-nazionale. Se non adottiamo una formula esclamativa, che non preme sull’acceleratore vedendo in certi organismi dei centri direttivi che si sostituiscono integralmente all’ente statale, è per un motivo preciso. Enti dal carattere economico non bastano, non possono pretendere di esaurire con il loro operato tutte le mansioni non più legate all’attività degli stati. Il problema non è di facile soluzione e, da questo punto di vista, siamo in una fase di aperta "sperimentazione". Gli scenari possibili sembrano essere vari e non si esclude la coesistenza-in una suddivisione dei compiti più o meno precisa- di stati nazione profondamente rinnovati, organismi finanziari sovranazionali, forme politiche tali da includere più stati.

Tutto il potere ai soviet dell’intelligenza di massa !

Vi sono teorici che non incontrano le nostre stesse difficoltà di comprensione di quanto sta avvenendo. Per loro tutto è chiaro: lo stato-nazione è definitivamente finito. La grande capacità persuasiva, il talento letterario e l’originalità teorica, di Toni Negri fanno l’esponente di punta di questa corrente. Nei suoi ultimi scritti egli delinea una situazione in cui ad una borghesia finanziaria e multinazionale corrisponde un proletariato intellettuale. In pagine piene d’impeto lirico, vengono definite le condizioni attraverso le quali la nuova composizione di classe può accedere al potere. Mai fu più facile trascendere il sistema capitalistico. Superato l’assunto della rottura con la macchina statale, superato il concetto stesso di transizione verso una società altra, si possono conseguire certi risultati attraverso l’esodo. Il punto è questo: lo stato perde la sua ragion d’essere alla luce dei processi economici su scala mondiale, in ogni caso, non si fonda su un basamento forte. Se il capitale ha raggiunto- nella fase fordista - il massimo livello possibile di sfruttamento della forza lavoro, ne consegue che, non potendo andare oltre in quella direzione, si sia ridotto a puro dominio viene meno il perno della teoria marxista sullo sfruttamento, la legge del valore/lavoro; si determina una situazione alla luce della quale lo stato si riduce a puro momento coercitivo di un modo di produzione sganciato da ogni necessità tecnico- produttiva. Ciò, nella costruzione negriana, risulta ancora più vero se il discorso si estende all’intero scenario internazionale. La transnazionalizzazione dei processi produttivi si collega una "internazionalizzazione della fragilità del capitale". Per Negri, infatti "la borghesia diviene sempre più parassitaria, una specie di chiesa romana del capitale: essa si esprime ormai solamente attraverso il comando finanziario, e cioè, un comando completamente liberato dalle esigenze della produzione"(16) . Il superamento del fordismo non solo ha liberato un nuovo soggetto rivoluzionario, l’intellettualità di massa, nel quale si fondono lavoro manuale e potenze mentali della produzione, ma ha ulteriormente logorato l’ente statale. Al soggetto detentore del general intellect, di nuovo in possesso della professionalità del lavoro, non subordinato ai vincoli produttivi del mercato, si pone un compito facile.
"La distruzione dello stato non può essere concepita che attraverso un concetto di riappropriazione dell’amministrazione (...) "
(17) . Ecco che i conti tornano tutti. I parlamenti locali (leggi consigli comunali) possono essere conquistati a mezzo elezioni, per arrivare ad un collegamento progressivo tra di loro. Attraverso di esso si darà "razionalità alla nuova organizzazione sociale del lavoro (...) . Ora i soviet dell’intellettualità di massa possono porsi questo compito, costruendo, fuori dallo stato, una macchina nella quale una democrazia del quotidiano organizzi la comunicazione attiva, l’interattività dei cittadini, e insieme produca soggettività sempre più libere e complesse "(18) .
Le fantasticherie negriane non riescono più di tanto a colorare una realtà fatta di sostegno, legato all’ottenimento di briciole, alle coalizioni di centro-sinistra. Tuttavia, mettono in risalto un tema centrale, quello del potere costituente.

Dialettica sociale e spinta trasformatrice delle masse

Se in ambienti antagonisti si proferisce verbo sul nodo del potere costituente, si è automaticamente condotti al verbo padovano. A noi, invero, appare necessario togliere da certe mani un concetto cui si può fare riferimento con profitto anche da un punto di vista poco incline agli esodi. Non dimentichiamo che lo stesso Negri non fa altro che forzare un po’ la nota formulazione di Carl Schmitt (19) per attribuire al soggetto detentore del general intellect la forza innovativa che non si piega agli equilibri dati. Se origine e uso attuale di una categoria possono suscitare dubbi, non per questo si debbono abbracciare le ipotesi di quei giuristi che negano la possibilità di invocare il potere costituente e chiedono modifiche marginali alla carta del ’48.(20)Su questa linea difensiva, d’altronde, si attesta anche –con alcuni cedimenti, legati a precisi giochi parlamentari- il P.R.C. Per la formazione di Bertinotti ancora vale il mito della costituzione più bella del mondo, da difendere a spada tratta (almeno a parole) . A fronte di trasformazioni tali da rendere obsoleta anche la difesa tattica di quella carta, cosa possono dire le forze antagoniste ? Risulta chiaro che il nostro non possa che essere un atteggiamento di negazione, contrapposto alle attuali modificazioni della forma-stato ma sganciato dall’illusione del ritorno al passato (o al meglio di esso) . Il nostro compito, in realtà, è quello di lanciare un’idea diversa di organizzazione sociale, basata sul rifiuto della delega e sperimentabile nelle lotte. Ciò non rimanda ad una risposta concreta, da articolare in senso tecnico, ma può avere una valenza di rottura in una fase in cui le istituzioni sono impermeabili ad ogni istanza proveniente dal basso. Momenti di grande visibilità, come quelli elettorali, possono essere usati per dire la nostra, per ribadire che i bisogni proletari non passano per nessuna mediazione istituzionale. Tutto ciò va collegato in una riflessione che consideri pure il nodo del potere costituente. D’altronde, in un certo uso di questa categoria, potremmo rifarci ad un preciso antecedente storico e teorico. Ci si è dimenticati forse di Rosa Luxemburg e della sua lungimirante critica ai bolscevichi ? Il suo discorso, apparentemente "democratico", ci appartiene. La richiesta di mantenere libere elezioni, di non soffocare le istanze rappresentative, è interna ad una elaborazione di grande interesse circa il rapporto tra potere costituito e potere costituente in una società postrivoluzionaria. Se i soviet sono lo stato, si annulla la dialettica sociale e, quindi, la possibilità di arrivare veramente all’estinzione dello stesso. Per Rosa Luxemburg un "dualismo di poteri" si deve mantenere anche dopo la rivoluzione, altrimenti il flusso vitale proveniente dalle masse non la rimodellerà di continuo ed essa finirà per chiudersi in se stessa, cristallizzandosi in una forma burocratica ed assolutistica. La lezione della rivoluzionaria polacca può dare indicazioni utili anche oggi, soprattutto a chi si accingi a riformulare una marxiana critica del diritto e dello stato.

Note

(1)La commissione fa parte del Collettivo Politico Antagonista Universitario (Università La Sapienza-Roma)
(2) Inutile dire che se si chiede allo stato una regolamentazione non faziosa dei conflitti, si accetta di stare alle regole per quello che concerne le forme e i contenuti delle lotte.
(3)Teoria del capitalismo monopolistico di stato
(4) F. Engels, Antiduhring, Editori Riuniti, 1971, p. 297
(5) Si veda in tal senso: Cesare Bermani, Il Nemico Interno, 1997, Odradek. Naturalmente il libro va visto per quello che può offrire in senso descrittivo
(6) Si pensi, nel 1953, al tentativo attuato dalla "reazione" con la legge-truffa
(7) Giuristi illustri come Lavagna, hanno visto nella costituzione del ’48 se non una anticipazione, uno strumento per arrivare al socialismo. Una risposta circostanziata e condivisibile a certe illazioni la si trova in molti articoli scritti da G.U. Rescigno in "Critica del diritto" negli anni ’70. Sempre attuali , poi, dello stesso autore è Costituzione italiana e stato borghese , Savelli ,1975
(8) Occorre essere precisi nei riferimenti . Il concetto storicamente definito da Schmitt e Mortati rimanda ai rapporti di forza esistenti in una società, soprattutto sul piano politico. Per estensione noi lo usiamo per definire la realtà anche a livello economico e sociale. E’ una piccola forzatura che volentieri confessiamo.
(9) Nicos Poulantzas, Una teoria dello stato, Ila palma, Palermo 1998
(10) Roberta Tomassini, Intellettuali, ideologia, organizzazione. Note sul neo marxismo degli anni ’60, 1977, p.80.
(11) A. Negri, J. Keynes e la teoria capitalistica dello stato del ’29, in AAVV operai e stato, Feltrinelli, 1972, p.90
(12) M. Revelli, -Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo-, in Appuntamento di fine secolo , Manifestolibri, 1995
(13) Su questo vedi Nicos Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, editori riuniti, 1978
(14) Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione, Laboratorio politico, 1996, p. 106. L’intento di Losurdo, l’obbiettivo che si prefibbe usando Weber è di annacquare la critica al socialismo reale ribadendo il carattere totalitario di ogni stato moderno. Va da se che una simile intenzione non la condividiamo, tuttavia il riferimento a Weber su certe questioni è quanto mai necessario, serve a fare un po’ di chiarezza.
(15) Preferiamo questo termine a quello analogo di globalizzazione. Non che quest’ultimo sia scorretto, ma se ne fa un uso alquanto discutibile.
(16) A. Negri, Potere costituente, "Riff Raff",p.76
(17) A. Negri, Ibidem, p.80
(18) A. Negri, Ibidem, p.80
(19) "Il popolo, la nazione, forza organizzata di ogni entità statuale, costituisce organi sempre nuovi. Dall’abisso infinito e insondabile del suo potere sorgono forme sempre nuove, che essa può infrangere quando vuole e nelle quali essa non cristallizza mai definitivamente il proprio potere". Carl Shmitt, La dittatura, La Terza, 1995, p.154.
(20) Tra questi citiamo Massimo Luciani e, in una posizione rigorosa e appartata, Salvatore D’Albergo. Quest’ultimo esprime le sue posizioni, dal nostro punto di vista discutibile, in ottimi articoli su "La contraddizione".

A CURA DEL

COLLETTIVO POLITICO ANTAGONISTA UNIVERSITARIO