Il 9 aprile 1995 la maggioranza dei votanti - ma non degli elettori - ha ratificato l’indirizzo preso dal Perù negli ultimi anni. Non bisogna però confondere le elezioni e l’esercizio del diritto di voto con la democrazia, nè tantomeno pensare che il sostegno elettorale e la popolarità del presidente rieletto rappresentino l’interesse delle maggioranze nazionali. Nell’ambito delle elezioni generali dei rappresentanti politici e amministrativi avvenute in tale data, la rielezione del presidente Alberto Fujimori significa la liquidazione - almeno per il periodo del nuovo mandato - di tutti i partiti politici del Perù, compreso il Partito Aprista, già partito di massa, e i suoi 65 anni di storia. [Di ciò, avvertì il MRTA nel 1990, quando l’ultima elezione risultò Vargas LLosa y fujimori, quindi attraverso Voz Rebelde del Peru, dicemmo che non si poteva pensare al male minore, che la opzione era viziare i voti e che si convocassero nuove elezioni. Però molti attribuirono il proprio voto a qualcuno che non conoscevano. Abbiamo anche affermato che entrambi i candidati avevano intenzione di realizzare il programma neoliberista dal momento che non avevano altra alternativa all’interno del sistema e che fujimori, non avrebbe rotto con il FMI, nè fatto molto meno. Anche la liquidazione dei partiti si ebbe a poco a poco come disse Bertold Bretch, prioma furono i guerriglieri, però siccome non erano guerriglieri non interessava loro, poi furono gli studenti, poi i comuneros, ... fino ache non toccò anche ai partiti della destra liberale, quindi gli importò, però era già troppo tardi, il fujimorismo si era appropriato di tutto.] La popolarità del presidente ha superato tutte le aspettative e ha raggiunto il 64 per cento dei voti validi, escluse cioè le schede, nulle o alterate. Tenendo inoltre presente che l’assenteismo elettorale è stato questa volta del 28 per cento, i voti ottenuti dal presidente rieletto corrispondono solo al 38,6 per cento del totale degli elettori; una percentuale comunque considerevole. [In questa esclusione dei voti bianchi, nulli e viziati e quelli che decisero di non votare questi sommavano a quasi il 50 % degli aventi diritto al voto. In questo modo fujimori raggiunse il 64 % dei consensi di coloro che ancora credevano nelle elezioni, manipolate dalla dittatura a partire dalla elezione del proprio Giurato Nazionale delle Elezioni, e con l’esercito, con il quale stava compartendo il governo -dittatura dal 1992. Senza dubbio a molti non interessarono molto queste irregolarità e le accettarono, fino a che non rimase alcuno spazio per nessuno in Peru.] Al contrario, tutti i partiti politici - salvo il Movimiento por el Perú che conla candidatura dell’ambasciatore Javier Pérez de Cuéllar ha ottenuto il 22 per cento del voto valido - hanno subito la loro peggiore sconfitta elettorale, con risultati inferiori al 5 per cento sicchè, secondo la normativa vigente, dovranno ripresentare la loro iscrizione. Già nel 1990 tutti si erano sorpresi dell’irruzione di Fujimori, una professore universitario politicamente sconosciuto e senza partito - Cambio 90 e la più recente Nueva Mayoría cono movimenti che lo appoggiano, ma che non sono partiti - che avrebbe finito per sconfiggere la forte coalizione di destra che sosteneva la candidatura dello scrittore mario Vargas Llosa. [ Cambio 90 basò la sua forza nell’alleanza con settori di piccoli imprenditori e con gli evangelici. Gli evangelici con la seconda presidenza si ritirarono, retirarono il loro appoggio appena preso il governo, dopo le misure estreme dello Shock economico nel 1990. Il primo vicepresidente si ritirò dopo l’autogolpe. Dopo aver vinto le elezioni e con il deanro dello stato si montò il movimento Cambio 90 e dopo la Nueva Mayoría.] La spiegazione tentata allora dai commentatori politici fu questa: stanchezza dell’elettorato per i partiti politici e ricerca di nuove figure senza precedenti politici. [In parte è certo, però fu fondamentale la demoralizzazione della sinistra a seguito della caduta del muro, tra le altre cose, che la allontanò dalle lotte popolari e la fece solo optare per per una semplice richiesta di voti.] Fujimori sorprese ancora il paese il 5 aprile del 1992, quando fu protagonista di un autogolpe di stato che ebbe l’appoggio della maggioranza della popolazione, che disapprovava la gestione di istituzioni come il parlamento e il poetere giudiziario, i cui errori avevano facilitato una campagna di discredito orchestrata dal servizio segreto nazionale (SIN) e portata avanti dal presidente. [Questo si fu il risultato della immoralità generalizzata della quale si approfittò la dittatura che conuse il popolo che le credette.] Da allora è iniziata una serie di denunce contro la gestione arbitraria del potere da parte di Fujimori, contro le violazioni dei diritti umani commesse dal suo regime, contro la corruzione dei suoi funzionari a accoliti e, di recente, contro la pessima gestione del conflitto con l’Ecuador e l’aperto ricorso alle risorse dello stato in favore della sua campagna per essere rieletto. [La maggioranza di queste denuncie non arrivavano al popolo, nella migliore dei casi uscivano all’estero, però non arrivavano al popolo, per molte ragioni: il controllo dei mezzi di diffusione, il carcere per i giornalisti più sensibili alle denuncie. La sinistra ogni volta più ridotta, si immerse nel parlamento e non nelle lotte di massa, nelle lotte del popolo per sopravvivere.] Può a prima vista sembrare paradossale che una persona sul cui governo pesano gravi accuse, che ha intrapreso una controriforma politica autoritaria e di esclusione e la cui politica economica ha aggravato le condizioni di povertà in cui versa la metà dei peruviani, sia rieletto e riscuota un alto grado di popolarità. Gli analisti politici hanno messo in evidenza i due risultati principali del suo governo: la sconfitta della lotta sovversiva armata - in particolare di Sendero Luminoso - e il controllo e l’arresto dell’inflazione. Il precedente regime di Alan García aveva lasciato al paese una iperinflazione galoppante e un’economia in stato di virtuale collasso. Fujimori ha affrontato il problema con la ricetta opposta a quella che aveva offerto nel corso della sua campagna: lo shock economico e la politica dell’accordo. La contraddizione della spesa pubblica, l’attenzione nell’evitare lo squilibrio del tasso si cambio e la recessione hanno contribuito ad abbassare l’inflazione. Per quel che riguarda il senderismo, la cui avanzata teneva in angoscia la popolazione, la cattura del suo capo principale, Abimael Guzmán, nel settembre del 1992, fu l’inizio della sua capitolazione. Attualmente i suoi dirigenti sono sivisi in due fazioni - quelli in favore di un accordo di pace propugnato da Guzmán e quelli che vogliono continuare la guerra - e la sua capacità operativa militare e politica si è sensibilmente ridotta. Se si prende in considerazione il contesto di instabilità e insicurezza provocati tanto dall’inflazione quanto dal terrorismo, si può dar ragione del riconoscimento espresso da buona parte della popolazione per il regime dei Fujimori. Gli strateghi della sua campagna per la rielezione hanno fatto intendere, in guisa di velata minaccia, che senza la sua guida il paese avrebbe potuto vedere la ripresa di entrambi i fenomeni. [Il fantasma di Sendero fu quello che in gran parte ha posto le catene alla sinistra, perchè il risultato di Sendero fu, indipendentemente dalla loro volontà, la sconfitta del movimento popolare, in ciò coincidendo con l’obiettivo della dittatura, come denunciò il settimanale Cambio. Adesso si sa che quelli di Sendero eran tanto deboli che mai ebbero la capacità di fare azioni militari di sbaragliamento, che la loro politica di terrore contro la polizia e i soldati alla base della gerarchia, così come gli assassinii della popolazione civile e dei dirigenti delle organizzazioni popolari, fu ciò che fece credere alla loro apparente grandezza, i 400 prigionieri assassinati nel carcere nel 1986, non si potè mai provare quanti erano realmente di Sendero, dal momento che, come oggi, la polizia arresta molta gente non appartenente ad alcuna organizzazione. Oggi si sa poi, che questi assassinii erano commessi anche dal SIN che, tra l’altro, accusava Sendero degli stessi e faceva arrestare molte persone possibilmente della popolazione civile. Come nei casi denunciati recentemente dei tecnici giapponesi e del dirigente Pedro Huilca della CGTP, che in realtà furono commessi da membri dell’esercito e del SIN.] Nel frattempo, durante gli ultimi due anni, Fujimori girava per il paese regalando computers, inaugurando opere pubbliche (scuole, linee elettriche, acqua potabile, ecc...) e facendo balenare l’idea che presto sarebbero giunti i grandi investimenti esteri grazie alle garanzie ora offerte dal Perù. In realtà il regime Fujimori , la sua ascesa, la sua natura e la sua rielezione dipendono da ragioni più strutturali, da cambiamenti che si stanno verificando nella società peruviana e da processi che l’attuale governo si impegna a far naufragare. Da vent’anni il paese soffre di una profonda crisi economica che ha provocato licenziamenti, disoccupazione e riduzione di manodopera salariata. Il suo effetto, oltre la disoccupazione, è la sottoccupazione. L’impiego saltuario, l’affluenza massiccia di manodopera nel cosiddetto "settore informale" dell’economia, il lavoro in proprio o - in misura minore - la cresita del sottoproletariato rappresentano l’alternativa della maggior parte della popolazione peruviana economicamente attiva. Per poter sopravvivere, la maggioranza della gente - compresi gli operai e gli impiegati di medio livello - è obbligata a prolungare la giornata di lavoro, a svolgere un doppio lavoro, ad accettare salari sempre piùridotti e a mettere in atto altre strategie che possano far fronte a una situzione economicamante difficile per le categorie a basso reddito. In questo contesto si è verificato uno smembramento dei vincoli che univano ed erano propri di certi settori popolari , specie quello dei lavoratori. Il declino del lavorosalariato, assieme all’affanno di sopravvivere e a una normativa che favorisce la repressione dei tentativi di organizzazione e di proteste, ha significativamente indebolito i sindacati. La precarietà del lavoro salariato, lo spostamento della manodopera sul terreno della "informalità" e della sopravvivenza hanno spezzato legami di identità e di solidarietà preesistenti. Sul piano ideologico, le condizioni di sopravvivenza in cui si trovano molti peruviani, così come la diffusa pratica del lavoro in proprio, hanno favorito lo sviluppo dell’individualismo, del "ciascuno per sè" del "si salvi chi può", un terreno fertile per seminare i miti del neoliberismo, uno dei quali è convertire il Peru in un paese di proprietari. Quando la preoccupazione della gente si concentra su come procurarsi i mezzi per vivere la giornata, quando deve fare due o più lavori, la possibilità che si organizzi in forma sindacale o politica è materialmente ridotta e la stessa solidarietà interna è fortemente indebolita. I più colpiti dalla mancanza di prospettive sono i giovani. Con aspettative scolastiche frustrate o frustranti, senza impiego fisso e senza entrate adeguate, dopo la crisi in cui sono naufragati i partiti riformisti e di sinistra - che tra gli anni ’60 e ’80 attiravano la loro attenzione - mancano anche di riferimenti politici e ideologici. L’effetto di questa crisi d’identità giovanile è stata la comparsa di manifestazioni violente: le cosiddette barras bravas negli stadi di calcio, le bande violente di studenti e di ragazzi dei quartieri popolari, l’incremento della delinquenza miorile. Anche il gruppo armato Sendero Luminoso, quando era all’apogeo, trovò adesione nei settori della gioventù impoverita: studenti, abitanti di quartieri poveri, comuneros. I suddetti fenomeni hanno anche messo in crisi la rappresentatività dei partiti politici in Peru e quella della cosiddetta "classe politica" e delle sue istituzioni. Nel paese, i politici e la politica appaiono come qualcosa di lontano dall’attività sociale, dal quotidiano. L’indebolimento o la scomparsa dei settori sociali organizzati sui quali alcuni gruppi politici basavano la loro organizzazione e la loro azione, hanno colpito profondamente il partito aprista (Apra) e la sinistra. I partiti conservatori - Ppc, Ap - hanno perso il favore (e l’appoggio) degli imprenditori che ora seguono Fujimori. L’attuale linea di tutti i partiti - inclusi i riformisti e la sinistra, come anche la Upp di Pérez de Cuéllar e ancor più i conservatori Ppc e Ap - fa concessioni di vario grado al neoliberismo vigente. Il fujimorismo, che è oggi la sua migliore espressione, virtualmente non trova opposizione. Proprio per questo la maggioranza dei votanti ha preferito optare per la versione originale, che per di più si presenta come "costruttrice di opere" (scuole, strade, ecc...), piuttosto che per il fujimorismo senza Fujimori. La differenza più eclatante della maggioranza dei partiti con il fujimorismo è quella che riguarda le forme autoritarie del regime. Ma Fujimori si è premurato di dequalificare la pretesa di democrazia liberale identificandola con l’inoperanza dei politici - che egli chiama "tradizionali" - e dei partiti e delle istituzioni come il parlamento nella fase precedente al golpe del 5 aprile. Nel periodo che precedette il 5 aprle 1992, il parlamento appariva come un organo inutile, incapace di legiferare e persino di fiscalizzare, nel quale i politici si recavano a fare i loro discorsi, ma dal quale non usciva niente di pratico. In contrapposizione, Fujimori coltivò la sua immagine di statista pragmatico che un gruppo di politici ("tradizionali") riuniti nel Congresso non lasciava lavorare. Il Congresso post-golpe, in cui il presidente ha la maggioranza assoluta, non legifera certo più di quello precedente e tanto meno fiscalizza, però "lascia fare" il capo dello stato. Il protagonismo presidenziale, che comprende la consegna personale e diretta di regali e di opere pubbliche in settori impoveriti della popolazione, serve a celare a quest’ultima la rinuncia della maggioranza parlamentare ufficialista a svolgere la sue funzioni e la sua subordinazione all’esecutivo. Secondo Fujimori si tratta ora di costruire un sistema politico efficiente, che egli ha chiamato "democrazia diretta". In essa il capo dello stato - e un gruppo di accoliti - si rapportano direttamente con la popolazione e rispondono alle sue richieste. Inquesto sistema non c’è posto per i partiti. La destrutturazione sociale alla quale ci riferiamo ebbe inizio prima dell’ascesa di Fujimori al potere. Il crollo del regime aprista e il suo screditamento diedero il via alla rinascita della destra, che nel 1985 non aveva nell’insieme raggiunto nemmeno il 15 per cento dei voti. La congiuntura in cui si verificò tale rinascita fu l’agosto del 1987, quando l’azione coordinata dell’imprenditoria e della destra politica impedirono la capitalizzazione della banca che era favorevole al governo di Alan García. Da quel momento la destra sentì di avere spazio sufficiente per preconizzare l’ideologia e il programma neoliberali, che misero alle corde i suoi avversari nel mezzo di una spaventosa crisi economica di fronte alla quale tutti i partiti convenivano con diverse sfumature che la si dovesse affrontare mediante una specie di accordo. Unita per la prima volta dopo decenni, nel 1990 la destra sostenne la candidatura dello scrittore Mario Vargas Llosa. Ma durante la campagna si ebbero i primi segni della prepotenza imprenditoriale e conservatrice e si delineò l’immagine screditata dei vecchi politici conservatori che finirono per pregiudicare la candidatura del letterato. Il favorito in quelle elezioni fu Fujimori, che non presentava nessun programma e, con l’appoggio di gruppi religiosi evangelici e di piccoli impresari informali, aveva condotto una campagna da formichina tra gli abitanti delle borgate povere. Egli offriva un governo onesto - in contrapposizione alla corruzione del regime aprista -, un governo lavoratore - immagine che in Peru hanno i giapponesi e i loro discendenti - e un governo moderno (la tecnologia era l’altra componente del suo slogan elettorale). Così, di fronte al panico crescente provocato nella popolazione impoverita dalla politica di shock offerta da Vargas Llosa per far fronte alla iperinflazione, egli affermò che ne avrebbe applicata una diversa, che non precisò. Senza un vero e proprio partito politico, appena eletto, per governare si appoggiò alle forze armate - soprattutto all’esercito- e ai servizi segreti. Il suo regime è, tutto sommato, un’alleanza tra quelle istituzioni e un settore di tecnocrati da lui capeggiati. Il suo progetto politico, quello attualmente in corso, sarebbe stato elaborato un anno prima delle elezioni del 1990 dall’esercito, allora preoccupato per l’avanzata di Sendero Luminoso, per il disfacimento dello stato e delle sue sitituzioni minati dalla corruzione e dall’inattività e per la terribile inflazione. Sul piano politico questo progetto comprende la riorganizzazione dello stato e il suo controllo centralizzato e verticale, con una presenza decisiva delle forze armate e del Sin (servizio segreto); in materia economica, l’applicazione estremistica dei dogmi del neoliberismo e la piena apertura del paese al capitale straniero. Nel processo in corso nello stato peruviano negli ultimi trent’anni, il regime di Fujimori rappresenta un ribaltamento. Nella seconda metà del XX secolo, i settori popolari si aprono progressivamente degli spazi nello stato che permisero loro il riconoscimento di alcuni diritti, lo stabilirsi di fomre di intermediazione e, fino a un certo punto, di rappresentazione dello stesso. Fin nel periodo degli anni ’50, lo stato in Peru era ancora oligarchico, controllato da un’alleanza di proprietari terrieri, impresari agroindustriali, grandi banchieri e imprenditori minerari. L’esercizio del potere politico da parte di quell’alleanza escludeva le maggioranze nazionali sindacalmente e politicamente venivano severamente represse. Ma quel clima politico asfissiante era sempre meno compatibile con i processi che allora si verificavano nella società peruviana: l’urbanizzazione, lo sviluppo dell’industria e del lavoro salariato, il movimento contadino contro i proprietari terrieri e la servitù, la crescente migrazione dalla campagna alla città, la richiesta di educazione e la sua espansione. Tali processi favorivano l’organizzazione dei settori popolari, che premevano per rivendicare i loro diritti e facevano progressi in tal senso. Con le differenti caratteristiche e varianti dei diversi governi che allora si succedettero, nel periodo che va dal 1960 al 1990 la disoligarchizzazione dello stato diede luogo a una certa sura delle esigenze dei settori popolarie medi, senza per questo sottrarsi al servizio del capitalismo e nella misura in cui tali richieste non mettessero politicamente in questione il dominio del capitale. A partire dal 1990, dopo l’ascesa al governo dell’ingeniere Alberto Fujimori esoprattutto dopo il suo autogolpe di stato del 5 aprile 1992, il Peru ha intrapreso la dinamica inversa. Non si tratta di un ritorno al vecchio stato oligarchico, ma piuttosto al suo carattere brutalmente escludente e questa volta in favore di uno dei due termini del binomio capitale-lavoro: il capitale. Più esattamente, il capitale internazionale e i suoi soci nazionali, soprattutto il capitale finanziario. Per questo, lo stato è stato purgato da tutto ciò che significa organismi, legislazione e burocrazia legata alle richieste dei lavoratori e dei settori medi. Il governo ha ridotto sensibilmente la "spesa sociale", l’impiego e le entrate dei salariati. L’imprenditoria è stata favorita con diverse norme che facilitano l’aumento dei guadagni, ma vanno contro i salari e i lavoratori, i quali vedono mettere in discussione persino il loro diritto a organizzarsi e il loro diritto di sciopero. Le imprese statali di servizi e quelle che operano in settori strategici vengono vendute all’asta al capitale privato, mentre si è iniziata una politica di apertura dell’economia al capitale straniero. La ristrutturazione politica dello stato intrapresa dal regime ha subordinato i poteri legislativo e giudiziario al potere esecutivo. L’indipendenza dei poteri praticamente non esiste. Nella costituzione approvata nel 1993, la figura del presidente ha più importanza di quella che aveva nella precedente organizzazione statale stabilita dalla Carta Magna del 1979. Al riparo dello stato di emergenza in cui si trova gran parte del paese, decretato quando l’azione dei gruppi armati era intensa, le forze armate hanno il controllo politico diretto su buona parte del territorio nazionale. La loro partecipazione al regime e alle decisioni più importanti che questo adotta è significativa. Lo stile di governo del capo dello stato peruviano personalizza le decisioni e le azioni più importanti nella figura del presidente. Tale personalizzaione assume caratteristiche arbitrarie e verticali. Fa parte di questo stile la maniera in cui il primo cittadino concepisce il suo rapporto con la cittadinanza: senza la mediazione di un’organizzazione poltica partitaria e con la concessione di benefici (attrezzature in regalo, offerte di opere pubbliche, ecc...). Il caudillismo e il clientelismo fanno parte del modo di fare politica del presidente. La politica economica messa in pratica dal suo governo tende a completare il processo di destrutturazione sociale già esistente nella società peruviana e a renderla sempre più bipolare: da una parte un piccolo settore che tende a una crescente concentrazione delle risorse economiche e dall’altra la maggioranza che diventa sempre più povera. Intanto, sul piano politico, non si vede alcuna intenzione di costruire, o almeno di favorire il costituirsi di istituzioni che per lo meno permettano il gioco politico nell’ambito della democrazia liberale. Ancor meno appare la volontà di facilitare la rinascita o la rifondazione di organizzazioni che rappresentino i lavoratori, anzi si cerca di fare esattamente il contrario. Così si è chiuso il processo di democratizzazione nel quale il paese era parzialmente e limitatamente entrato negli ultimi decenni. Si è invece aperto un processo in cui si cerca dichiaratamente di imitare gli esempi della Corea e del Chile di Pinochet.