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Siamo tutti dei "numero 148"
Claudio Albertani

"Credo che adesso il Perù possa esportare tecnologia antiterrorista" dichiarava, radioso, il dittatore peruviano Alberto Fujimori, all'indomani del massacro all'ambasciata giapponese di Lima.
"Viva la muerte" rispondevano i governanti del mondo manifestando "allegria e apprezzamento" per l'operato di Fujimori. Ignobili dichiarazioni di sostegno giunsero anche da Kofi Annan, segretario generale dell'Onu, da Cesar Gaviria dell'Organizzazione degli Stati Americani e persino dal portavoce della Croce Rossa in Perù. Più ipocritamente, l'Unione Europea proclamava "cordoglio" per la morte dei due militari e di uno degli ostaggi (casualmente un nemico politico di Fujimori), senza dire una parola sulla sorte dei quattordici militanti del Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru (MRTA), in gran parte indigeni della regione amazzonica.
In Perù, i più importanti mezzi di comunicazione non esitavano a impiegare il linguaggio kafkiano dello stesso Fujimori per il quale i combattenti dell'MRTA non sarebbero peruviani, non sarebbero nemmeno uomini e donne in carne ed ossa, bensì un numero di codice, il 148, quello che lui e quelli come lui usano per designare i ribelli, considerati gente abominevole la cui vita non può e non deve valere nulla, non merita neppure di essere nominata.

1. Oggi, Fujimori incarna il modello del perfetto governante neoliberista: autocratico in patria però servile con i poteri forti, privo di idee ma osservatore attento degli indici di popolarità telematica. Senza un programma preciso e brandendo lo slogan tanto squillante quanto sconclusionato "onore, tecnologia e lavoro", egli vinse le elezioni del 1990 solo grazie a due dati concomitanti: il generale discredito in cui era precipitato il vecchio Partito Aprista a causa della corrotta amministrazione di Alan García e il terrore per la politica di austerità prospettata dal candidato della destra, lo scrittore Mario Vargas Llosa. Per un po' di tempo, Fujimori coltivò l'immagine dello statista pragmatico e sabotato da politicanti corrotti ma le sue intenzioni si fecero chiare il 5 aprile 1992, quando con un clamoroso autogolpe dissolse il parlamento, i partiti politici e il potere giudiziario. Dietro la manovra stavano gli enti finanziari internazionali, le forze armate e i servizi segreti (SIN). Coadiuvato da due personaggi sinistri, l'ex agente della CIA, Vladimiro Montesinos, e Nicolas Hermoza Rios, presidente del Comando Congiunto delle Forze Armate, Fujimori decretò l'emergenza nazionale, riorganizzò lo stato su basi militari, modificò la Costituzione per poter essere rieletto (1995) ed applicò con devozione fanatica gli stessi dogmi neoliberali per opporsi ai quali aveva richiesto il voto. Ai peruviani furono quindi somministrate in dosi massicce le consuete ricette: rialzo dei tassi di interesse, privatizzazione di terre ed aziende pubbliche, smantellamento dei diritti sindacali, apertura al capitale straniero - in particolare giapponese - ed ai proventi del narcotraffico. Grazie al trattamento, nel 1994 il Paese aveva ridotto l'inflazione ed ottenuto il tasso di sviluppo più alto del mondo (12,5%).
Un clamoroso successo per chi consideri unicamente gli indicatori economici. Tuttavia, come già si è potuto verificare in moltissimi paesi - ad esempio in Cina, in Corea o in Cile - crescita del prodotto interno, distribuzione della ricchezza e democrazia non camminano insieme. La metà dei peruviani vive oggi in condizioni di povertà estrema e per contenere la pressione degli esclusi il regime di Fujimori ha consegnato l'amministrazione territoriale ai militari, ha promulgato leggi liberticide, ha instaurato tribunali speciali e costruito carceri di massima sicurezza che sono vere e proprie macchine di annientamento.

2. Il 21 aprile, mentre al comando "Edgar Sanchez" dell'MRTA restavano poche ore di vita, qualche migliaio di chilometri più a est, in un ospedale di Brasilia, si spegneva Galindo Jesús dos Santos, capo degli indios patashós della regione del Jucurucú. Dos Santos è morto in seguito alle ferite causategli da un gruppo di giovani, tutti figli di alti magistrati e funzionari, che avevano trovato divertente dargli fuoco mentre dormiva su una panchina. Oltre ad essere indigeno, Dos Santos era membro del Movimento Senza Terra (MST) ed era arrivato a Brasilia il 17 aprile insieme ad altri 60.000 contadini che hanno camminato tra i 1000 e i 2000 chilometri per esigere la riforma agraria e la salvaguardia del sistema ecologico amazzonico. Malgrado l'alto tributo di sangue (1600 militanti assassinati in 12 anni), l'MST è oggi il movimento contadino più forte del continente americano. Leggiamo in un loro manifesto: "la nostra situazione ha radici storiche profonde tuttavia è peggiorata con la politica economica neoliberale di Fernando Henrique Cardoso". Cardoso, che nel passato è stato un uomo di sinistra, impersona un altro tipo umano caro al neoliberismo: l'apostata. Il Brasile - vale la pena ricordarlo - è il paese con la struttura agraria più concentrata della storia dell'umanità: il 50% delle terre coltivabili appartiene al 2% della popolazione e le 27 proprietà più grandi hanno una superficie equivalente a quella dell'Italia peninsulare. Non contento, Cardoso si propone di instaurare un modello agrario di tipo nordamericano, produrre materie prime per la Nestlè e la Parmalat e ridurre i contadini al 4% della popolazione. L'MST, il cui motto è "occupare, resistere e produrre" non rinuncia però a lottare: "Siamo 5 milioni di famiglie che vivono al riparo di teli di plastica, lungo le strade e nei pressi delle grandi proprietà, ha recentemente dichiarato un suo esponente, è perciò che siamo degli incurabili sognatori".

3. Come in Brasile, come in Corea del sud - un paese "ricco" dove le chaebol (transnazionali) pretenderebbero di imporre la settimana lavorativa di 54 ore e mezzo - e come ovunque, in Perù è in corso quella che gli zapatisti messicani hanno chiamato una nuova guerra mondiale. Le prime due guerre mondiali le hanno vinte gli Stati Uniti e i loro alleati. Anche la terza guerra mondiale - conosciuta come guerra fredda - è stata vinta dagli Stati Uniti (è ancora presto per valutare se ne abbiano beneficiato anche i loro alleati, come l'Europa occidentale, ma è lecito dubitarne); oggi viviamo la quarta guerra mondiale, indetta non più con la scusa del predominio di uno stato o di un'ideologia, ma direttamente contro i poveri, gli esclusi, le centinaia di milioni di bocche e braccia inutili, esseri umani che ormai non servono più neanche per essere sfruttati. "É utile vivere se non si è vantaggiosi per il profitto?" Si chiede la scrittrice Viviane Forrester, autrice de "L'orrore economico" (Ponte alle Grazie, 1997), una requisitoria appassionata contro l'attuale ordine sociale. E aggiunge: "si riporta la condizione di escluso a problemi di differenza di colore, di nazionalità, di religione, di cultura, che non avrebbero niente a che vedere con le leggi dei mercati. Mentre sono i poveri come sempre e da sempre ad essere esclusi". Nel diagramma neoliberista, esistono persone o paesi che hanno il successo garantito e ne esistono altri che non ce l'hanno affatto e che diventano perciò sempre più gravosi. Nel mirino ci possono essere gli operai di una fabbrica che deve chiudere oppure gli abitanti di una terra che deve essere valorizzata, gli emigranti, i pensionati, o semplicemente i diversi, i tossicodipendenti, i sieropositivi. Chi non è di troppo, chi non è esuberante oggi potrebbe facilmente diventarlo domani. Un indio amazzonico, un maya del Chiapas, un disoccupato di Detroit, un "cholo" di Lima o, qui da noi, un albanese, una nigeriana, un gitano sono altrettanti " numeri 148" di cui il nuovo ordine internazionale può benissimo fare a meno e "deve" fare a meno se vuole massimizzare i profitti seguendo quella che gli apologeti dell'esistente definiscono la "dolorosa necessità" del progresso. Di fianco ai milioni di esclusi permanenti, vedremo presto bussare nuove folle di paria disposti a qualsiasi cosa pur di ricevere le briciole del festino a cui non sono invitati, ma che tuttavia hanno contribuito a pagare. Essi, cantava Woody Guthrie, non hanno da mangiare, però hanno coltelli, hanno forchette e devono pur tagliare qualcosa.

4. In tale situazione, la militarizzazione che nei paesi periferici assume toni particolarmente virulenti, si profila inevitabilmente anche sul nostro orizzonte. Il neoliberismo che ci promette di unificare tutti i paesi in un unico paese, vestendo il disonorato casco blu delle missioni di pace armate fino ai denti, tritura in realtà ogni paese, sbriciolandolo in molti paesi con un terzo e un quarto mondo al loro interno. Dalla corsa agli armamenti nucleari capaci di distruggere l'umanità in un colpo solo, si passa alle guerre di bassa intensità, più selettive, più aggiornate, più market oriented. Guerre destinate ad annientare l'umanità a poco a poco, in tanti modi ed in molti luoghi. Ciò è praticabile solo in un quadro di mistificazione profondissima che si incarica di addebitare agli esclusi la "violenza" della loro reazione. Ma anche Gandhi, il più coerente sostenitore della non violenza osservava che è assurdo predicare la non violenza al topo mentre si difende dal gatto che sta per farlo a pezzi. Sbagliano perciò coloro i quali, argomentando che in Messico l'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha effettivamente inventato un nuovo rapporto tra violenza e non violenza consistente nel tenere viva la tensione senza legarsi a nessuna delle due opzioni, oggi contrappongono i "pacifici" zapatisti ai tupacamaristi "Violenti". La propaganda ufficiale vuole farci credere che l'azione del commando assassino sia stata tanto rapida ed efficace da stroncare qualsiasi reazione da parte dei guerriglieri. Questa versione è però smentita dagli ostaggi che hanno dichiarato precisamente il contrario: i combattenti hanno deliberatamente deciso di risparmiare loro la vita offrendo al mondo una rigorosa lezione di umanità. In Perù è stato dato un golpe internazionale contro il dialogo, contro la tregua, contro la soluzione pacifica dei conflitti. Apparentemente la vittoria arride oggi a Fujimori e a quelli che si sono congratulati con lui. Tuttavia la storia non è finita. Nel 1980, un contadino indio di nome Vicente Menchú morì calcinato insieme ad altri 37 militanti in un'azione fulminea simile a quella realizzata a Lima. Essi avevano occupato l'ambasciata spagnola di Città del Guatemala per esigere il rispetto dei diritti umani nella loro regione di origine, il Quiché, in quell'epoca messa a ferro e fuoco dall'esercito guatemalteco. Per dodici anni, Rigoberta, la figlia di Vicente destinata ad ottenere nel 1992 il premio Nobel per la pace, è stata la più implacabile nemica della dittatura militare. Se oggi i militari guatemaltechi sono stati allontanati dal potere è anche grazie al lavoro di Rigoberta, al sacrificio di Vicente e di quanti hanno avuto il coraggio di lottare. Tutti "numero 148", al pari dei Tupac Amaru, degli zapatisti, dei Senza Terra, di tutti coloro che in ogni parte del mondo mettono al primo posto la libertà. Se Fujimori prestasse più attenzione alla storia e meno ai listini di borsa saprebbe che alla fine la gente vuol bene ai Nestor Cerpa, ai Zapata, ai Che Guevara. Non ai loro assassini. 22 maggio 1997 (a trenta giorni dal massacro, onore e affetto ai combattenti dell'MRTA)



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