NB:questo documento è stato scritto da un solo compagno. Pur essendo condiviso da una parte del collettivo, non ne rappresenta la totalità.


SCAVALCHIAMO LE CATTEDRE
La scuola è un carcere. A prima vista l'affermazione pare grossolana e letta superficialmente lo è. Tuttavia sono convinto di non sbagliarmi nel paragonare la scuola all'istituzione più repressiva dello stato. C'è un parallelismo evidente tra sistema educativo, società e carcere. Sono la sovrastruttura di un'unica struttura economica dominante. Sono ingranaggi per assorbirci, selezionarci e omologarci nel grande spettacolo del business mondiale. Ovviamente il grado della loro forza persuasiva o punitiva è diverso.

Analizzando la scuola, scardinandone gli aspetti superficiali, ci troviamo di fronte a un brutale sistema di repressione e a una macchina di produzione di automi. Quella che comunemente viene chiamata cultura è solo nozionismo, che difficilmente riesce a stimolare o ad appagare i nostri interessi. Del resto, ultimamente, questo nozionismo stesso è divenuto sempre più settoriale, tecnico e specialistico, pronto a soddisfare le richieste di mercato. Ma quello che avvicina di più la scuola alle istituzioni totali è la sua capacità di addestrarci sin da bambini alla disciplina, al rispetto dell'autorità, la sua capacità di selezionare gli elementi compatibili e quelli incompatibili con il sistema di valori dominante. E soprattutto ciò che rende la scuola una prigione insopportabile sono quei piccoli, continui e incessanti divieti e ordini che abituano le nostre menti, già ipnotizzate dai media e dalla famiglia, a dire di sì e ad accettare per naturale l'imposizione. Non potersi alzare dalla sedia durante le lezioni, se non col permesso, è un esempio al tempo stesso banale e allucinante. Poi, al di là dei contenuti falsati, quello che vogliono trasmettere, oltre ai valori di competitività e al successo individualizzato, è l'alienante monotonia e la piattezza di un mondo scandito dal ritmo degli orari di ingresso e di uscita lasciando che la gioia corrisponda alla domenica, alla ricreazione (o al giorno di ferie o alla libera uscita) da sprecare bevendo Coca Cola, mangiando al Mc Donald's o le merendine Nestlè e facendo shopping andando a comprare un bel paio di Nike. Dunque iniettare omologazione e alienazione a tutti i livelli.

Mi pare fin troppo evidente come la scuola sia inseribile tra le istituzioni che meglio servono a de/formare gli individui. Anzi questo ruolo la scuola lo investe ufficialmente. Infatti nei luoghi di produzione e nei posti di lavoro, dove l'omologazione dei soggetti e già avviata o vi penetra indirettamente (lasciando più spazio a sua volta a uno sfruttamento più diretto e a una alienazione più terrificante), la de/formazione dell'individuo è ben più mascherata al confronto con la scuola, nella quale esplicitamente si afferma che bisogna EDUCARE gli alunni. Educarli su quali parametri, se non su quelli dominanti, cioè del libero mercato, delle multi, dei self made men, dell'ordine e della disciplina?

Rimane ancora da obbiettare per qualcuno forse come eccessivo l'accostamento dell'istruzione con il carcere. Ribadisco che il grado della forza repressiva è ovviamente di gran lunga diverso, anzi nella galera questo raggiunge il suo apice calpestando la stessa dignità umana, non avendo quindi ragione di esistere. Ma la molla, il pensiero e il meccanismo che rinchiude dietro le sbarre uomini e donne è lo stesso che fa odiare la scuola. Del resto è ovvio che la violenza repressiva è minore negli ambienti scolastici visto che i soggetti da bersagliare sono ben più deboli. Poi lo studente è sotto il tiro incrociato dei media, della famiglia e talvolta pure del prete, tutti uniti in una asfissiante morsa repressiva. La scuola sintetizza il tutto con le sue lezioni di vita forzate, con i suoi spazi delimitati da muri, con i sui ritmi e le sue autorità da rispettare. Quello che voglio arrivare a dire è che la perversa mente che ha creato le gabbie, i manganelli e il codice penale è la stessa che ha inventato le note, le sospensioni, le bocciature. Levate le differenze quantitative e vi accorgerete che la qualità del messaggio è la stessa.

Non c'è niente, quindi, da difendere nella scuola pubblica (quella privata merita un discorso a parte perché chi ci va compie una scelta cosciente di autoomologazione d'élite). Questo è il nocciolo della questione.

Certo si può evitare che l'istruzione pubblica peggiori, cercando di arginare la valanga di riforme neoliberiste che arrivano di continuo, ma non si può tentare di migliorarla dall'interno, o almeno per me non è questa la strada giusta. Non è solo una critica allo studentismo riformista, che è solo funzionale alle istituzioni, ma a più o meno tutto quel misero movimento studentesco che oggi è rimasto. La scuola non va cambiata, va abbattuta. Lo so che sembra che sono uno in vena di spararle grosse, ma il senso della lotta rivoluzionaria è prima di tutto distruttivo, poi costruttivo.

Lasciatemi fare un esempio: a che serve gridare al diritto allo studio, e mi rivolgo anche ai gruppi più antagonisti, quando la scuola, qualsiasi modello di scuola, è costruito sui parametri del mercato globale e sui valori della morale benpensante? Vuol dire solo dare a tutti la possibilità di entrare meglio nei meccanismi della società borghese. Lo so che l'alternativa, soprattutto per quei milioni di giovani che sono abbandonati nelle periferie, non ha niente di rivoluzionario ed è anzi un anticipato ingresso nel mondo del lavoro (nero), o della disoccupazione e dei disastri sociali conseguenti; ma la possibilità di integrarli nella società civile, oltre a non essere un risultato radicale, è pure un sogno di basse ambizioni perché: 1. La scuola è creata in modo selettivo, colpendo soprattutto i/le figli/e della classe lavoratrice, al fine di mantenere lo status quo e relegare a ruoli societari minori gli emarginati. 2. Il mercato comunque può (vuole) assorbire solo un numero prestabilito di mano d'opera intellettuale (sempre se per qualcuno avere un ruolo di prestigio significa vincere una causa rivoluzionaria). Insomma nell'ambito antistituzionale alla fine non si ottiene niente e non si cambia nulla.

Credo che il discorso sia diverso riguardo l'università (ma non so fino a quanto) e il libero accesso a questa, ma non mi dilungo a tentare di dimostrarlo qui, perché quel che mi interessa ora è solo aver lanciato la provocazione e aprire un nuovo dibattito. Ovvero voglio sottolineare che è ora di uscire dalle sterili rivendicazioni veterosessantottine nelle quali il movimento studentesco stagna da troppo tempo e cercare di costruire una dialettica nuova che parta da basi radicalmente antistituzionali e che oltrepassi lo stesso orizzonte studentesco. Il primo passo da fare è superare la logica difensiva per crearne un'altra offensiva (almeno sul piano teorico e creativo, perché su quello pratico tutti sappiamo quanto è difficile la strada). È politicamente improduttiva la posizione assunta dal movimento negli ultimi anni come plateali difensori del vecchio ordine dell'istruzione pubblica e, paradossalmente, ciò rasenta il conservatorismo. E non sto dicendo di essere propositivi e di portare avanti istanze in antitesi a quelle del ministero; sto proponendo di creare una linea che oltrepassi la contingenza dei decreti e delle riforme e che sia concettualmente al di sopra dell'idea stessa di ministero, di riforma, di scuola.

Mi spiego: prendere consapevolezza dell'affinità della scuola con le istituzioni totali, significa considerarla insanabile (o qualcuno di voi conosce un metodo che rende bella una galera?),come insanabile è la società neoliberista; e come la soluzione al carcere è l'abbattimento di questo, e la soluzione all'alienazione dello sfruttamento del capitalismo è il non lavoro, la risposta all'istituzione della scuola deve essere il suo abbattimento e il suo superamento in una visione dinamica, creativa e circolare (non piramidale come ora) della cultura.

E l'attacco verso il sistema educativo istituzionale potrebbe essere ben più radicale e diretto che verso le altre strutture repressive. Infatti per abbattere il carcere, data la brutale condizione dei/delle reclusi/e, sono necessarie anche specifiche riforme che vadano incontro a determinate e drammatiche esigenze (malati di AIDS, torture, bracci speciali…), e dunque serve un cammino per tappe che alla pratica rivoluzionaria (che vuole l'abbattimento di qualsiasi galera) affianchi una pratica in qualche modo riformista (che tende a far sopravvivere il più decentemente possibile chi è dentro). Lo stesso discorso, ovvero la stessa pratica, vale nella lotta alla società e nel mondo del lavoro. L'attacco al sistema di produzione capitalistico, l'abbattimento del lavoro non possono non considerare le realtà della disoccupazione, del lavoro nero, dei salari sottopagati e gli scenari di miseria e contraddizione che ne conseguono (ghetti, gente senza casa, eroina nei quartieri). Insomma nel territorio e sui posti di lavoro c'è ancora da lottare per dei diritti fondamentali ancora negati.

Ma nella scuola è ben diverso; la scuola è un posto di passaggio dove si sosta per poco prima di entrare "nella vita", ma allo stesso tempo è un punto nevralgico dell'ordine costituito. Mi spiego meglio: per esempio, lottare affinché un giovane disoccupato abbia casa e lavoro è indispensabile perché si parla di tutta la sua vita e dei bisogni fondamentali di questa; allo stesso modo lottare per liberare immediatamente i/le detenuti/e sieropositivi/e è una questione di vita o di morte; ma la precarietà della scuola non ha questa urgenza. La sua condizione di questione momentanea, di problema dalla durata di tempo parziale nella vita di ognuno, la rende un obbiettivo particolare: questo perché da un lato, appunto in quanto "problema" di breve durata, viene sottovalutato, ma dall'altro è più fragile perché il cammino per il suo abbattimento non deve passare per nessuna tappa riformista.

Gli studenti nelle scuole se ne fregano altamente di questa o di quest'altra riforma, dei bei discorsi o delle linee politiche da seguire e altrettanto se ne fregano del cesso rotto o dei termosifoni spenti (cose che magari hanno danneggiato con piacere), quel che vogliono è solo uscire da quella palla di edificio e finire quei 4 o 5 anni che hanno da fare.

Bisogna organizzare, utilizzare in modo creativo, offensivo e politicamente consapevole la nausea, la noia, la frustrazione che la scuola crea per abbatterla in quanto ingranaggio di un meccanismo perverso da aggredire su tutti i fronti. Insomma l'invito che faccio è di spostare l'analisi dal puro aspetto settoriale (e questa è l'anima dello studentismo) ad una più globale ma che oltre a scardinare e a scoprire l'impianto economico che muove il tutto, sappia individuare le problematiche anche esistenziali dei nuovi ritmi di vita imposti e le affinità tra lo studente e gli altri soggetti sociali. Per una parte di movimento non sono cose nuove queste, ma si tratta di compiere dei passaggi mentali e di lotta che universalizzino le specificità della scuola per inserirla in un contesto di critica più ampio con nuovi canali comunicativi, nuove forme di interazione, nuovi linguaggi, percorsi ed esperimenti di liberazione. Per concludere, c'è bisogno di rinnovarsi nelle idee e nelle pratiche affinché muoia lo studentismo ma rimanga una ben più fertile creatività rivoluzionaria.

Fazio, Hazet 36


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