Corriere della Sera 4.2.05
Primavalle, gli ex divisi dalle rivelazioni di Morucci
Piperno: sapevo la verità sul rogo mentii per salvare Potere operaio
Marco Imarisio

MILANO - «Ora, compagni, potete gridare tutti "Lollo libero" senza troppi problemi!». Finiva così. Diciotto mesi dopo. Il libro venne pubblicato nel 1974, a un anno e mezzo di distanza dalla notte tra domenica 15 e lunedì 16 aprile in cui bruciarono vivi due dei figli di Mario Mattei. Si intitola «Primavalle, incendio a porte chiuse», edizioni Savelli. È una controinchiesta fatta da un gruppo di 25 giornalisti e militanti. Come allegato, c’è un documento politico della direzione di «Potere operaio» che spiega i motivi politici dell’iniziativa. «La montatura del caso Primavalle si presenta come modello di utilizzazione politica da parte delle istituzioni di un’occasione che gli viene offerta dal sottobosco politico rappresentato dal groviglio di faide e di furberie di un gruppo di fascisti di borgata».
È una reliquia di quelle che si trovano sulle bancarelle specializzate in editoria politica anni Settanta. Rischia di diventare altro, soprattutto dopo le parole di Valerio Morucci. In una intervista al Giornale , l’ex militante di Potere operaio e delle Brigate rosse ha nuovamente raccontato di come, pistola alla mano, fece confessare Marino Clavo, appena incriminato per la strage insieme ad Achille Lollo e Manlio Grillo. Ha detto anche di avere informato subito i vertici di Potere operaio: sono stati tre dei nostri. Ecco perché quei 18 mesi che separano la strage dalla pubblicazione dell’inchiesta rischiano di avere una piccola importanza storica. I capi di Potop erano a conoscenza dell’identità dei tre assassini. Sapevano della loro colpevolezza, eppure li difesero a mezzo stampa, arrivando a farli assolvere in primo grado.
«Morucci non mente, è andata così. Forse dà troppo peso alla confessione che ottenne da Clavo. Non penso che possa essere stata valutata come definitiva». Franco Piperno, uno dei fondatori di Potere operaio, dice che fu una questione di metodo. Una pistola alla testa di un compagno, per farlo confessare. «Può darsi che Valerio ce lo abbia detto, ma il modo in cui ottenne quella confessione mi impressionò. Mi soffermai più su quello, ad essere sincero». Piperno fa uno sforzo per ricordare. Dice: «Comunque ci ponemmo il problema della loro difesa, anche alla luce dei loro alibi, che si dimostravano sempre più fasulli. Ma se erano stati loro, eravamo comunque persuasi si trattava di dabbenaggine omicida. Non avevano l’intenzione di uccidere, e di questo ne sono ancora convinto oggi. Li conoscevo bene, tutti e tre».
Così partì la campagna di controinformazione, che molto contribuì all’assoluzione in primo grado dei tre militanti. Il documento politico allegato al libro insiste sulla simmetria degli opposti estremismi. «La montatura di Primavalle viene presentata come il contraltare all’uccisione - da parte degli squadristi fascisti di Milano - dell’agente di polizia Marino (assassinato tre giorni prima del rogo, ndr). In questo senso, è vero che colpire tre compagni vuol dire colpire l’intera organizzazione, e in modo indiretto, l’intera "rappresentanza politica" del movimento di classe e il movimento stesso». Piperno sospira: «Primavalle è stata per Potere operaio quello che il delitto Calabresi fu per Lotta Continua. Un caso ancora più atroce, se possibile, perché le vittime erano dei ragazzi». Era l’esatto contrario di quello che voleva essere Potere operaio: «Era qualcosa che riguardava i presupposti stessi dell’esistenza della nostra organizzazione».
Oreste Scalzone è furioso, e minaccia una lettera aperta a tutti i suoi ex compagni di militanza. Vuole spiegazioni, anche se sono passati 32 anni. «Non mi occupai del libro - ricorda - e non ne fui entusiasta. Ho sempre avuto orrore per le dietrologie di cui era infarcito. Era una cattiva azione sul piano culturale. Ma anche l’unico modo per evitare che al male si sommasse il male, quindi per strappare Lollo, che all’epoca era l’unico detenuto, all’ergastolo». L’altro leader storico di Potere operaio aiutò i tre militanti nella fuga («Non mi sono mai posto il problema della loro colpevolezza»). Quello su cui chiede chiarimenti è altro. Morucci, e quella pistola puntata alla testa di un compagno. «A me nessuno lo raccontò mai. Altrimenti avrei posto una questione che reputo valida ancora oggi. Se avessi saputo che altri compagni avevano tollerato quel gesto, me ne sarei andato da Potere operaio. Spero che Morucci dica il falso. Altrimenti significherebbe che è stato commesso un orrore per acquisire la verità e poi difendere comunque la menzogna. Sarebbe terribile».
È probabile che sia andata così. Morucci portò la verità ai suoi capi di allora, che scelsero un’altra strada. E forse le parole più sensate su questa storia le ha dette due anni fa un altro ex di Potere Operaio, Lanfranco Pace: «Come più volte è accaduto in quegli anni - ha dichiarato ad Aldo Grandi che lo intervistava per il suo bel libro La generazione degli anni perduti -, e non solo a noi, fummo costretti ad assumere la difesa dei nostri tre compagni nonostante la loro colpevolezza. Perché facemmo questo? Perché non c’erano alternative. Se fossimo stati dei veri rivoluzionari avremmo dovuto ucciderli e farli ritrovare magari su qualche spiaggia deserta. Decidemmo così di difenderli fino in fondo».


CRONACHE
L'intervista a uno degli autori della strage che ora vive in Brasile

«A Primavalle eravamo in sei»

Achille Lollo: « Ecco chi c'era quella notte. Giurammo di non parlare per 30 anni, ma il silenzio non ha più senso »
Achille Lollo in Brasile

RIO DE JANEIRO — Achille Lollo parla. Di nuovo. Dal Brasile, dove vive da 18 anni. Prima latitante per la strage di Primavalle, oggi libero cittadino, dopo la prescrizione della pena tra l'indignazione generale in Italia. Lascia un messaggio nella segreteria telefonica. Anche il linguaggio è d'epoca: « Sono maturati i tempi, vediamoci » . Aveva promesso un memoriale, oggi preferisce un'intervista. « Non siamo stati in tre ad organizzare l'attentato. Eravamo in sei. Ho rispettato un silenzio di oltre trent'anni, oggi non ha più senso. Voglio dire tutta la verità sul rogo e sulla morte dei fratelli Mattei » . Achille Lollo vive in un modesto appartamento in un quartiere residenziale di Rio de Janeiro. Fuori è Carnevale in ogni angolo di strada. Ma in questo salottino in penombra, silenzioso, due divani e un tavolo, ci sono solo libri, collezioni di riviste e ricordi incorniciati dei giornali di sinistra, che Lollo non ha mai smesso di pubblicare, dall'Angola al Brasile. Uno dei suoi quattro figli — si chiama Achille come lui — assiste incuriosito alla conversazione, ma capisce a fatica l'italiano e dopo poco se ne va. «Stai attento quando esci. Questa città è diventata invivibile — lo ammonisce il padre — . Assalti, rapine e sparatorie ad ogni angolo... » . Poi si siede e tira fuori cinque fogli pieni di appunti a mano, con date, orari e note. Ritagli dell'epoca e i verbali dei processi. « E' solo per seguire il filo. In realtà mi ricordo tutto, come fosse successo ieri » .

Sono maturati i tempi per che cosa, Lollo?
«L'attentato alla casa dei Mattei venne organizzato da sei persone. Oltre a me, Marino Clavo e Manlio Grillo ( tutti condannati in via definitiva, ndr ) c'erano altri tre compagni. Facevano parte di un collettivo che avevamo creato qualche mese prima, vicino a Potere operaio. I loro nomi sono Paolo Gaeta, Diana Perrone e Elisabetta Lecco. Liberi e tranquilli da 32 anni » .

Cosa avvenne quella notte?
«Preferisco prima spiegare cosa avvenne due giorni dopo il rogo, il 17 o il 18 aprile 1973, non ricordo bene. In una riunione di Potere operaio, in via del Boschetto, c'era l'intero vertice romano dell'organizzazione. Io e gli altri eravamo tra i sospettati, ci sommersero di domande. Negammo tutto. Poi noi sei ci ritirammo in una stanza appartata e facemmo un giuramento, lo chiamammo silenzio ideologico, era il linguaggio di quei tempi. Nessuno di noi avrebbe aperto bocca per trent'anni. Né sui fatti, né sui compagni coinvolti » .

Che credibilità ha questa storia Lollo?
Achille Lollo ai tempi del processo
«In molti vennero a sapere la verità su Primavalle nei mesi successivi, compresi i vertici di Potop. La verità vera, sto dicendo, non quella ufficiale. Un altro aspetto importante è questo: io il giorno dopo la riunione venni arrestato e nessuno degli altri cinque scappò. Erano strasicuri che non avrei parlato. Clavo e Grillo fuggirono all'estero qualche tempo dopo. Gli altri tre non ne ebbero mai bisogno, qualcuno o qualcosa li salvò dall'accusa » .

Torniamo a quella notte.
«Attorno a mezzanotte ci incontrammo tutti vicino a piazza Farnese. Avevamo due Cinquecento, io e Grillo con una e gli altri quattro sull'altra. Ci mettiamo d'accordo sull'azione e ci separiamo. Verso l'una e mezzo, io e Grillo ripassiamo a prendere Clavo ed Elisabetta Lecco, i due erano fidanzati. Loro avevano la tanica per l'attentato. Ci fermiamo da un benzinaio, un distributore automatico, e dividiamo a metà mille lire tra la tanica e il serbatoio della macchina. Arrivammo in quattro sotto casa Mattei, verso le due e un quarto di notte, ma le luci nell'appartamento erano ancora accese. Decidiamo di fare un altro giro. Verso le tre meno un quarto, infine, io e Clavo saliamo le scale della palazzina, arriviamo dietro la porta dei Mattei con tanica, innesco e cartello di rivendicazione. E lì avviene il disastro, la terribile cazzata... » .

E cioè?
« Non volevamo provocare l'incendio, né uccidere. Doveva essere un'azione dimostrativa, come altre che avevamo fatto contro i fascisti a Primavalle. Ma al momento di montare l'innesco, mi si ruppe il preservativo... » .

Il preservativo?
«La Lilli, così si chiamava all'epoca la bomba artigianale, si costruiva con una tanica, un po' di benzina — due o tre litri — e i due preservativi servivano per l'acido solforico, il diserbante e lo zucchero. L'innesco doveva far esplodere i gas della benzina. Se tutto avesse funzionato, avremmo provocato un botto e annerito la porta dell'appartamento. Invece io sbaglio, l'acido mi cola tra le mani e scappiamo, lasciando la tanica inesplosa. Da quel giorno ho il dubbio su cosa sia davvero successo dopo. Non abbiamo mai pensato di far scivolare la benzina sotto la porta per dar fuoco all'appartamento. Mai. Tutte le perizie ci hanno dato ragione, tra l'altro » .

Dice che eravate in quattro, in via Bibbiena. E gli altri due?
«Ga eta e la Perrone erano rimasti a casa. Non c'era bisogno di sei persone. Comunque anche loro parteciparono a tutta l'operazione, furono loro a preparare il cartello di rivendicazione » .

E la scamparono, lei dice, grazie al famoso patto del silenzio ideologico.
«Io finii subito in carcere, ci rimasi due anni, ma ben presto cominciarono ad avvenire cose strane. Come è noto, una buona parte della sinistra romana si era mobilitata nella mia difesa. I socialisti chiesero all'avvocato Adolfo Gatti di entrare nel collegio difensivo. Poi, improvvisamente, Gatti si ritirò, per diventare il legale di Gaeta e della Perrone, che erano stati chiamati come testimoni. La cosa puzzava molto. Un giorno venne in carcere a trovarmi Umberto Terracini, il senatore del Pci. Uscì su tutti i giornali. Riservatamente mi disse: Lollo, entro io nel collegio difensivo, perché questo ritiro di Gatti mi sembra tanto una operazione di svendita dei tre capi espiatori » .

Gatti e Terracini sono morti. Non potranno confermare.
«E' andata così. Che la cosa si stesse negoziando segretamente con il procuratore Sica ( pm all'epoca, ndr ) mi parve ancora più evidente quando lui venne a trovarmi in carcere, proponendomi di denunciare l'intero vertice di Potop, i vari Morucci, Piperno e Pace, come mandanti della strage di Primavalle. In cambio della libertà provvisoria. Io rifiutai. Mi dia l'ergastolo, se vuole, risposi. Nessun altro aveva alcuna responsabilità sull'episodio, solo noi sei del collettivo » .

Insomma, lei sospettò che Gaeta e la Perrone avessero, diciamo così, svenduto voi tre ai giudici in cambio dell'impunità. E perché lei mantenne il silenzio ugualmente?
«Io ero un comunista e credevo ai patti, a quell'epoca a queste cose si credeva fino in fondo. E poi il processo era apertissimo, tanto che in primo grado venimmo tutti assolti. Il mio avvocato ( Tommaso Mancini, ndr) voleva che parlassi, riteneva che sarebbe stato meglio ammettere l'incidente, la dolosità dell'incendio. Ma io non ho mai aperto bocca. Fino ad oggi, diciamo » .

Perché fare adesso tre nomi nuovi? E' una forma di vendetta?
«Nemmeno per sogno. I trent'anni del patto erano scaduti nel 2003, ma poi ho preferito far arrivare la prescrizione, proprio per non mettere nei guai nessuno. Oggi parlo perché credo che questo aiuti la causa dell'amnistia, della soluzione politica. Non possiamo più avere scheletri nell'armadio. E poi basta con il mostro Lollo, che fa la bella vita da 32 anni. E quelli che fanno una bella e tranquilla vita borghese romana da 32 anni?» .

Lei sospetta che ci fu una divisione di classe nella scelta dei tre imputati?
«Gaeta, la Perrone e la Lecco venivano da un certo ambiente sociale, figli di professionisti e intellettuali. Io, Grillo e Clavo eravamo della piccola borghesia. C'è chi viveva a piazza Farnese e chi a Primavalle. Faccia lei » .

Comunque anche Gaeta e la Perrone vennero indagati.
«Sì, ma divennero quasi subito testimoni. E il nome di Elisabetta Lecco sparì del tutto, pur avendo fatto parte del commando, era nella 500 con noi. Venne manipolata per creare un alibi agli altri due. All'epoca, le ricordo, non c'era mica la legge sui pentiti. Le cose avvenivano in off » .

Lollo, insieme alle rivelazioni sui complici, questa è la prima volta che ammette la sua colpevolezza sulla morte dei fratelli Mattei. Però resta qualcosa in sospeso. Non crede che sia il momento di chiedere perdono?
«Noi non abbiamo incendiato la casa dei Mattei. Ci sono troppe cose strane avvenute quella notte. Nessuno fece scivolare la benzina sotto la porta. L'innesco non si accese. E poi loro non vennero colti nel sonno, ci stavano aspettando. Da dietro la porta, prima di scappare, sentii una voce: " Eccoli, arrivano...". Una voce che ho in testa da 30 anni. Quel pomeriggio un testimone mi sentì telefonare da un bar a casa Mattei (Angelo Lampis, missino, poi arrestato, ndr ). Il giorno prima la figlia dei Mattei mi beccò durante una perlustrazione nella palazzina e mi riconobbe. " A' ma', ce sta' quello de Potere operaio". Insomma, non fu una sorpresa, secondo me loro sapevano che stavamo arrivando » .

Mica penserà che i Mattei si diedero fuoco alla casa da soli?
«Non so cosa pensare. Ma non mi sto dichiarando innocente. Sto dicendo che non so cosa ha dato fuoco alla benzina. E se mi avessero dato otto anni invece di sedici li avrei scontati, senza scappare. Lo dissi a mio padre: sono pronto ad andar dentro, prenderò al massimo sei- sette anni, perché ho fiducia che le indagini ricostruiranno i fatti. Invece ho dovuto farlo io, dopo 32 anni ».

Rocco Cotroneo
10 febbraio 2005

 


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