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Anno 501 la conquista continua (indice)


PARTE TERZA.
LA STESSA VECCHIA STORIA.


Capitolo 7.
VECCHI E NUOVI ORDINI MONDIALI.

6. IL FONDAMENTALISMO MONETARIO INTERNAZIONALE.

Si potrebbe obiettare che, malgrado i suoi indubbi vantaggi, il Brasile non è la migliore zona di esperimenti per dimostrare le virtù delle dottrine neoliberiste, che il 'capitalismo di stile americano' vuole imporre ai paesi che 'meritano di essere sfruttati'. Forse sarebbe meglio tentare con il Venezuela, un paese ancora più fortunato con le sue straordinarie risorse naturali, tra le quali le più ricche riserve di petrolio al di fuori del Medioriente. Gettiamo quindi uno sguardo sulla storia di questo altro successo del capitalismo.

In un'approfondita ricerca accademica sulle relazioni tra Stati Uniti e Venezuela, Stephen Rabe scrive che dopo la Seconda guerra mondiale, gli Usa "sostennero attivamente il regime feroce e corrotto di Juan Vicente G¢mez", che aprì il paese allo sfruttamento straniero. Il Dipartimento di Stato, intravedendo la possibilità di stabilire una "egemonia economica Usa in Venezuela", mise da parte, come sempre in questi casi, la politica della 'Open Door' ed esercitò forti pressioni su quel governo perché bloccasse le concessioni petrolifere date alle società inglesi (mentre gli Stati Uniti continuavano a richiedere - e ad ottenere - diritti petroliferi nel Medioriente, dove invece avevano una certa preminenza gli inglesi ed i francesi). Nel 1928, il Venezuela era diventato il maggiore esportatore mondiale di petrolio, sotto la supervisione delle compagnie americane. Durante la Seconda guerra mondiale, gli Usa accettarono la richiesta venezuelana per una spartizione dei profitti al 50%. L'effetto, come previsto, fu una vasta espansione della produzione e "notevoli profitti per l'industria petrolifera [Usa]", che assunse il controllo dell'economia del paese e delle "principali decisioni economiche" in tutti i settori. Durante la dittatura del 1949-1958 del bandito omicida Pérez Jiménez, "i rapporti tra gli Usa e il Venezuela furono armoniosi ed economicamente vantaggiosi per gli uomini d'affari americani"; le torture, il terrore e la repressione generalizzata passarono sotto silenzio dietro il solito pretesto della guerra fredda. Nel 1954, il presidente Eisenhower conferì al dittatore venezuelano l'onorificenza della 'Legion of Merit'. La motivazione ricordava come "la sua sana politica economica e finanziaria ha facilitato l'espansione degli investimenti stranieri, e la sua amministrazione ha quindi contribuito al maggiore benessere del paese ed al rapido sviluppo delle sue immense risorse naturali" - e, casualmente, a fornire enormi profitti alle imprese Usa che gestivano il Venezuela, alle quali si erano aggiunte anche le società siderurgiche. Per citare solo un esempio, circa la metà dei profitti della "Standard Oil" del New Jersey provenivano dalla sua consociata venezuelana.

Nel secondo dopoguerra, gli Usa seguirono nel Venezuela la loro solita politica di assumere il pieno controllo dell'esercito "per espandere l'influenza politica e militare Usa nell'emisfero occidentale e forse per rafforzare le industrie belliche [americane]" (Rabe). Come spiegò in seguito l'ambasciatore ai tempi di Kennedy, Allan Stewart: "Le forze armate, filo-Usa ed anticomuniste, sono strumenti essenziali per il mantenimento della nostra sicurezza". Stewart illustrò anche la sua tesi con il caso di Cuba, dove le "forze armate si disintegrarono" al momento della rivoluzione mentre altrove "sono rimaste intatte e capaci di difendere sé stesse e gli altri dai comunisti", come dimostrato dal diffondersi in tutto l'emisfero di regimi 'per la sicurezza nazionale' nelle mani dei militari. L'amministrazione Kennedy, commenta Rabe, aumentò l'assistenza all'esercito venezuelano per le "operazioni di sicurezza interna contro la sinistra", inviando anche consiglieri militari, come nel Vietnam. In questo quadro l'ambasciatore americano Stewart sollecitò il governo venezuelano a "pubblicizzare" gli arresti degli estremisti, per dare una buona impressione sia a Washington che ai venezuelani (cioè, a quelli che contano).

Nel 1970, il Venezuela perse la sua posizione di maggiore esportatore di petrolio, a vantaggio dell'Arabia Saudita e dell'Iran. E come avvenne in Medioriente, Caracas nazionalizzò il suo petrolio (ed i suoi giacimenti di ferro) in un modo molto soddisfacente per Washington e per gli investitori Usa, che "trovarono il paese, recentemente arricchitosi, assai ospitale" nei loro confronti, scrive Rabe e "uno dei più straordinari mercati del mondo", secondo un funzionario del Dipartimento del Commercio (15).

Il ritorno al potere del socialdemocratico Carlos Andrés Pérez nel 1988 suscitò qualche preoccupazione negli Usa, ma queste si dissiparono subito quando egli lanciò un programma di riaggiustamento strutturale approvato dal Fondo Monetario Internazionale, che poi difese strenuamente malgrado le proteste, spesso violente, come quella del febbraio 1989 in cui 300 persone furono uccise dalle forze di sicurezza nella capitale Caracas.

Sebbene se ne parlò poco negli Stati Uniti, in realtà le contestazioni al piano del governo proseguirono con un'ondata di scioperi tale da suscitare il timore che il paese stesse scivolando verso 'l'anarchia'. Tre studenti furono uccisi alla fine del novembre del 1991 negli attacchi della polizia a pacifiche manifestazioni; due settimane dopo, la polizia caricò di nuovo con i gas lacrimogeni un corteo di 15 mila persone riunitesi a Caracas per protestare contro le politiche economiche di Pérez. Nel gennaio del 1992, la principale federazione sindacale pronosticò serie difficoltà economiche e gravi conflitti sociali come risultato del programma neoliberista del governo. Questi aveva causato 'una diffusa povertà' incluso un calo del 60% in tre anni del potere d'acquisto dei salari, mentre i gruppi finanziari e le multinazionali andavano a gonfie vele (16).

Si era avverato un altro 'miracolo economico': "Un tesoro colmo di riserve straniere, l'inflazione al livello più basso in cinque anni ed un'economia che cresce al ritmo più elevato delle Americhe, del 9,2% nel 1991", scrive il corrispondente del "Times", James Brooke, notando anche alcune delle usuali pecche, tra le quali il crollo dei salari minimi reali a Caracas ridottisi al 44% di quelli del 1987, un peggioramento dei livelli di nutrizione ed una "scandalosa concentrazione della ricchezza", secondo un deputato della destra citato da Brooke. Altri difetti sarebbero venuti alla luce negli Usa alcune settimane dopo, in seguito ad un tentativo di colpo di stato; tra questi, il riconoscimento da parte dello stesso governo che, in un paese così ricco, solo il 57% dei venezuelani poteva permettersi più di un pasto al giorno. Altri 'difetti' del miracolo venezuelano, prima ignorati, emersero nell'agosto del 1991 dalla relazione di una Commissione presidenziale sui diritti dei bambini. Secondo il rapporto, la percentuale di cittadini venezuelani sotto "la soglia di povertà, definita come impossibilità di soddisfare almeno la metà delle esigenze nutritive fondamentali", era passata dall'11% della popolazione nel 1984 al 33% nel 1991; inoltre il reddito reale pro capite era calato del 55% dal 1988 al 1991, con una velocità di caduta doppia rispetto al periodo 1980-1988 (17).

Il 4 febbraio del 1992, venne schiacciato un altro tentativo di colpo di stato militare. Ma "pochi gioirono", scrive l'"Associated Press". "Il tentato golpe è giunto al culmine di un crescendo di rabbia e frustrazione per le riforme economiche che hanno fatto registrare notevoli successi a livello macroeconomico, ma che non hanno migliorato i livelli di vita della maggior parte dei venezuelani e anzi ne hanno esasperato molti" ("Financial Times"). Il colpo di stato, scrive Brooke, era stato "accolto con silenziosa simpatia da una grossa parte della popolazione", particolarmente nelle zone povere ed operaie. Come i tecnocrati brasiliani, Pérez si era comportato molto bene "tagliando i sussidi, privatizzando le aziende statali e aprendo un'economia chiusa alla concorrenza straniera". Ma qualcosa inspiegabilmente era andato storto. Il ritmo di crescita era sì notevole, "ma gli analisti economici per la maggior parte sono d'accordo nel ritenere che gli alti prezzi del petrolio registratisi nel 1991 avevano alimentato la crescita economica del Venezuela assai più delle misure di austerità di Pérez", riferiva Stan Yarbro, e nessuno può mancare di osservare che "la nuova ricchezza non ha raggiunto le classi medie e basse venezuelane, il cui livello di vita è anzi sceso drammaticamente". Inoltre la mortalità infantile, come dice un prete che da 16 anni lavora nei quartieri poveri, "è esplosa negli ultimi due anni come conseguenza della malnutrizione crescente e di altri problemi sanitari nelle baraccopoli". E' vero che c'è molta "nuova ricchezza", ma per la maggior parte viene "canalizzata in programmi finanziari speculativi invece che in nuovi investimenti industriali. Nel 1991 il reddito derivante dagli immobili e dai servizi finanziari quasi raggiunse i profitti del settore industriale" (18).

Quindi in Venezuela c'è stato un tipico miracolo economico, creato in condizioni insolitamente favorevoli, seguendo le indicazioni delle dottrine neoliberiste predicate con tanto fervore dai gran sacerdoti di quello che Jeremy Seabrook chiama il nuovo "fondamentalismo monetario internazionale" (19).


Note:

N. 15. Rabe, "Road". Krenn, "U.S. Policy", sul periodo precedente.
N. 16. "Excelsior" (Città del Messico), 11, 21 novembre; 4 dicembre 1991; 30 gennaio 1992 (LANU).
N. 17. Brooke, '"New York Times"', 21 gennaio. "Associated Press", "New York Times", 5 febbraio. Douglas Farah, "Boston Globe", 10 febbraio. Stan Yarbro, "Christian Science Monitor", 12 febbraio 1992.
N. 18. "Associated Press", "New York Times", 5 febbraio. Joseph Mann, "Financial Times", 5 febbraio. Brooke, "New York Times", 9 febbraio. Yarbro, "Christian Science Monitor", 11, 12 febbraio 1992.
N. 19. Seabrook, "Race & Class", Londra, 34.1, 1992 .


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