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Noam Chomsky
La colonizzazione del Medio Oriente:
le sue origini e il suo profilo




"Si fa quello che diciamo noi"


Ben più di un anno è trascorso dall'accordo tra Israele e Arafat del settembre del 1993, suggellato dalla Dichiarazione dei principi (Ddp). I firmatari hanno ricevuto i loro premi Nobel per la pace. Il significato sostanziale di ciò che hanno firmato si è fatto più chiaro nel tempo, man mano che le ambiguità si andavano diradando. E un buon momento per riflettere sull'accaduto e sul perché, e per chiederci quale sarà il probabile esito del "processo di pace".

Presi alla lettera, i termini della Ddp aderiscono strettamente alle posizioni che Stati Uniti e Israele hanno sostenuto costantemente e, per oltre vent'anni, in isolamento praticamente totale. Gli Stati Uniti e i loro protetti-alleati che dominano la regione, interpretano i termini rigorosamente alla lettera, come mostrano successivi sviluppi – e la cosa non sorprende più di tanto se si considera che sono stati loro a fabbricare ad arte e imporre questi termini. Questa posizione si colloca all'interno di una più ampia concezione statunitense riguardo al modo in cui la regione andrebbe organizzata, concezione che risale alla seconda guerra mondiale. Pur avendo mantenuti fermi a lungo i propri principi, è stato solo in anni recenti che Washington ha potuto metterli effettivamente in pratica. Mi sembra questa la sostanza dell'attuale "processo di pace".

La stessa espressione "processo di pace" è un orwellismo standard, impiegato acriticamente negli Stati Uniti e adottato in buona parte del mondo, data l'enorme influenza e potenza degli Usa. In pratica, il termine si riferisce a qualunque cosa la leadership degli Stati Uniti è impegnata a fare sul momento – che, spesso, consiste proprio nel minare il processo di pace nel senso letterale dell'espressione, come un analisi dei fatti rende piuttosto chiaro.

La guerra del Golfo ha stabilito il dominio degli Stati Uniti nel Medio Oriente a un livello mai raggiunto prima, dando la possibilità a Washington di organizzare il "processo di pace" in accordo con le proprie linee guida, a partire dagli incontri di Madrid nell ottobre del 1991. E proprio da qui che bisognerebbe iniziare una seria analisi della recente attività diplomatica.

Mentre bombe e missili piovevano su Baghdad e i soldati di leva iracheni si nascondevano nel deserto, George Bush annunciò orgogliosamente lo slogan del Nuovo Ordine Mondiale, in quattro semplici parole: "What We Say Goes", ossia "si fa quello che diciamo noi". "Quello che diciamo noi" venne presto esplicitato con non minore chiarezza quando le armi tacquero, e Bush torno alla vecchia prassi di prestare aiuto e sostegno a Saddam Hussein mentre quest'ultimo impietosamente soffocava le rivolte sciite e crude sotto gli occhi delle vittoriose forze alleate, che non si degnarono di alzare anche un solo dito. Il sostegno a Saddam era così estremo che il comando degli Stati Uniti non fu disposto nemmeno a concedere ai generali iracheni ribelli di impiegare gli armamenti sequestrati per difendere la popolazione dalla carneficina del dittatore. Un piano saudita per sostenere la rivolta degli indigeni sciiti venne rapidamente soffocato dall'amministrazione Bush.

Il significato del Nuovo Ordine Mondiale non avrebbe potuto essere espresso in modo più chiaro. La reazione che gli è stata tributata getta anche luce sull'attuale stato della cultura occidentale: per lo più applausi per la politica dei nostri leader.

Le ragioni della tollerante posizione di Washington nei confronti della carneficina vennero spiegate per grandi linee, all'epoca, da eminenti analisti: le atrocità di Saddam ci addoloravano, certamente, ma erano necessarie al fine della "stabilità" – altro utile termine del discorso politico, che va letto come "qualunque cosa sia nell'interesse del potere".

La posizione ufficiale venne delineata da Thomas Friedman, allora capo corrispondente diplomatico del New York Times. Washington aveva sperato nel "migliore dei mondi possibili", spiego Friedman: "una giunta irachena dal pugno di ferro senza Saddam Hussein". Tale giunta avrebbe restaurato il precedente status quo, in cui il "pugno di ferro [di Saddam] [...] teneva unito l'Iraq, con grande soddisfazione degli alleati americani, Turchia e Arabia Saudita" – e, ovviamente, del boss a Washington. Ma questo auspicabile esito si era rivelato impraticabile, cosicché i padroni della regione avevano dovuto accontentarsi della seconda migliore alternativa a disposizione: lo stesso "pugno di ferro" al quale avevano dato forza mentre torturava i dissidenti e uccideva col gas i curdi, tutte cose perfettamente accettabili finché il criminale al potere si era attenuto agli ordini sulle questioni fondamentali. Solo pochi mesi prima che Saddam conquistasse il Kuwait, George Bush colse l'occasione della sua invasione di Panama per annunciare l'intenzione di sollevare il divieto sui prestiti all'Iraq, intenzione messa in pratica poco tempo dopo, per raggiungere l'"obiettivo di accrescere le esportazioni statunitensi e metterci in una migliore posizione per trattare con l'Iraq riguardo ai suoi precedenti in fatto di diritti umani [...]", come spiego il Dipartimento di Stato imperturbabile alle poche interrogazioni provenienti dal Congresso. I principali media e i giornali di maggior diffusione trovarono l'intera faccenda indegna di essere commentata o perfino riportata.

E' sicuro che non tutti considerarono la restaurazione della "Bestia di Baghdad" o di qualche suo accettabile clone come il "migliore dei mondi possibili": i dissidenti iracheni, per esempio. Ahmed Chalabi, banchiere residente a Londra, condanno aspramente la posizione di Washington: "gli Stati Uniti, coprendosi dietro alla foglia di fico della non interferenza negli affari iracheni, aspettano che Saddam massacri i rivoltosi nella speranza che egli possa in seguito venire rovesciato da un funzionario accettabile" – egli disse – un atteggiamento radicato nella prassi statunitense di "sostenere la dittatura per conservare la stabilità".

Il popolo degli Stati Uniti venne tenuto all'oscuro di queste note discordanti, come era avvenuto durante la crisi. Le voci dei dissidenti iracheni potevano essere ascoltate solo dai lettori della poco diffusa stampa dissidente, che pubblicò ciò che si poteva apprendere dalle fonti estere, e da quanti parteciparono a convegni pubblici organizzati da gruppi di pace e giustizia, che offrirono ai leader dell'opposizione irachena in visita dall'Europa un foro ben disposto. Anche questi sono fatti sgraditi, e perciò riposti come al solito nel dimenticatoio in favore di una versione alquanto audace che capovolge completamente fatti facili da stabilire, una storia interessante sulla quale non starò qui a dilungarmi.

I portavoce ufficiali degli Stati Uniti confermarono che l'amministrazione Bush non era intenzionata a parlare con i leader dell'opposizione: "Abbiamo reputato che un incontro politico con loro [...] non sarebbe al momento appropriato per la nostra linea", affermò il 14 marzo Richard Boucher, portavoce del Dipartimento di Stato. Il sistema dell'informazione ne convenne e continuò a bandire gli autentici dissidenti iracheni dai principali mezzi di informazione. Fu solo in aprile, ben dopo la fine delle ostilità, che il Wall Street Journal, – di questo gli va dato atto – ruppe i ranghi e offrì spazio a un portavoce dell'opposizione democratica irachena – sempre Chalabi – il quale descrisse la situazione che si era venuta a creare come "il peggiore dei mondi possibili" per il popolo iracheno, la cui tragedia è "spaventosa".

Secondo la versione standard, tracciata per grandi linee, alcuni giorni dopo, da Alan Cowell, corrispondente dal Medio Oriente del New York Times, i ribelli avevano fallito perché "pochissime persone fuori dell'Iraq volevano che vincessero". Gli Stati Uniti e i "loro partner della coalizione araba" erano giunti a "una visione eccezionalmente unanime", spiegò: "qualsiasi siano le colpe del leader iracheno, egli offriva all'Occidente e alla regione una più consistente garanzia di stabilità per il suo paese di coloro che avevano subito la sua repressione". La conclusione è sostenibile se intendiamo escludere dal novero delle "persone" di cui parlava Cowell i dissidenti iracheni e la popolazione dei "partner della coalizione araba", almeno quella dell'Egitto, il solo paese abbastanza libero da permettere ad alcune di tali persone di far udire la propria voce. E' vero, tuttavia, che la "visione unanime" e condivisa dalle persone che contano: Washington, le redazioni dei notiziari e delle rubriche, e le dittature della regione. E' condivisa anche da Turchia e Israele, la prima preoccupata dalla propria popolazione curda sottoposta a brutale repressione, la seconda timorosa che l'autonomia curda in Iraq avrebbe potuto "creare una contiguità territoriale e militare tra Teheran e Damasco", venendo a costituire un potenziale "pericolo per Israele" (Mose Zak, caporedattore dell'importante quotidiano Ma'ariv, mentre spiegava per quale motivo parte dei vertici del comando militare e un ampio settore dell'opinione politica, compresi leader delle colombe, avessero accordato il loro sostegno a Saddam). Le preoccupazioni della Turchia hanno ricevuto qualche menzione, ma non la reazione di Israele, che contrasta troppo nettamente con l'immagine che si è voluta dare.

Ora si è ammesso, per inciso, che quando il suo amico disobbediente invase il Kuwait, l'amministrazione Bush prevedeva che si sarebbe ritirato, lasciando al potere un regime fantoccio – ossia, una replica di quello che gli Stati Uniti avevano appena fatto a Panama. Certo, nessun parallelo storico e mai del tutto esatto. In un incontro ad alto livello immediatamente dopo che Saddam aveva invaso il Kuwait, il capo di stato maggiore, Colin Powell, espresse parere sfavorevole a proposito dell'intervento militare sulla base del fatto che il popolo americano "non vuole che i suoi giovani muoiano per avere il petrolio a 1 dollaro e mezzo". "Nei prossimi giorni l'Iraq si ritirerà", disse, lasciando "il suo fantoccio al potere. Tutti nel mondo arabo saranno contenti". Al contrario, quando Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo aver messo il suo fantoccio al potere, molti furono tutt'altro che felici (nel sud del mondo). L'impresa criminosa di Washington a Panama suscitò grande rabbia in tutto l'emisfero, a tal punto che il regime fantoccio venne espulso dal Gruppo delle otto democrazie latinoamericane in quanto paese sottoposto a occupazione militare. Come osserva il latino americanista Stephen Ropp, Washington era pienamente consapevole del fatto "che rimuovere il manto della protezione americana avrebbe presto condotto al rovesciamento civile o militare di Endara e dei suoi sostenitori" vale a dire, il regime fantoccio di banchieri, uomini di affari e narcotrafficanti instaurato dall'invasione di Bush. Perfino la Commissione per i diritti umani di quello stesso governo ha denunciato la protratta violazione del diritto all'autodeterminazione e alla sovranità del popolo panamense attraverso lo "stato di occupazione da parte di un esercito straniero", quattro anni dopo l'invasione.

A parte simili fatti (non riportati), l'analogia può sussistere – o, almeno, potrebbe sussistere, se fosse possibile spiegarla o anche solo parlarne attraverso i principali mezzi di informazione.

Gli interessi di Washington spiegano perché ha dovuto bloccare ogni iniziativa che avrebbe potuto condurre a un ritiro negoziato iracheno, come in effetti ha fatto; e perché i mezzi di comunicazione internazionali hanno dovuto nascondere i fatti concernenti le opportunità di soluzione diplomatica, come in effetti hanno fatto, e con notevole efficienza, nonostante talvolta si sia ammesso tacitamente che i fatti erano noti. Vi è un'ampia letteratura critica riguardo al comportamento dei mezzi di informazione durante la guerra, ma anch'essa evita questo argomento, che evidentemente è quello cruciale. Quanto fosse importante tenere segreti i fatti diviene particolarmente chiaro quando scopriamo che alla vigilia del bombardamento, la popolazione americana, in proporzione di circa 2 a 1, era favorevole a un accordo basato sul ritiro delle truppe irachene in considerazione dei problemi della regione, non sapendo di una proposta irachena orientata in tal senso di qualche settimana prima, o del sommario rifiuto che essa aveva ricevuto a Washington. Sugli stessi standard si mantengono gli attuali studi accademici sulla vicenda, altra storia interessante che qui metterò da parte. In modo simile, gli archivi dei documenti sollevati dal segreto di Stato, pieni di informazioni in abbondanza sull'accaduto, vengono ignorati dagli studi accademici più ammirati come sono stati completamente ignorati dai media. Solo ai margini si trovano eccezioni allo schema.

Sulla scorta del ben assimilato principio di Tacito secondo cui "il crimine una volta scoperto non ha altro rifugio se non la sfrontatezza", questo misero comportamento viene ora generalmente considerato un esempio di come il sistema democratico promuova un'accurata, deliberata e sobria divulgazione di tutti gli aspetti delle questioni cruciali prima che vengano prese decisioni importanti.


La concezione strategica


La guerra del Golfo ha avuto luogo sullo sfondo di importanti mutamenti nell'economia internazionale e nelle vicende mondiali che hanno offerto agli Stati Uniti l'opportunità di riorganizzare la parte del mondo che non aveva incontrato il suo gradimento dalla fine della seconda guerra mondiale. Tra le ceneri della catastrofe, gli Stati Uniti sono riusciti a espellere dall'emisfero i loro principali rivali, la Francia e la Gran Bretagna, e a mettere in pratica la dottrina Monroe. Negli anni novanta, in effetti, gli Stati Uniti sono finalmente riusciti a estendere l'applicazione della dottrina Monroe al Medio Oriente. Per comprendere quali siano le implicazioni di ciò per la regione, bisogna dissipare la nebbia dell'ideologia e vedere in che modo la dottrina veniva concretamente intesa dai suoi ideatori. Prendiamo solo l'amministrazione Woodrow Wilson, al culmine del suo "idealismo" in politica estera. La dottrina Monroe si basa sul "semplice egoismo", spiegò in privato il segretario di Stato Robert Lansing, e nel sostenerla gli Stati Uniti "badano ai propri interessi. L'integrità di altre nazioni americane è un caso fortuito, non un fine". Il presidente ne convenne, aggiungendo che sarebbe stato "imprudente" mettere il pubblico a parte del segreto. Questa applicazione dell'"idealismo wilsoniano" è semplicemente ragionevole, aggiunse il segretario degli interni, perché i latinoamericani sono "bimbi indisciplinati che si avvalgono di tutti i privilegi e diritti degli adulti", e questo loro comportamento richiede "una mano ferma, una mano autorevole".

Acquisire il controllo unilaterale delle regioni medio orientali produttrici di petrolio non è un obiettivo di poco conto. Quando gli Stati Uniti divennero una vera e propria superpotenza negli anni quaranta, la leadership politica vide la regione come l'"area strategicamente più importante del mondo" (Eisenhower), "una enorme fonte di potere strategico, e uno dei maggiori obiettivi materiali della storia del mondo" oltre che "probabilmente il più ricco obiettivo del mondo nel campo degli investimenti stranieri" (Dipartimento di Stato, anni quaranta) un obiettivo che gli Stati Uniti intendevano tenere per sé e per il loro alleato britannico, nel Nuovo Ordine Mondiale che si andava allora dispiegando.

Da allora, gli Stati Uniti si sono attenuti a una concezione strategica per la regione che avevano ereditato dal loro predecessore britannico. Il grande "obiettivo materiale" deve essere gestito da amministratori locali, dittature familiari deboli e dipendenti, disposte a fare ciò che gli si dice di fare. Tali dittature costituiscono quello che i pianificatori imperialisti britannici avevano chiamato la "facciata araba", edificata per consentire alla Gran Bretagna di governare dietro a varie "finzioni costituzionali" dopo aver concesso una garanzia di indipendenza nominale. Gli amministratori possono essere brutali e corrotti finché vogliono, a patto di svolgere la propria funzione. Sotto questo aspetto essi rientrano in una impressionante collezione di tiranni e assassini: i vari dittatori militari latinoamericani, Suharto, Marcos, Mobutu, Ceaucescu, e molti altri criminali alla stessa stregua. E' difficile immaginare un crimine che potrebbe farli espellere da questo club. Perfino Stalin venne trovato con le carte in regola. Truman stimava e ammirava l'"onesto" leader russo. La sua morte sarebbe stata una "autentica catastrofe", secondo Truman, il quale aggiungeva che avrebbe potuto "trattare con" Stalin fintantoché gli Stati Uniti avessero condiviso la sua strada l'85 per cento delle volte. Quello che Stalin faceva a casa sua non lo riguardava. Altri rispettati personaggi condividevano questo giudizio, compreso Churchill, il cui smaccato apprezzamento per il tiranno sanguinario proseguì nel 1945: "il premier Stalin era uomo di grande forza, nel quale riponeva la massima fiducia", spiegò Churchill al suo gabinetto dopo Yalta, esprimendo l'auspicio che il leader russo rimanesse al comando.

Non c'è nulla di nuovo nel sostegno offerto ai mostri del Medio Oriente e nell'indifferenza per i crimini piu spaventosi se ciò contribuisce a perseguire i più elevati fini della "stabilità". Se non si comprendono queste persistenti caratteristiche della "diplomazia reale", quello che accade nel mondo è destinato a rimanere un mistero.

La "facciata" va protetta dagli abitanti locali, che sono arretrati e incivili, e non sembrano cogliere le ragioni per le quali del "più ricco obiettivo economico del mondo" debbano giovarsi non loro, ma gli investitori occidentali. Di conseguenza, è necessario affidarsi a gendarmi locali per mantenere l'ordine; in momenti diversi, all'Iran, alla Turchia, al Pakistan, e ad altri ancora. La forza statunitense e britannica rimane sullo sfondo, ove necessario. Israele ricade nel secondo di questi livelli di controllo.

Nei corridoi del potere, le idee fondamentali vengono intese abbastanza bene, anche se viene considerato sconveniente parlare in modo troppo schietto; così non ci appropriamo di risorse per noi stessi, ma piuttosto le sottraiamo a potenziali nemici, per autodifesa; indipendentemente dai fatti, noi e i nostri alleati siamo impegnati in "controterrorismo" o "rappresaglia", non in "terrorismo", ecc. Tuttavia, una certa chiarezza emerge dalle nebbie.

Molto impressionato dal successo militare di Israele nella guerra del 1948, lo Stato Maggiore descrisse il nuovo Stato come la principale potenza militare della regione dopo la Turchia, che offriva agli Stati Uniti lo strumento per "acquisire un vantaggio strategico nel Medio Oriente, che avrebbe controbilanciato il declino della potenza britannica nell'area". Dieci anni dopo, il Consiglio di sicurezza nazionale giunse alla conclusione che un "corollario logico" dell'opposizione al crescente nazionalismo arabo "consisterebbe nel sostenere Israele come unica forte potenza filo-occidentale in Medio Oriente". Durante gli anni sessanta, gli analisti statunitensi videro la potenza israeliana come una barriera alle minacce nasseriane alla "facciata", impressione confermata dalla distruzione della forza militare dell'Egitto da parte di Israele nel 1967. La tesi secondo cui Israele poteva servire da "risorsa strategica" per difendere gli interessi e gli alleati degli Stati Uniti dalle forze nazionaliste venne ulteriormente corroborata nel 1970, quando Israele parò quella che si profilava come una minaccia siriana al Regno di Giordania e potenzialmente ai produttori di petrolio. E l'impressione ando crescendo negli anni seguenti.

La tesi della risorsa strategica trovò la sua collocazione naturale all'interno della Dottrina di Nixon, secondo la quale gli Stati Uniti non potevano "più interpretare il ruolo di poliziotto mondiale" e quindi "si attendevano che altre nazioni fornissero più di un poliziotto per perlustrare i propri quartieri" (ministro della difesa Melvin Laird). Il quartier generale della polizia – era inteso – rimaneva a Washington; gli altri dovevano perseguire i propri "interessi regionali" all interno del "quadro globale di ordine" amministrato dagli Stati Uniti, per riprendere il modo in cui Henry Kissinger spiegò il concetto generale agli europei, ammonendoli a non infrangere le regole. I due principali poliziotti incaricati di perlustrare il distretto medio orientale erano Israele e l'Iran, segretamente alleati. Gli studiosi parlano, in genere, di una "strategia dei "due pilastri" per il controllo statunitense, pensando a Iran e Arabia Saudita; che, invece, si sia trattato di una "strategia dei tre pilastri" e apparso chiaro almeno fin dagli anni settanta.

Nel maggio del 1973, il principale specialista del Senato su petrolio e Medio Oriente, il falco democratico Henry Jackson, osservò che il dominio statunitense sulla regione è salvaguardato dalla "forza e dall'orientamento occidentale di Israele sul Mediterraneo e dell'Iran sul Golfo Persico", due "amici affidabili degli Stati Uniti". Questi amici "sono serviti a inibire e contenere quegli elementi irresponsabili e radicali di certi stati arabi che, se gliene fosse stata data la possibilita, avrebbero rappresentato in effetti una grave minaccia alle nostre principali fonti di petrolio nel Golfo Persico". All'epoca, gli Stati Uniti si servivano appena di queste fonti. Il maggiore produttore di petrolio del mondo fino al 1970 fu il Venezuela, che l'amministrazione Wilson aveva preso a controllare come un feudo privato mezzo secolo prima, espellendo la Gran Bretagna, altro esempio dell'"idealismo wilsoniano": in questo caso, della sua dedizione al principio della "porta aperta" e al principio di "autodeterminazione". Anche altre riserve dell'emisfero occidentale erano sostanziose. Ma la sorgente più economica e abbondante di petrolio del mondo, che si trovava appunto nella regione del Golfo, era necessaria come riserva e come leva per dominare il mondo, oltre che per l'ingente ricchezza che ne scaturiva, principalmente per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Se i materiali di archivio venissero resi disponibili, avrebbero sicuramente molto di interessante da dire riguardo alle tacite relazioni intrattenute nel corso degli anni tra la facciata araba e i due principali gendarmi, con i quali era ufficialmente in guerra. Questo è del tutto improbabile in Arabia Saudita e negli Emirati del Golfo, e purtroppo meno probabile di quanto lo fosse un tempo negli Stati Uniti, dopo il passaggio a una censura molto più aspra sotto Reagan, che, a quanto pare, ancora permane; recenti scoperte effettuate dallo storico israeliano Benny Morris destano dubbi anche sugli archivi israeliani. Le relazioni segrete tra Israele e lo Scià sono state ampiamente rivelate, soprattutto in Israele.

Non deve affatto sorprendere che dopo la caduta dello Scià, Israele e Arabia Saudita cominciarono istantaneamente a cooperare nella vendita di armi statunitensi all'esercito iraniano. Lo si è sostanzialmente ammesso in pubblico sin dal 1982. Si era agli stadi iniziali di quello che in seguito sarebbe divenuto noto come lo scandalo delle "armi in cambio di ostaggi", scoppiato quando non fu più possibile nascondere alcuni aspetti della vicenda. Non vi era alcun ostaggio quando ebbe inizio l'operazione statunitense-israeliana-saudita, e alti funzionari israeliani furono abbastanza franchi nello spiegare quello che stava accadendo fin dai primi giorni: un tentativo di ispirare un colpo militare per restaurare il vecchio ordine. Del resto, si trattava solo di una "procedura operativa standard". Il modo abituale di rovesciare un governo civile e di stabilire relazioni con elementi militari, le persone incaricate di sbrigare il lavoro. Il progetto è talvolta coronato da successo; l'Indonesia e il Cile ne sono due esempi recenti. L'Iran si e rivelato un osso più duro.

Vari agenti acquisiscono diritti a seconda del loro ruolo all'interno della generale concezione strategica. Gli Stati Uniti hanno diritti per definizione. Anche i poliziotti di ronda hanno diritti, a meno che non siano negligenti, nel qual caso, se agiscono in modo troppo indipendente, diventano nemici. Gli amministratori locali hanno diritti fintantoché badano ai propri affari. Se ci vuole un "pugno di ferro" per preservare la "stabilità", così sia.

Gli abitanti dei bassifondi del Cairo o dei villaggi libanesi, e altri come loro, non hanno né ricchezza né potere, e quindi nessun diritto, per semplice conseguenza logica. Anche i loro interessi sono "un incidente, non un fine". Nel caso dei palestinesi, essi non solo non hanno diritti ma, peggio ancora, sono un fastidio; la loro infelice sorte è stata un agente irritante con effetto dirompente sull'opinione pubblica araba. Pertanto essi hanno diritti negativi, fatto che spiega molte cose. E' stato necessario incidere quell'ascesso in qualche maniera, con la violenza o in altro modo. L'idea di fondo e che se si riuscisse a sgombrare il campo dalla questione palestinese, dovrebbe essere possibile portare alla superficie le tacite relazioni tra le parti dotate di diritti, ed estenderle, incorporando anche altri paesi in un sistema regionale dominato dagli Stati Uniti nell "area strategicamente [più] importante del mondo".

Questa è sempre stata la logica essenziale del "processo di pace". Il quadro, stabile e durevole, non ci permette di dedurre con assoluta esattezza ciò che accade e probabilmente continuerà ad accadere; le faccende umane sono troppo complesse perché ciò sia possibile. Ma ci consente di arrivarci sorprendentemente vicino.

Fino a poco tempo fa, non è stato possibile imporre appieno la concezione strategica guida, in parte a causa dei limiti del potere degli Stati Uniti, in parte in seguito a problemi determinati dall'impegno a conservare il ruolo cruciale di Israele come "risorsa strategica". Tale ruolo ha assunto maggiori proporzioni tra gli anni settanta e gli anni ottanta, andando ben al di la del Medio Oriente. Questa è stata una delle conseguenze delle iniziative intraprese dal Congresso a partire dai primi anni settanta per imporre condizioni concernenti i diritti umani sulle azioni dell esecutivo; tali iniziative sono uno dei più importanti effetti dei movimenti popolari degli anni sessanta, che modificarono in modo considerevole gli atteggiamenti e la percezione del grande pubblico nei confronti di un ampia gamma di questioni, con considerevole rammarico per l'opinione dell'élite'. I pianificatori ebbero bisogno di ricorrere sempre più spesso a dei surrogati. Per citare un solo illuminante esempio, quando John F. Kennedy decise di spedire la forza aerea statunitense a bombardare il Vietnam del sud, non vi fu un sussurro di protesta; ma quando i reaganiani cercarono di condurre operazioni simili in America centrale, scatenarono una pubblica rivolta, e dovettero limitarsi a massicce operazioni terroristiche clandestine.

In un simile contesto, Israele venne ad assumere nuove funzioni. Perciò, quando le condizioni riguardanti i diritti umani stabilite dal Congresso impedirono al presidente Carter di spedire jet in Indonesia nel 1978, mentre le atrocità a Timor est raggiungevano il culmine, egli poté fare in modo che Israele inviasse jet statunitensi, che sarebbero giunti attraverso un canale libero. I maggiori contributi tuttavia, si ebbero in Africa e Sudamerica, specie da quando l'amministrazione Reagan creò una rete di terrorismo internazionale di imponenti dimensioni, comprendente neonazisti argentini, Taiwan, Sudafrica, Inghilterra, Arabia Saudita, Marocco e altri. Va ricordato che gli operatori di poco conto come Gheddafi ingaggiano terroristi, mentre i pezzi grossi preferiscono ricorrere direttamente a Stati terroristi.

Sulla questione del ruolo centrale di Israele nella politica medio orientale degli Stati Uniti, vi è stato qualche dibattito interno. Ma per varie ragioni, non prive di interesse, la tesi della risorsa strategica si è trovata raramente a fronteggiare gravi minacce. Gli sparuti tentativi di discostarsi da tale tesi sono stati rapidamente soffocati, in gran parte in riconoscimento delle dimostrazioni di valore militare di Israele, che produssero una grande impressione non solo nei leader statunitensi ma anche in un vasto spettro dell opinione intellettuale.

Queste sono alcune delle ragioni per le quali gli Stati Uniti hanno costantemente svilito o piegato gli sforzi diplomatici per risolvere il conflitto nel corso di oltre 20 anni. La maggior parte di tali iniziative avrebbero imposto un qualche riconoscimento dei diritti palestinesi, laddove Washington è ferma nel sostenere che i palestinesi non hanno alcun diritto che possa interferire col potere israeliano. Inoltre, queste iniziative avrebbero portato a un qualche tipo di coinvolgimento internazionale in un accordo; Washington è sempre stata riluttante ad accettare anche questo, nonostante si sia dimostrata disposta a fare un'eccezione per il suo "luogotenente" britannico, per mutuare l'espressione con la quale un influente consigliere di Kennedy spiegò in che modo andava inteso il "rapporto speciale" con l'importante partner. E' stato necessario "assicurarsi che gli europei e i giapponesi non venissero coinvolti nell'azione diplomatica in Medio Oriente", come spiego in privato Henry Kissinger.

Le premesse fondamentali sono cosi profondamente radicate che sono entrate a far parte della stessa terminologia impiegata per inquadrare i problemi. Prendiamo il termine "negazionismo [rejectionism]", che qualora venisse impiegato in senso neutrale dovrebbe riferirsi alla negazione del diritto dell'autodeterminazione nazionale per l'uno o l'altro dei due gruppi che reclamano appunto tale diritto nella ex Palestina: gli abitanti indigeni e i coloni ebrei che li hanno gradualmente sostituiti. Ma il termine non viene impiegato a questo modo. Piuttosto, "negazionisti" sono coloro i quali negano i diritti di uno solo dei contendenti, vale a dire del popolo ebreo: alcuni elementi dell'Olp, il governo dell'Iran e qualcun altro. D'altro canto, quanti negano i diritti dei palestinesi (compresi i due maggiori gruppi politici di Israele, i due partiti politici statunitensi, tutti i governi israeliani e statunitensi, praticamente tutta l'opinione statunitense rappresentata nei mezzi di informazione) sono "moderati" o "pragmatici", perfino "colombe". E ancor più degno di nota, tuttavia, il fatto che, senza alcuna vergogna, le persone e le organizzazioni che vengono considerate "civili e libertarie" possano denunciare come "offensivo" l'"accostamento tra quegli israeliani che si oppongono alla creazione di uno Stato potenzialmente ostile al confine di Israele e quei palestinesi che tuttora propugnano la distruzione di Israele [...]" ossia, il confronto tra coloro che negano il diritto all autodeterminazione ai palestinesi e coloro che negano tale diritto agli ebrei israeliani.

La consuetudine razzista è così saldamente radicata da passare inosservata e risulta incomprensibile quando la si fa notare. Come Orwell osservò nella sua trattazione della "censura [...] deliberata in Inghilterra", lo strumento più efficace e il "generale tacito accordo che "non starebbe bene" menzionare quel particolare fatto"; è compito di una decente istruzione inculcare gli atteggiamenti opportuni. E uno dei fatti che "non starebbe bene" menzionare, o addirittura pensare, e che gli Stati Uniti sono stati a lungo il leader del fronte della negazione.

Vale la pena osservare come la guerra fredda sia stata per lo più una considerazione secondaria, circostanza talvolta ammessa nel dibattito interno. Così nel marzo del 1958, il segretario di Stato John Foster Dulles informò il Consiglio di sicurezza nazionale che né il comunismo né l'Unione Sovietica erano coinvolti nelle tre maggiori crisi mondiali dell'epoca, tutte riguardanti il mondo islamico: il Medio Oriente, il Nordafrica e l'Indonesia. E quando uno dei presenti suggerì che altri avrebbero potuto lavorare per conto dei russi, il presidente Eisenhower fece "vigorosa obiezio- ne", rivela il documento.

Non credo che ci sia nulla da aggiungere su questo punto; lo si sta cominciando ad ammettere, anche ufficialmente, dato che il pretesto non serve più ad alcuno scopo utile. La transizione è stata rapida. A 1989 inoltrato, gli Stati Uniti si stavano difendendo dalla globale aggressione comunista. Alla fine dell'anno, non era più questo ciò che stavano facendo (o che avevano mai fatto). Nel marzo del 1990, la Casa Bianca presentò il suo regolare rapporto al Congresso per spiegare perché il budget del Pentagono doveva venire mantenuto al suo colossale livello, il primo rapporto dopo la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989. La conclusione fu la solita, ma le ragioni stavolta furono differenti: la minaccia non era il Cremlino, ma la "tecnologia sempre più sofisticata" del terzo mondo. In particolare, gli Stati Uniti dovevano mantenere le proprie forze di intervento puntate sul Medio Oriente dato "l'affidamento che il mondo libero fa sulle riserve di energia che si trovano in questa regione chiave", dove le "minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Fatto questo che talvolta è stato riconosciuto negli ultimi anni, o anche prima, se è per questo, come nel 1958. 0 nel 1980, quando l'architetto della forza di intervento rapido (il futuro comando centrale) del presidente Carter, puntata principalmente sul Medio Oriente, testimoniò davanti al Congresso che l'impiego più probabile del dispiegamento militare non era quello di resistere a un attacco sovietico (estremamente poco plausibile), ma di occuparsi delle tensioni indigene e regionali: il "nazionalismo radicale" che ha rappresentato sempre una preoccupazione di primo piano.

Ovviamente, nel Medio Oriente come altrove, i bersagli dell'attacco statunitense si rivolsero ai russi per cercare appoggio, cosa che il Cremlino fu talvolta disposto a offrire per ragioni puramente ciniche e opportunistiche. E la potenza sovietica ebbe un effetto deterrente, come i documenti ripetutamente mostrano. Ma a parte queste precisazioni, rimane vero che "le minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino".

Nel 1991, Washington era nella condizione di raggiungere i suoi obiettivi strategici con poco riguardo per l'opinione mondiale. Non era più necessario minare tutte le iniziative diplomatiche, come Washington aveva fatto per 20 anni. L'Unione Sovietica era scomparsa, e con essa, lo spazio per il non allineamento, un fatto di grande importanza per le vicende mondiali, che ha ricevuto scarsa attenzione a occidente ma è stato accolto con non lieve apprensione nel terzo mondo. In una rivista cilena, il noto autore Mario Benedetti scrisse che "la combinazione dell indebolimento dell'Urss e della vittoria [statunitense] nel Golfo potrebbe rivelarsi tragica [per il sud] a causa della rottura dell equilibrio militare internazionale che in qualche modo serviva a contenere le smanie di dominio statunitense" e perché la provocazione lanciata allo sciovinismo razzista occidentale "potrebbe stimolare imprese imperialiste ancor più selvagge". Lo stato d'animo generale del sud venne fotografato dal cardinale brasiliano Paulo Evaristo Arns, il quale osservò come nelle nazioni arabe "il ricco si è schierato con il governo statunitense mentre i milioni di poveri hanno condannato questa aggressione militare". In tutto il terzo mondo "vi è odio e paura: quando decideranno di invaderci" e con quale pretesto? Se non in modo marginale, nulla di tutto ciò giunge all'occidente, sprofondato nel trionfalismo e nell'autocongratulazione.

La maggior parte del terzo mondo era ad ogni modo piombata nel completo disordine, devastata dalla catastrofe del capitalismo degli anni ottanta. L'Europa ha fondamentalmente abdicato a qualsiasi ruolo nelle faccende del Medio Oriente, garantendo agli Stati Uniti il controllo pressoché totale che avevano a lungo agognato. La guerra del Golfo ha suggellato il patto, stabilendo che "si fa quello che diciamo noi" e mettendo in moto un genuino "processo di pace" – vale a dire un processo saldamente sottoposto al controllo unilaterale degli Stati Uniti.


Lo "stallo"


Ricapitolerò rapidamente le premesse della situazione, a partire dalla guerra del giugno 1967.

L'esito della guerra fu estremamente gradito agli Stati Uniti, visto che venne meno l'influenza nasseriana nella regione (con grande sollievo della "facciata") e Israele assunse il controllo della sponda occidentale, di Gaza, degli altopiani del Golan e del Sinai. Ma la guerra aveva portato il mondo pericolosamente vicino a uno scontro tra superpotenze. Si temevano minacciose comunicazioni sulla "linea calda" tra Washington e Mosca. Il premier sovietico Kosygin a un certo punto ammonì il presidente Johnson che "se volete la guerra, guerra avrete", come riportò anni dopo il ministro della difesa Robert McNamara, aggiungendo la sua opinione che "siamo andati maledettamente vicini alla guerra" quando la flotta degli Stati Uniti "circondò una portaerei [sovietica] nel Mediterraneo"; egli non spiegò i dettagli, ma l'episodio probabilmente risaliva al periodo in cui Israele si impossessò degli altipiani siriani del Golan dopo il cessate il fuoco.

Chiaramente bisognava fare qualcosa. Seguì un processo diplomatico, che condusse alla risoluzione numero 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che da allora ha costituito il quadro di riferimento diplomatico. Nonostante fosse stata deliberatamente formulata in modo vago nella speranza di ottenere l'adesione generale, vi sono pochi dubbi sul modo in cui la risoluzione venne interpretata dal Consiglio di sicurezza, compresi gli Stati Uniti: richiedeva una pace completa in cambio del completo ritiro israeliano, forse con qualche reciproco e minore aggiustamento. Che gli Stati Uniti sostenessero questo consenso internazionale emerge chiaramente dai documenti che sono stati divulgati, e in alcuni casi trapelati, compresa un importante ricostruzione del Dipartimento di Stato. Questa interpretazione della risoluzione 242 venne confermata pubblicamente nel piano Rogers del 1969 presentato dal segretario di Stato William Rogers e approvato dal presidente Nixon, nel quale si era sostenuto che "qualsiasi mutamento dei confini preesistenti non avrebbe dovuto riflettere la portata della conquista e avrebbe dovuto limitarsi a variazioni di poco conto necessarie per la mutua sicurezza".

La 242 non venne attuata. Nonostante tutti avessero firmato, gli stati arabi rifiutarono di accordare una pace completa e Israele rifiutò di ritirarsi completamente. Notate che la 242 e piattamente negazionista: non offre nulla ai palestinesi, che vengono contemplati solo in relazione al problema dei rifugiati.

L'impasse venne rotta nel febbraio del 1971, quando il presidente egiziano Sadat si unì al consenso internazionale, accettando la proposta del mediatore dell'Onu Gunnar Jarring per la pace completa con Israele in cambio del completo ritiro israeliano dal territorio egiziano. Israele accolse di buon grado la dichiarazione dell'Egitto "di essere pronto a intavolare un accordo di pace con Israele", ma lo rifiutò, affermando che "Israele non si ritirerà entro i confini precedenti al 5 giugno del 1967". Questa posizione e stata da allora sostenuta senza deviazioni da entrambi i raggruppamenti politici, le coalizioni basate rispettivamente sul partito laburista e sul Likud.

Sadat, facendo propria la posizione ufficiale degli Stati Uniti, pose Washington di fronte a un dilemma: Washington avrebbe dovuto accettarla, lasciando così Israele da sola tra i principali attori dell opposizione? 0 gli Stati Uniti avrebbero dovuto cambiare politica unendosi a Israele nel loro riiiuto a tutt'oggi unilaterale delle disposizioni della 242 concernenti il ritiro Henry Kissinger preferì quest ultima alternativa, perorando la situazione di "stallo", sulla base di motivazioni così bizzarre che è stato necessario ignorarle, probabilmente a causa dell'imbarazzo; non è il solo caso del genere. Può darsi che la sua principale motivazione fosse quella di soppiantare il suo rivale William Rogers e assumere cosi la direzione del Dipartimento di Stato come stava per fare.

La linea di Kissinger prevalse. Da allora gli Stati Uniti hanno negato non solo i diritti dei palestinesi (all'epoca, forti del consenso interno), ma anche le disposizioni di ritiro della risoluzione 242 così come erano intese dai suoi autori – compresi gli Stati Uniti, contrariamente alle invenzioni successive.

Anche queste sono cose che "non starebbe bene" dire. Pertanto, l'intera vicenda è vietata: espulsa dalla storia.

Nelle sue memorie, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, allora ambasciatore di Israele a Washington, descrive l'accettazione della "famosa" proposta Jarring da parte di Sadat un "fulmine a ciel sereno", una "pietra miliare" sulla via della pace, per quanto inaccettabile perché rimaneva l'"impronta elusiva di Sadat", implicando un "nesso pregiudiziale" tra l'accordo di pace e il ritiro di Israele entro i confini precedenti al giugno del 1967 (in accordo con la 242, così come veniva intesa all'epoca al di fuori di Israele). Negli Stati Uniti, d altro canto, i fatti sono scomparsi. Vengono regolarmente ignorati dai giornalisti e dai commentatori dei principali mezzi di informazione, e abbastanza spesso anche nei lavori accademici. L'esempio più recente è la storia di Mark Tessler, che è più equilibrata della maggior parte delle altre. Nella sua estesa analisi dell'attività diplomatica, non si trova alcun cenno all'ufficiale offerta di pace da parte di Sadat e al rifiuto di Israele, ma una nota a pie' di pagina fa riferimento a un'intervista del 1971 nella quale Sadat informava il redattore di Neurstoeek Arnaud de Borchgrave "che l'Egitto era pronto a riconoscere Israele e a trattare la pace". De Borchgrave informò il primo ministro israeliano Golda Meir "che Sadat avrebbe presto ripetuto la sua offerta di pace all'inviato delle Nazioni Unite Gunnar Jarring", prosegue Tessler, ma la Meir "respinse l'apertura di Sadat".

Questo è tutto per la "famosa pietra miliare". Pochi altri si sono anche solo avvicinati cosi tanto alla realtà.

Il rifiuto della 242 da parte degli Stati Uniti su iniziativa di Kissinger cancellò la questione del ritiro dal "processo di pace". Il problema del negazionismo sorse alcuni anni dopo, quando il consenso internazionale si spostò verso una posizione non negazionista, condivisa anche dai maggiori stati arabi e dall'Olp. Il problema giunse all'apice quando il Consiglio di sicurezza discusse una risoluzione che incorporava il testo della risoluzione 242, ma aggiungeva una disposizione concernente uno Stato palestinese da fondare nella sponda occidentale e nella striscia di Gaza. La risoluzione venne sostenuta dagli "stati del conflitto" arabi (Egitto, Giordania, Siria) e dall'Olp, dall'Unione Sovietica, dall'Europa e dalla maggior parte del resto del mondo. Ad essa posero il veto gli Stati Uniti, che si erano ormai saldamente attestati a capo della frangia più estrema del Fronte della Negazione. Washington pose il suo veto a una risoluzione simile nel 1980. La questione passò allora all'Assemblea generale, che tenne votazioni annuali nelle quali gli Stati Uniti e Israele rimasero isolati all'opposizione (una volta sola in compagnia della Repubblica dominicana); un voto negativo degli Stati Uniti nell'Assemblea equivale a un veto, anche se gli Stati Uniti sono completamente soli, o quasi, come comunemente accade. L'ultima delle regolari votazioni annuali si tenne nel dicembre del 1990, 144-2. Un'altra risoluzione che appoggiava "Il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione" venne presa in esame nel novembre del 1994 (124-2).

Tutto questo è bandito dalla storia, di rado persino riportato, espulso dai documenti in favore di edificanti storie sugli sforzi americani tesi al raggiungimento della pace, contrastati da negazionisti arabi e altri cattivi personaggi, nel quadro, probabilmente, di un cosmico "scontro di civiltà".

La votazione alle Nazioni Unite del 1990 avvenne poco prima della guerra del Golfo che pose gli Stati Uniti nella posizione di imporre, alla fine, la loro forma estrema di negazionismo. L'amministrazione Bush aveva riaffermato quei principi ben prima, nel piano Baker del dicembre del 1989, il quale non faceva altro che appoggiare il piano Shamir-Peres proposto dalla coalizione di governo israeliana nel maggio del 1989. Secondo il piano Shamir-Peres-Baker, gli Stati Uniti e Israele avrebbero selezionato certi palestinesi che avrebbero ricevuto il permesso di discutere l'"iniziativa di Israele", ma nient'altro. Il piano teoricamente era pubblico ma trovò un'eco immediata solo nella stampa dissidente, oltre a essere trascurato o mal rappresentato anche in buona parte dei migliori studi accademici. Si è parlato di una sola delle sue disposizioni, quella relativa alle elezioni, per illustrare ciò che la stampa talvolta definisce la "brama di democrazia" dei leader americani: una democrazia che dovrebbe essere realizzata tramite elezioni da tenersi sotto il controllo militare di Israele mentre buona parte del settore istruito della popolazione giace in prigione senza capi di imputazione.

I termini cruciali del piano Shamir-Peres-Baker erano: 1) che non vi puo essere nessun "altro Stato palestinese nel distretto di Gaza e nell'area tra Israele e la Giordania" (es- sendo gia la Giordania uno "Stato palestinese"); e 2) che "Non vi può essere alcuna variazione nello status di Giudea, Samaria e Gaza [la sponda occidentale e la striscia di Gaza] se non in accordo con le linee guida essenziali del governo [israeliano]", le quali escludono l'autodeterminazione palestinese.

E' importante tenere a mente che questa era la posizione ufficiale dell'amministrazione Bush, che viene regolarmente condannata per la sua aspra posizione anti-Israele. E' coerente con l'estremo negazionismo statunitense degli anni precedenti, ed è il contesto in cui si inquadra il "processo di pace" che l'amministrazione alla fine è riuscita a imporre dopo la guerra del Golfo.

Tutto ciò è inaccettabile dal punto di vista dottrinale, e quindi inesprimibile se non addirittura inconcepibile nella cultura intellettuale estremamente disciplinata. I fatti non sono in discussione, ma sono sovversivi per il potere e così è necessario "uccidere la storia", per mutuare l'appropriato termine che viene usato per descrivere la regolare prassi dei commissari. Dai media, difficilmente provengono obiezioni – anche se alcuni degli eventi sono stati riportati fedelmente, compresi gli eventi del gennaio del 1976 che sono completamente spariti dalla storia ufficiale.

Dal principio degli anni ottanta, la storia divenne semplicemente un'opera buffa, mentre i media dell'élite e la comunità intellettuale si battevano con crescente disperazione "per non vedere" i sempre più evidenti tentativi da parte dell'Olp di passare a un accordo negoziato – occultando anche il fatto, oggetto di ampio dibattito in Israele, che il principale proposito del devastante attacco israeliano in Libano nel 1982 era di minare la minaccia degli sforzi dell'Olp di negoziare un accordo politico.


"La pace del vincitore": gli accordi di Oslo


La Dichiarazione dei principi e i successivi accordi incorporano la versione estrema del negazionismo statunitense-israeliano. L'accordo finale si fonda unicamente sulla risoluzione 242, senza alcun riconoscimento dei diritti nazionali dei palestinesi. Fuori della porta rimane la posizione della maggior parte del resto del mondo: ossia, che accanto alla risoluzione 242, la quale riconosce solo i diritti degli Stati esistenti, andrebbero considerate anche le risoluzioni delle Nazioni Unite che si sono espresse a favore dei diritti palestinesi. Per quanto concerne la seconda questione principale, quella del ritiro, Stati Uniti e Israele sono stati chiari ed espliciti nell'affermare che il ritiro sarà parziale, nella misura che unilateralmente determineranno.

L'esito è completamente in accordo con l'immutata posizione statunitense sul negazionismo e sul ritiro (su quest'ultimo salda sin dal 1971). Ricade anche all'interno della gamma delle varie proposte israeliane che si sono succedute negli anni, dal piano Allon del 1968 che rappresenta la proposta estrema delle colombe, al piano Shamir-Peres-Baker del 1989, e ai piani proposti dal rappresentante dell'estrema destra Ariel Sharon e dal partito laburista nel 1992, che a malapena differiscono. Anche tutto ciò e ben documentato e regolarmente riportato in modo corretto in Israele e in pubblicazioni alternative dissidenti negli Stati Uniti, ma pochi americani hanno potuto avere anche il minimo sentore dei fatti. Ormai, con l'Europa che ha sgombrato il campo, sembra di poter dire lo stesso dei cittadini europei, anche se, non avendo compiuto un'indagine accurata, lo dico con cautela. In questo contesto, non deve sorprendere granché che la Norvegia si sia prestata a fare da intermediario per l'accordo Israele-Arafat, che si è attenuto rigidamente al tradizionale negazionismo statunitense-israeliano.

Per quanto concerne la ragione per la quale Israele ha deciso di rivolgersi al canale di negoziato di Oslo, escludendo gli Stati Uniti finché non è giunto il momento della fanfara (e dei soldi), può darsi che si temesse che un accordo con Clinton nei panni del mediatore non avrebbe avuto alcuna credibilità nel mondo arabo, alla luce dell'avvicinamento della sua amministrazione verso le posizioni dei falchi. Questo allontanamento da una lunga storia di sostegno alla meno estrema forma di negazionismo dei laburisti ha stupito i commentatori israeliani. Sembra che tale condotta sia da attribuire al falco australiano del Medio Oriente Martin Indyk e al Washington Institute for Near East Policy che egli ha fondato dopo aver lasciato l'Aipac, la lobby di Israele a Washington; l'istituto ha avuto un ruolo interessante nella stampa statunitense consentendo ai giornalisti di presentare la propaganda israeliana come un "mero resoconto dei fatti" formulato con le parole di "esperti" forniti dall'istituto.

Un accordo, ovviamente, avviene tra due parti e, perciò, ci si deve anche chiedere perché Arafat ha accettato ciò che rappresentava una completa capitolazione di fronte alle richieste di Stati Uniti e Israele. La risposta più verosimile è che egli deve avervi intravisto l'ultima chance di mantenere la sua posizione di potere all'interno del movimento palestinese. L'Olp si è attirata il disprezzo di buona parte della popolazione dei territori per la sua corruzione e il suo assurdo atteggiamento, e dal 1993, l'opposizione ad Arafat e le istanze di democratizzazione dell'organizzazione avevano raggiunto livelli drammatici, riportati nella stampa israeliana e sicuramente noti alle autorità israeliane, che hanno intravisto la possibilità di siglare un tipo di accordo che avevano sempre desiderato. Come virtuale agente di Israele, Arafat ha potuto conservare il suo feudo, ottenendo anche in tal modo accesso a sostanziosi fondi. Da quanto è dato sapere, sembra che sia stato questo a condurlo a Oslo.

I piani di Sharon e dei laburisti del 1992, ora effettivamente fissati nella Dichiarazione dei principi, si basano sul principio al quale Israele ha aderito fermamente sin dal suo piano Allon del 1968: Israele deve essere in grado di controllare i territori nella misura che reputa utile, comprese le terre e le risorse utilizzabili (in particolare le riserve d'acqua della sponda occidentale, alle quali Israele attinge abbondantemente). I modi il cui il controllo andrebbe esercitato sono stati oggetto di un dibattito strategico che si e sviluppato nel corso degli anni, così come i confini che si desidera va dare alla "Grande Israele". Per quanto concerne la questione dei modi di controllo, la questione più dibattuta e stata quella di determinare se l'autorità vada divisa in termini territoriali o "funzionali", ove quest'ultimo aggettivo sta praticamente a prefigurare una situazione in cui Israele continuerebbe a controllare il territorio e l'autorità palestinese sarebbe responsabile dei palestinesi che si trovano all'interno di tale territorio. Dalla metà del 1995, Israele continua a rimanere attestata sulla posizione secondo cui può esservi tutt'al più una divisione "funzionale" dell'autorità almeno nel 1999: non vi sarà alcun fondamentale "trasferimento di sovranità" ai palestinesi, ha annunciato il ministro degli esteri Shimon Peres alla radio israeliana, e la maggior parte della terra della sponda occidentale rimarrà sotto il controllo dell'esercito israeliano durante tale periodo. Quanto ai confini, i programmi attuali indicano l'intenzione di includere all'interno della "Grande Israele" la Valle del Giordano, circa un terzo della striscia di Gaza, area circostante l'entità nebulosa e in rapida espansione della "Grande Gerusalemme", che si estende ormai a est fino a Gerico; e qualsiasi altra zona Israele scelga di annettersi con la benedizione (e il finanziamento) della superpotenza che la protegge. L'espansione della "Grande Gerusalemme" in effetti spacca la sponda occidentale in "cantoni" in accordo con il piano Sharon; un altro corridoio di accesso alla Giordania colonizzato da israeliani frammenta ulteriormente la regione.

Quando la Dichiarazione dei principi venne annunciata, gli osservatori bene informati riconobbero che non offriva "nemmeno l'accenno di una soluzione al problema di fondo che esiste tra Israele e i palestinesi", né nel breve periodo né strada facendo (il giornalista israeliano Danny Rubinstein). Il suo significato operativo divenne ancora più chiaro dopo l'Accordo del Cairo del maggio 1994, col quale si assicurò che i territori amministrati da Arafat sarebbero rimasti "completamente nell'ovile economico di Israele", come osservò il Wall Street Journal, e che l'amministrazione militare sarebbe rimasta intatta in tutto fuorché nel nome. L'importanza dell'accordo venne immediatamente compresa in Israele. Meron Benvenisti, ex vice sindaco di Gerusalemme e capo del Data Base Project per la sponda occidentale, oltre a essere da molti anni uno dei più scaltri osservatori dell'informazione ufficiale israeliana, commentò che l'Accordo del Cairo, "a tal punto che è difficile credere ai propri occhi nel leggerlo, [...] garantisce all'amministrazione militare l'autorità esclusiva nella "legislazione, aggiudicazione, esecuzione politica"" e "responsabilità per l'esercizio di questi poteri in conformità col diritto internazionale" che gli Stati Uniti e Israele interpretano a proprio piacimento. "L'intero intricato sistema di ordinanze militari [...] conserverà la sua forza, a parte la facoltà di regolamentazione legislativa e quanti altri poteri Israele potrà espressamente garantire" ai palestinesi. I giudici israeliani conservano "poteri di veto su qualsiasi legislazione palestinese "che potrebbe mettere a repentaglio i principali interessi israeliani”", che hanno "la precedenza", e vengono interpretati come Stati Uniti e Israele preferiscono. Pur essendo subordinate alle decisioni di Israele su tutte le questioni di una certa importanza, alle autorità palestinesi viene garantito un dominio di loro esclusiva competenza: esse hanno "responsabilità esecutiva per qualsiasi cosa venga fatta o non fatta", il che significa che acconsentono a caricarsi i gravosi costi dei 28 anni di occupazione, dalla quale Israele ha tratto enorme profitto, e ad assumere una perdurante responsabilità per la sicurezza di Israele. Questo "accordo di resa", osserva Benvenisti, pone in atto le estremistiche proposte di Sharon del 1981 che a suo tempo erano state respinte dall'Egitto.

Dopo un altro accordo Israele-Arafat, un anno dopo, Benvenisti ha commentato che "Arafat ancora una volta ha chinato il capo di fronte all'avversario infinitamente più forte". Egli ha rivisto i termini dell'accordo, che ha lasciato oltre metà della sponda occidentale "all'assoluto controllo israeliano" e ha rimandato la discussione dello status di un altro 40 per cento per diversi anni, durante i quali Israele potrà continuare a servirsi dell'aiuto statunitense per "fabbricare fatti" come di consueto. L'accordo, nota Benvenisti, rescinde la disposizione della Dichiarazione dei principi "secondo cui la sponda occidentale verrà considerata "un'unità territoriale, la cui integrità verrà preservata durante il periodo di interim"". Egli predice che poco cambierà rispetto al periodo dell'occupazione, se non che "il controllo israeliano diverrà meno diretto: invece di gestire gli affari in prima persona, gli "ufficiali di collegamento" israeliani li seguiranno tramite gli impiegati dell'Autorità palestinese". Come la Gran Bretagna durante il suo periodo d'oro, Israele continuerà a governare al riparo di "finzioni costituzionali". Di certo non c'è nessuna innovazione; si tratta dello schema tradizionale di conquista attuato dagli europei nella maggior parte del mondo.

La situazione è ancora peggiore a Gaza, dove i servizi di sicurezza israeliani (Shabak) rimangono "una forza invisibile ma violenta, la cui oscura presenza si avverte costantemente, ed esercita un potere letale sulle vite degli abitanti di Gaza", riporta il corrispondente di Ha'aretz Amira Hass, aggiungendo che le autorità israeliane continuano a controllare anche l'economia. Dal 1991, osserva Graham Usher, Israele ha riconvertito la tradizionale produzione di frutta e verdura di Gaza alla produzione di piante ornamentali e fiori tramite varie misure coercitive, tra le quali le confische che hanno ridotto di quasi un terzo la terra da agrumi coltivabile. Lo scopo è solo in parte quello di sottrarre territorio di un certo valore al controllo arabo. Israele intende anche "assorbire l'urto del commercio di Gaza con altre economie, o meglio, custodirlo all'interno del commercio israeliano". L'esportazione di questi settori a monocoltura è nelle mani di imprenditori israeliani, e il bassissimo costo del lavoro nella demoralizzata striscia di Gaza permette agli imprenditori israeliani di mantenere i propri mercati europei in sostanziale attivo.

Nell'estate del 1995, il 95 per cento della popolazione di Gaza era "imprigionata nella regione" dalla forza israeliana, riporta il gruppo israeliano per i diritti umani Tsevet'aza, con l'"economia strangolata" e le forze di sicurezza preposte a controllare il commercio, l'esportazione e le comunicazioni, spesso impegnate a "peggiorare le condizioni di vita dei palestinesi". In condizioni simili, pochi sono disposti a fronteggiare i rischi dell'investimento, almeno al di fuori dei parchi industriali messi su dai produttori israeliani per "sfruttare la poco costosa manodopera palestinese". Tsevet'aza riporta inoltre che Israele continua a negare agli investitori palestinesi la licenza di aprire piccoli impianti produttivi, e che i pescatori vengono tenuti a sei chilometri dalla costa, dove non vi è affatto pesce durante i mesi estivi. Le limitate risorse d acqua in questa regione molto arida vengono impiegate per l'intensiva agricoltura israeliana, persino i laghi artificiali di eleganti luoghi di villeggiatura, stando a quanto riportano i visitatori. Nel frattempo, le risorse di acqua erogate ai palestinesi di Gaza sono state ridotte della metà dopo gli accordi di Oslo, come ha scritto l'ispettore delle Nazioni Unite per i diritti umani Rene Felber in un rapporto aspramente critico sulle condizioni carcerarie e sulla politica idrica. Egli ha rassegnato le dimissioni poco tempo dopo, commentando che non ha senso redigere rapporti che vanno a finire in un cestino.

Un anno dopo la Dichiarazione dei principi, il controllo di Israele sulla terra della sponda occidentale ha raggiunto il 75 per cento, in aumento rispetto al 65 per cento del periodo in cui sono stati firmati gli accordi. Anche l'insediamento e il "consolidamento" di colonie è proceduto a passo spedito, accanto alla costruzione di "strade di circonvallazione" che collegano le colonie ebraiche con Israele vera e propria, tagliando fuori i villaggi arabi che sono rimasti isolati l'uno dagli altri e dai centri urbani che Israele preferisce cedere all'amministrazione palestinese. I progetti autostradali sono immensi, con costi stimati intorno ai 400 milioni di dollari, secondo il segretario generale del partito laburista attualmente al governo. Lo scopo è di fornire ai coloni quella che si potrebbe chiamare "una strada dove non si è obbligati a vedere gli arabi attorno". I dettagli sono segreti, ma "le linee generali emergono dalle mappe dei coloni", riporta il corrispondente Barton Gellman, compreso il solito metodo di mettere "la forza della legge israeliana" al servizio di progetti "iniziati illegalmente dai coloni". Benvenisti descrive le strade come "fatti politici dotati di conseguenze a lungo termine" che rientrano nel piano di "suddividere le aree arabe in settori, di tramutare la sponda occidentale in un lager", nel quadro di "una pace del vincitore, di un diktat".

I fondi governativi per le colonie dei territori occupati sono aumentati del 70 per cento nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi (1994), nonostante si partisse da un livello che era già elevato rispetto agli standard precedenti. Il sostegno ai coloni e così generoso che i loro standard di vita sono tra i più alti del paese. Gli annunci pubblicitari sui giornali "invitano gli ebrei di Tel Aviv e delle sue vicinanze a stabilirsi a Ma'aleh Ephraim" con vista sulla valle del Giordano e collegata a Gerusalemme da strade di circonvallazione, nell'ambito dello sviluppo che taglia praticamente in due la sponda occidentale. Gli annunci promettono piscine, enormi prati, e una genuina atmosfera agreste che vi assicurerà un'alta qualità di vita", con concessioni governative di 20.000 dollari per famiglia oltre a bassi tassi di interesse, sgravi fiscali e altri incentivi. Nel giugno del 1995 il sindaco della vicina Ma'aleh Adumin ha annunciato la costruzione di 6.000 nuove unità residenziali destinate ad accrescere più del doppio la popolazione della città portandola a cinquantamila anime negli anni a venire, accanto alla costruzione di viali, di negozi, di un nuovo municipio e di altri edifici. La rivista del partito laburista Daoar riporta che il governo Rabin ha conservato le priorità del governo di estrema destra Shamir che ha rimpiazzato; mentre fingeva di congelare le colonie, il partito laburista "le ha aiutate finanziariamente ancor più di quanto il governo Shamir abbia mai fatto", estendendo le colonie "ovunque nella sponda Occidentale, anche nei punti più provocatori", compresi gli insediamenti dei sostenitori (spesso americani) del rabbino (americano) Kahane, che è stato bandito dal sistema politico israeliano per aver invocato le leggi di Norimberga di Hitler e per altre scimmiottature dei nazisti.

In seguito a tali misure, nell'anno successivo alla Dichiarazione dei principi la popolazione ebraica della sponda occidentale è cresciuta del 10 per cento, a Gaza del 20 per cento, secondo quanto riporta la stampa israeliana, un processo che prosegue e potrebbe accelerare. Il generale (in pensione) Shlomo Gazit, ex capo dello spionaggio militare e Amministratore della sponda occidentale, osserva che i programmi annunciati dal partito laburista sono mirati a raddoppiare la popolazione ebraica della sponda occidentale entro il "periodo di interim" di cinque anni a decorrere dagli accordi di Oslo. La Foundation for Middle East Peace a Washington, che pubblica regolari aggiornamenti, giunge alla conclusione che "i piani di costruzione del governo Rabin per le colonie della sponda occidentale e di Gerusalemme rivaleggiano con, e sotto alcuni aspetti sorpassano gli sforzi di costruzione coloniale del governo Shamir durante il 1989-92", con "una decisa intensificazione" prevista per gli anni a venire; il governo Shamir era stato in precedenza il più estremista nell'opporsi ai diritti palestinesi e nell'incoraggiare la presa dei territori da parte di Israele.

Un piano recentemente annunciato "polverizza qualsiasi residua [illusione] palestinese che l'Accordo di Oslo possa portare ad un ritiro israeliano da importanti territori della sponda occidentale o che Gerusalemme est possa mai divenire una capitale palestinese", ha commentato nel gennaio del 1995 Danny Rubinstein, il veterano dei corrispondenti della sponda occidentale. Gli eventi successivi non fanno che rafforzare tale conclusione. A giugno, è stata fondata Ma'ale Yisrael, la 145' colonia nella sponda occidentale, contro gli ordini del governo ma con la sua acquiescenza. I coloni usano mezzi pesanti e esplosivi per costruire strade di accesso nei pressi di settori della sponda occidentale densamente popolati e attentamente pattugliati, ma il governo non ne sa nulla, come dicono i suoi portavoce alla stampa. Gli arabi vengono trattati in maniera alquanto differente se commettono reati simili, come quello di cercare di espandere il centro abitato sulla terra di loro proprietà (i permessi vengono raramente accordati).

Da tutto ciò è escluso quello che sta avvenendo a Gerusalemme est e nei suoi dintorni, conquistati durante la guerra del 1967. "Dall'annessione di Gerusalemme est nel 1967", riporta il gruppo israeliano per i diritti umani B'Tselem, "il governo israeliano ha adottato una politica di sistematica e deliberata discriminazione nei confronti della popolazione palestinese della città in tutte le questioni attinenti all'esproprio di terre, alla pianificazione e alla costruzione", e in questo quadro rientra "il deliberato insediamento di ebrei in Gerusalemme est [che] è illegale secondo il diritto internazionale", ma accettabile per gli Stati Uniti, autorità suprema in virtù del loro potere. "L'estesa edificazione e gli enormi investimenti" da parte del governo "incoraggiano gli ebrei a insediarsi" nella zona est di Gerusalemme in precedenza araba, mentre le autorità "soffocano lo sviluppo e l'edificazione per la popolazione palestinese", come altrove nei territori e in Israele stessa. La maggior parte delle terre espropriate era di proprietà privata di arabi, riporta B'Tselem: secondo il ministro dell'integrazione israeliano Yair Tzaban: "Circa 38500 unita residenziali sono state costruite su questa terra per la popolazione ebraica ma nessuna per i palestinesi". Inoltre, "l'edificazione è stata ostacolata sulla maggior parte dell'area che rimane nelle mani dei palestinesi". "Solo il 14 per cento di tutto il territorio di Gerusalemme est è destinato allo sviluppo di centri residenziali palestinesi". "Zone verdi" vengono fissate come "un cinico mezzo nel quadro del tentativo di privare i palestinesi del diritto di costruire sulla loro terra e di preservare tali zone come luoghi per la futura costruzione a beneficio della popolazione ebraica"; dell'attuazione di tali piani si ha regolarmente notizia.

La linea di condotta è stata ideata dal sindaco Teddy Kollek, oggetto di grande ammirazione ad occidente come personaggio di spicco per le sue doti democratiche e umanitarie. Il loro proposito, commenta Amir Cheshin, consigliere di Kollek sulle questioni arabe, era di "porre ostacoli nel processo di pianificazione nel settore arabo". "Non voglio dare [agli arabi] un senso di uguaglianza" ha spiegato Kollek, anche se sarebbe utile farlo "qui e li, dove non ci costa molto"; altrimenti "soffriremo". La commissione pianificatrice di Kollek ha anche consigliato di favorire lo sviluppo per gli arabi laddove abbia "un "effetto vetrina"", che "verrà visto da un gran numero di persone (residenti, turisti, ecc.)". Kollek ha spiegato ai mezzi di informazione israeliani nel 1990 che per gli arabi egli "non aveva coltivato nulla né costruito nulla", se non un sistema fognario che – egli si affrettò a rassicurare i suoi ascoltatori – non era mirato "al loro benessere, al loro agio>>, dove per "loro" si intendevano gli arabi di Gerusalemme. Piuttosto, "si erano verificati alcuni casi di colera [nei settori arabi], e gli ebrei avevano il timore di venire contagiati, perciò installammo le fogne e un sistema idrico per prevenire il colera". Sotto il successore di Kollek, il sindaco del Likud Ehud Olmert, il trattamento riservato agli arabi si è fatto considerevolmente più duro, stando alla stampa locale.

Oltre a Gerusalemme est, alle colonie ebraiche, agli impianti militari e alla rete autostradale di circonvallazione, Israele continuerà a controllare le risorse idriche della sponda occidentale e "le terre pubbliche disabitate della sponda occidentale che ammontano a circa la metà del territorio della sponda occidentale", riporta Aluf Ben; il totale dei terreni pubblici ammonta a circa il 70 per cento dell'intero territorio della sponda occidentale, secondo quanto riporta la stampa israeliana. I terreni pubblici sono riservati all'uso da parte di ebrei; gli arabi della sponda occidentale sono confinati nei cantoni separati che sono stati loro assegnati. Queste restrizioni valgono anche per il 92 per cento dei terreni all'interno di Israele, attuate in vari modi per precludere ai cittadini israeliani arabi non solo quasi tutta la terra della loro nazione, ma anche i fondi per lo sviluppo. I contributi da parte degli americani destinati a realizzare tali obiettivi sono deducibili dalle tasse come donazioni in beneficenza, e perciò i costi vengono divisi tra i contribuenti in generale; è facile prevedere che programmi del governo per precludere agli ebrei il 92 per cento di New York e i normali servizi cittadini potrebbero ricevere un'accoglienza un po' differente. Come al solito, i fatti sono nelle mani di chi paga i conti.

Israele ha sempre preferito trattare con la Giordania – lo "Stato palestinese" del piano Shamir-Peres-Baker – piuttosto che con i palestinesi; i due Stati hanno sempre avuto un comune interesse nel sopprimere il nazionalismo palestinese, e hanno cooperato a questo fine durante la guerra del 1948. In particolare, i piani statunitensi e israeliani favoriscono accordi per Gerusalemme e la valle del Giordano con la Giordania piuttosto che con l'amministrazione palestinese. In vista di tali obiettivi, una piccola parte del territorio della valle del Giordano è stata restituita alla Giordania con grande fanfara. Dobbiamo consultare la stampa israeliana per scoprire che il Fondo nazionale ebraico (Fne) aveva impiegato mezzi pesanti e qualche settimana di lavoro per "radere" il fertile manto superficiale della terra e trasferirlo nelle colonie ebraiche.

L'esproprio della proprietà araba per gli insediamenti ebraici "pone problemi in relazione al processo di pace", ha comunicato al Consiglio di sicurezza Madeleine Albright, ambasciatore di Clinton presso le Nazioni Unite; ma "non crediamo che il Consiglio di sicurezza sia la sede appropriata dove discutere di questa azione" – che è stata completamente finanziata dal contribuente americano (compresa la costituzione del Fne, ufficialmente a scopi benefici), e non è stata discussa in nessun'altra sede. "Nel linguaggio di Washington, questo vuol dire che gli Stati Uniti porranno il veto a qualsiasi risoluzione su Gerusalemme che sia "ostile" a Israele", osserva il corrispondente Graham Usher. Si tratta della prassi tradizionale; come la Corte mondiale e altre istituzioni internazionali, le Nazioni Unite fanno quello che vogliono gli Stati Uniti o vengono sciolte; e l'espansione israeliana a spese dei palestinesi è una tradizionale politica statunitense che sta raggiungendo nuovi apici sotto Clinton.


Terrore e punizione


La Dichiarazione dei principi inizialmente suscitò grandi speranze, perfino euforia, tra i palestinesi. Questo è comprensibile dopo anni di sofferenza e di lotta culminati nell'Intifada, che venne repressa con straordinaria crudeltà. Ma non è mai una buona idea farsi sedurre dalla retorica dell'esaltazione e dalla speranza disperata invece di attenersi ai fatti concernenti il potere e, nel caso specifico, al testo letterale dei documenti formulato dai vincitori. Com'era inevitabile, la dura realtà ha progressivamente spazzato via gli entusiasmi iniziali. Una conseguenza è stata l'insorgere del terrorismo, che ha modificato il tradizionale schema nel quale le vittime erano in maggioranza arabe. I fatti sono difficili da stabilire, dal momento che l'uccisione dei palestinesi, o altre atrocità e violenze nei loro confronti, ricevono poca attenzione, e, di certo, non ricevono l'imponente copertura e l'appassionata denuncia della "folle strage" (New York Times) che si hanno quando le vittime sono ebrei israeliani. Scegliendo praticamente a caso, i redattori del Times e di altre riviste, non hanno espresso alcuna "ripugnanza e sdegno", né hanno visto alcun bisogno di riportare almeno i fatti, quando le squadre della morte fondate nel 1989 sono tornate a colpire, uccidendo solo nella prima settimana del 1995 sette persone, quattro nel villaggio di Beit Liqya; un'altra venne salvata dal coraggioso intervento dell'attivista per i diritti umani palestinese Hanan Ahrawi, ex membro del gruppo di negoziato dell'Olp. Una rara notizia nella stampa statunitense riporta che negli anni successivi alla firma degli accordi "sono morti 187 palestinesi principalmente per mano di una Forza di difesa israeliana (Fdi) sempre più tesa, gravata dal peso della responsabilità di proteggere i coloni ebrei", a fronte di 93 israeliani; a maggio del 1995 il numero era salito a 124 israeliani e 204 palestinesi, "un numero di vittime inferiore agli anni precedenti". Il gruppo fondamentalista islamico Hamas, considerato il principale agente del terrorismo antiebraico, ha proposto negoziati per allontanare i civili dal centro della guerra e delle violenza", riporta la stampa israeliana, ma il primo ministro Rabin ha respinto l'offerta sulla base del fatto che "Hamas è il nemico della pace e il solo modo di trattare con loro è una guerra di sterminio".

Anche le atrocità israeliane in Libano passano regolarmente sotto silenzio negli Stati Uniti. Più di 100 libanesi sono stati uccisi dall'esercito israeliano o dai suoi mercenari dell'esercito del Libano del sud nella prima metà del 1995, riporta l'Economist di Londra, a fronte dei sei soldati israeliani caduti in Libano. Le forze israeliane usano armi terribili, compresi granate antipersona che si frantumano in schegge di metallo (talvolta granate a azione ritardata in modo da portare al massimo livello il terrore), che hanno ucciso due bambini nel luglio del 1995, altri quattro nella stessa città alcuni mesi prima e altri sette a Nabatiye, dove "nessun giornalista straniero si è casualmente trovato" a descrivere le atrocità, come ha riferito Robert Fisk. Di solito si hanno delle menzioni occasionali nel contesto di articoli che denunciano le azioni terroristiche di rappresaglia degli Hezbollah nei confronti degli israeliani. A prescindere dall'identità delle vittime, la reazione delle autorità militari è invariabilmente la stessa: punire i palestinesi. L'esempio più drammatico si è avuto a Hebron dopo il massacro di 29 palestinesi nella moschea di Ibrahim nel febbraio del 1994 da parte del colono di Hebron Baruch Goldstein, un immigrato americano, al pari della gran parte della frangia estrema, di temperamento neonazista, come i commentatori israeliani regolarmente osservano. Dopo il massacro, "l'occupazione israeliana raddoppiò l'oppressione" dei palestinesi, ha riportato un anno dopo Ori Nir. Nuove misure di sicurezza "per proteggere i coloni ebrei dalla vendetta" divennero permanenti, con le strade principali chiuse e il mercato, un tempo centro regionale e base dell'economia di Hebron, distrutto. Il mercato è stato chiuso perché si trova nei pressi dell'insediamento di 50 famiglie ebraiche in questa città di 120.000 palestinesi, e "i coloni erano soliti rovesciare i chioschi in scorribande, finché le autorità militari israeliane si stufarono di trovarsi in mezzo a tumulti e si limitarono a chiudere il mercato", riporta il corrispondente Gideon Levy: "Ora i negozi sono chiusi e l'ingresso nella strada è consentito solo agli ebrei", compresi quelli che "vanno al mercato con cani feroci per intimidire i palestinesi", scagliano pietre contro di loro mentre marciano attraverso le zone palestinesi "armati e pronti ad entrare in azione" durante le settimanali scorribande del sabato sera, o chiariscono chi è che comanda in altri modi, con l'acquiescenza delle forze di sicurezza.

Gli autobus degli arabi sono banditi dalla città, continua Nit, mentre quelli usati dalla esigua minoranza dei coloni ebrei si muovono liberamente. Per gli arabi, la "folle realtà" posta dalla forza militare "subordina le loro vite agli interessi dei coloni". La vita per loro è divenuta "un incubo" con la distruzione dell'economia e la costante violenza da parte dei coloni che tengono incatenati dei cani per sbarrare loro il passaggio, dipingono sulle loro case stelle di David slogan come "Fuori gli arabi", "Morte agli arabi", "Lunga vita a Baruch Goldstein" e perpetrano umiliazioni arbitrarie o anche di peggio mentre le forze di sicurezza girano lo sguardo dall'altra parte. Si fanno vedere, aggiunge il corrispondente Ran Kislev, ma solo quando gli arabi “cercano di difendere la loro proprietà” a Hebron o nei villaggi circostanti. Con la normale conseguenza “che numerosi arabi vengono feriti e ancor di più imprigionati”.

La punizione forse più severa è il coprifuoco che segue regolarmente a ogni tumulto, a prescindere da chi ne sia responsabile. Dopo il massacro di Goldstein nella moschea (la Grotta dei patriarchi), il confino degli arabi per lunghi periodi tramite virtuali (spesso reali) arresti domiciliari divenne una routine, attuata talvolta in un modo che rivela la sgradevole realtà più efficacemente delle regolari atrocità. Durante le vacanze della Pasqua ebraica nel 1995, per esempio, un coprifuoco ininterrotto venne imposto ai 120.000 palestinesi di Hebron affinché i pochi coloni e i 35.000 visitatori ebrei giunti a Hebron con pullman noleggiati potessero fare picnic e spostarsi liberamente per la città, danzando per le strade, intonando pubbliche preghiere per abbattere “il governo della sinistra”, ponendo la prima pietra di un nuovo edificio residenziale, e indulgendo in altri piacevoli occupazioni sotto lo sguardo attento di uno straordinario dispiegamento di forze militari. “La celebrazione è stata conclusa”, riporta Yacov Ben Efrat, “da coloni che hanno imperversato per la città vecchia, distruggendo proprietà e infrangendo finestrini delle macchine [...] in una città magicamente ripulita [...] dai palestinesi”, cogliendo l'occasione “per insultare i palestinesi imprigionati nelle loro case e per lanciare loro dei sassi se osavano sbirciare dalla finestra gli ebrei che festeggiavano nella loro città” (Israel Shahak). “Bambini, genitori e anziani vengono di fatto imprigionati per giorni nelle loro case, che nella maggior parte dei casi sono gravemente sovraffollate”, riporta Levy, e non possono far altro che accendere i propri apparecchi televisivi per “osservare una colona che annuncia gioiosamente, "c'è un coprifuoco, grazie a Dio "”, e ascoltare le “allegre danze dei coloni”, le “processioni festive”, alcune alla “Grotta dei patriarchi aperta solo agli ebrei”. Nel frattempo “il commercio, le professioni, gli studi, la famiglia, l'amore – tutto si interrompe bruscamente”, e il “sistema medico è rimasto paralizzato” di modo che “molte persone malate a Hebron non hanno potuto raggiungere gli ospedali durante il coprifuoco e donne che stavano partorendo non sono riuscite a giungere in tempo alle cliniche”.

I coprifuoco protratti nel tempo impongono grandi sofferenze, talvolta letteralmente la fame, a una popolazione che per sopravvivere è stata costretta a dipendere da un lavoro servile in terra d Israele, svolto in condizioni terribili che sono state condannate per anni dalla stampa israeliana con pittoresche descrizioni. Il solo studio accademico comparativo giunge alla conclusione che “la situazione di arabi non cittadini in Israele è peggiore rispetto a quella di non lavoratori stranieri in altri paesi”, dei lavoratori emigrati negli Stati Uniti, dei “lavoratori ospiti” in Europa, ecc. Ma questi erano i bei vecchi tempi. Ora i palestinesi sono progressivamente sostituiti da lavoratori provenienti da Thailandia, Filippine, Romania e altre nazioni dove le persone versano nella miseria. Il ministero del lavoro ha riportato oltre 70.000 lavoratori stranieri registrati dal marzo del 1995, mentre solo 18.000 permessi di ingresso sono stati garantiti a palestinesi dei territori, in confronto ai 70.000 di un anno prima. Alcuni giornalisti riferiscono che, accanto a decine di migliaia di emigranti illegali, essi subiscono “orari di lavoro inumani e detrazioni della paga con vari pretesti”, con “uomini venduti come schiavi da un padrone all'altro” e “donne che subiscono gravi molestie sessuali e hanno paura di fiatare”, sapendo che la minima protesta può condurre all'espulsione.

Queste “persone silenziose e lavoratrici in molti casi vivono in condizioni subumane”, scrive il redattore di Ha aretz, “e sono spesso soggette all'oppressione da parte dei loro datori di lavoro”. Vengono tenuti isolati e senza diritti, vita familiare o sicurezza. La loro condizione “sarebbe la più stretta approssimazione alla schiavitù” se alla base non vi fosse un “contratto consensuale” reso possibile dalle condizioni create dal “capitalismo reale” in buona parte del mondo. La soluzione “Thai” preannunzia ulteriori disastri per i palestinesi, egli ammonisce, con pericolose conseguenze anche per Israele.

I coprifuoco e le chiusure “hanno devastato l'economia palestinese distruggendo 100.000 famiglie nella sola Gaza”, riporta Nadav Ha'etzni. Il “trauma” può essere accostato solo all'espropriazione e espulsione in massa dei palestinesi nel 1948. Dato che la manodopera importata in stato di semi schiavitù preclude alla forza lavoro palestinese l'unico impiego che le era stato concesso, “gli accordi di Oslo hanno creato un Medio Oriente veramente nuovo”, egli scrive.


Programmi e piani di sviluppo


Sotto l'occupazione israeliana, lo sviluppo sensato nei territori è stato bandito. Un'ordinanza ufficiale del ministero della difesa di Israele ha dichiarato che "non verrà concesso alcun permesso per espandere l'agricoltura e l'industria che possa generare competizione con lo Stato di Israele". Lo strumento è familiare alla prassi americana e dell'imperialismo occidentale in genere, che comunemente contemplava regioni di servizio "complementari" ma non lo "sviluppo competitivo" - ragion per cui l'America latina è un'area così disastrata al pari dell'India, dell'Egitto e di altre regioni sotto il controllo occidentale.

Nonostante la barriera posta da Israele allo sviluppo nei territori fosse nota, la sua entità apparve sorprendente persino agli occhi del più informato degli osservatori quando fu possibile visitare la Giordania dopo gli accordi di pace.

Il confronto è particolarmente opportuno, osserva Danny Rubinstein, dal momento che la popolazione palestinese è più o meno numericamente equivalente sui due lati del Giordano, e la sponda occidentale era in una certa misura più sviluppata prima della conquista israeliana nel 1967. Dopo essersi occupato con bravura per anni dei territori occupati, Rubinstein era ben consapevole che l'amministrazione israeliana "aveva deliberatamente peggiorato 1e condizioni in cui i palestinesi dei territori dovevano vivere". Nondimeno egli rimase scioccato e rattristato nello scoprire la sbalorditiva verità.

"Nonostante la Giordania abbia un economia instabile e appartenga al terzo mondo", egli trovò che "il suo tasso di sviluppo è molto superiore a quello della sponda occidentale per non parlare di Gaza", amministrate da una società ricchissima che si avvale di aiuti stranieri senza pari. Mentre Israele ha costruito strade solo per i coloni ebrei, "in Giordania la gente guida su nuove autostrade a multiple corsie, ben attrezzate con ponti e intersezioni". L'elettricità e disponibile ovunque, a differenza della sponda occidentale, dove la grande maggioranza dei villaggi arabi dispone solo di generatori locali che funzionano irregolarmente. "Lo stesso vale per il sistema idrico. Nell'arida Giordania, vari grandi progetti idrici [...] hanno mutato la sponda orientale della valle del Giordano in una densa e florida area agricola", mentre sulla sponda occidentale le risorse idriche sono state destinate all'uso dei coloni e di Israele stessa - circa i 5/6 dell'acqua della sponda occidentale, secondo gli specialisti israeliani. Molti villaggi non hanno affatto acqua corrente e anche città come Hebron e Ramallah mancano di acqua corrente per molte ore al giorno d'estate.

Le fabbriche, il commercio, gli alberghi e le università si sono sviluppate nell'impoverita Giordania, fino a raggiungere livelli discreti. Praticamente nulla di simile è stato permesso sulla sponda occidentale, a parte la costruzione di "due piccoli alberghi a Betlemme". "Tutte le università nei territori sono state costruite solamente grazie a fondi privati e donazioni da parte di Stati stranieri senza ricevere un centesimo da Israele", a parte l'Universita islamica di Hebron, originariamente finanziata da Israele nell'ambito del piano volto a incoraggiare il fondamentalismo islamico affinché minasse alle fondamenta l'Olp, e che ora è un centro di Hamas. I servizi nella sponda occidentale sono "estremamente arretrati" in confronto alla Giordania. "Due grandi edifici a Gerusalemme est che i giordani stavano costruendo nel 1967 e che erano destinati a divenire ospedali e cliniche per i residenti della sponda occidentale sono stati mutati in edifici di polizia dal governo israeliano", che ha rifiutato anche permessi per costruire fabbriche a Nablus e Hebron sotto la pressione dell'industria manifatturiera israeliana che voleva un mercato controllato, privo di competizione. "Il risultato è che l'arretrato e povero regno di Giordania ha fatto molto più per i palestinesi che vivono nel suo territorio di Israele", mostrando "in modo ancora più lampante quanto male siano stati trattati dall'occupazione israeliana".

Così nella striscia di Gaza, "nulla simboleggia meglio l'ineguaglianza nel consumo di acqua, degli umidi prati verdi, delle aiuole irrigate, dei giardini fiorenti e delle piscine delle colonie ebraiche nella sponda occidentale", osservano due corrispondenti del Financial Times, mentre i vicini villaggi palestinesi si vedono negare il diritto di scavare pozzi e hanno acqua corrente - solo un giorno per diverse settimane - inquinata dagli scarichi fognari, cosicché gli uomini devono salire in macchina per recarsi in città a riempire taniche d'acqua o appaltare a privati il servizio a un costo quindici volte maggiore. Israele reclama il diritto all'acqua della sponda occidentale - che fornisce qualcosa come il 30 per cento de11e risorse idriche israeliane e metà dell'acqua impiegata per l'agricoltura - per "consuetudine storica" a partire dall'occupazione del 1967. E' difficile immaginare che ceda questa preziosa risorsa a qualsiasi autorità palestinese, un fatto che da solo rende i discorsi sull'autonomia praticamente insensati.

L'imponente letteratura apologetica racconta una storia differente, lodando la "benigna" occupazione che ha portato simili benefici agli ingrati palestinesi "facendo fiorire il deserto". Pone anche molta enfasi sul grande aumento delle opportunità di istruzione offerte alla popolazioni palestinese sotto il governo israeliano - trascurando, tuttavia, ciò che diceva Rubinstein, e anche qualche altra cosa. In discussioni interne, i funzionari del governo hanno raccomandato di concedere tali opportunità scolastiche nel contesto del piano globale volto a "trasferire" i palestinesi altrove, nella misura del possibile. La speranza e che "molti laureati possano emigrare dalla regione" dal momento che non vi sarà alcuna opportunità per loro sotto il governo israeliano (Michael Shashar, portavoce del governo militare nei primi anni dell'occupazione). Per i palestinesi che rimangono, non deve esservi altra scelta se non quella di una esistenza marginale in villaggi isolati o di un lavoro servile in atroci condizioni in Israele.

I lineamenti di fondo del "processo di pace" sono stati descritti in modo realistico dalla professoressa dell'università di Tel Aviv Tanya Reinhardt, la quale ha fatto rilevare come sia un errore accostare gli accordi che vengono attualmente imposti alla fine dell'apartheid in Sudafrica; piuttosto, dovrebbero venire comparati con l'istituzione di quel mostruoso sistema, con le sue misure di "autonomia" per "nuovi stati indipendenti", così come venivano viste dai razzisti sudafricani e dai loro leali amici. Gli Stati Uniti versano denaro a palate che in effetti viene destinato alla confisca di terre, all'edificazione e allo sviluppo nei territori occupati, a finanziare forze di sicurezza, e così via. Il risultato di tutto ciò sarà che i palestinesi finiranno per essere un popolo sottomesso, privo di diritti, o giungeranno ad un punto tale di disperazione da cercare di andarsene. La Giordania può essere vista come un potenziale terreno di dumping, che resisterà, ma forse in modo inefficace dato che viene assorbita sempre più completamente come una regione dipendente all'interno dell'economia israeliana di gran lunga più ricca e potente.

E' prevedibile che Israele e la corrente dell'Olp che fa a capo ad Arafat saranno uniti nella ferma opposizione alla democrazia nelle aree ad amministrazione palestinese. Si possono solo ammirare Rabin e Peres per la franchezza con la quale annunciano che "se Hamas vince le elezioni per il parlamento dell'Autonomia - l'accordo decade". Arafat naturalmente plaudirà, nello stesso modo in cui ha invalidato le elezioni del novembre del 1994 al Consiglio di Fatah nella regione di Ramallah, e ha fatto in modo che non venissero più indette, dopo la sconfitta dei suoi sostenitori. E anche difficile immaginare che Israele ponga fine la sua occupazione illegale del Libano meridionale (nonostante l'invito del Consiglio di sicurezza del marzo 1978 al ritiro immediato e incondizionato) o alle operazioni terroristiche che conduce a volontà in quella e altre regioni del Libano; tra queste si intendono non solo le atrocità delle quali viene occasionalmente data notizia, ma anche i casi minori non riportati negli Stati Uniti: per esempio, il divieto che Israele ha imposto sulla pesca a sud di Tyre per quasi 20 anni; o il rapimento di un libanese del sud annunciato dall'esercito nel luglio del 1994, portato in Israele col sospetto di aver partecipato ad operazioni contro gli occupatori israeliani e il loro esercito assassino - operazioni che sono di legittima difesa, non di terrorisrno, in accordo con la principale risoluzione delle Nazioni Unite sul terrorismo, che nel dicembre 1986 ottenne 153 voti a favore e 2 contrari con Honduras unico astenuto; ma in effetti venne respinta, poiché gli Stati Uniti votarono contro (assieme ad Israele); e perciò non è stata riportata ed è bandita dalla storia.


"Rifiuti umani e scarto della società"


La Dichiarazione dei principi e le sue conseguenze hano rappresentato un significativo passo avanti in direzione degli obiettivi degli espansionisti e dei negazionisti di Stati Uniti e Israele. Se fosse realmente possibile spazzare la questione palestinese sotto il tappeto, forse le relazioni tra le piincipali nazioni potrebbero divenire pubbliche e rafforzarsi, con Israele che diverrebbe un centro tecnologico, industriale e finanziario mantenendo il suo predominio militare con l'appoggio della potenza statunitense, e continuerebbe a sopravvivere su un sussidio degli Stati Uniti senza pari negli affari mondiali. Ufficialmente l'attuale appannaggio di 3 miliardi di dollari all'anno ammonta al 25 per cento del totale degli aiuti elargiti all'estero dagli Stati Uniti. L'analista del Medio Oriente Donald Neff stima che la somma reale ammonti a più del doppio, qualora si prendano in considerazione vari altri strumenti finanziari (garanzie di prestito, concessioni, pagamenti dilazionati, ecc.; i contributi deducibili dalle tasse, anch'essi unici, sono un'altra forma di sussidio pubblico). Gli aiuti a Israele non sono inoltre soggetti a condizioni o supervisione, a differenza di altri programmi, come gli oltre 2 miliardi di dollari versati regolarmente all'Egitto per mantenersi in linea con gli interessi statunitensi e israeliani.

D'altro canto, ai palestinesi vanno 100 milioni di dollari statunitensi, tutti attraverso il canale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) di Arafat, per lo più per finanziare le forze di sicurezza. L'amministrazione Clinton ha tagliato di 17 milioni di dollari il contributo statunitense all Unrwa, il più grande singolo datore di lavoro nella striscia di Gaza e responsabile del 40 per cento dei servizi sanitari e scolastici della regione. Può darsi che Washington abbia in programma di cancellare l'Unrwa, che "Israele ha storicamente combattuto", osserva il corrispondente Graham Usher, lasciando i palestinesi come un "problema" da affidare ad Israele e all'Anp, considerata un virtuale agente del governo israeliano. Rompendo con la precedente tradizione politica, l'amministrazione Clinton ha votato contro tutte le risoluzioni dell'Assemblea generale concernenti rifugiati palestinesi nel 1993 e nel 1994, sulla base del fatto che tali questioni "pregiudicano l'esito del processo di pace in corso e andrebbero risolte tramite negoziati diretti", ora saldamente nelle mani degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Un passo verso lo smantellamento dell'Unrwa, e il programmato spostamento del suo quartier generale a Gaza. Questo do vrebbe porre veramente termine al sostegno internazionale per il milione e ottocentomila rifugiati palestinesi in Giordania, Libano e Siria. Il passo successivo consisterà nel togliere i fondi all'Unrwa per metterli nelle mani dell'Anp, riportano fonti delle Nazioni Unite.

I fondi che vanno a Israele e all'Egitto, e i pochi spiccioli destinati ai palestinesi, sono la componente degli aiuti statunitensi maggiormente avversata dall'opinione pubblica. Ma la politica diverge nettamente dall'opinione su un'ampia gamma di questioni, non solo questa.

Si potrebbe osservare che le elargizioni statunitensi a Israele non sono solo straordinari nelle proporzioni, ma anche illeciti. Lo Human Rights Watch (Hrw) ha recentemente affrontato la questione, mettendo in rilievo ancora una Volta che la legge statunitense espressamente proibisce aiuti militari o economici a qualsiasi governo che pratichi la tortura sistematica. E come si evince nuovamente dal suo ampio rapporto, Israele "pratica un sistematico schema di maltrattamento e tortura", secondo standard internazionalmente accettati, e in proporzioni alquanto notevoli. Lo Hrw stima che "il numero di palestinesi torturati o gravemente maltrattati durante gli interrogatori al tempo dell'Intifada [dal dicembre del 1987] ammonta a decine di migliaia", su una popolazione maschile di adulti e adolescenti di meno di 3/4 di un milione, di cui solo una parte alla fine e stata posta in stato di accusa (e giudicata colpevole, di solito su "confessione"). Israele è evidentemente la sola democrazia industriale in cui la tortura e legalmente autorizzata, su raccomandazione dell'ufficiale Commissione Landau, la quale è giunta alla conclusione che i servizi di sicurezza hanno impiegato la tortura per sedici anni ma che solo certe misure di coercizione dovrebbero d'ora in poi venire consentite (indicate esplicitamente in una sezione segreta); le pratiche che sono state osservate e sono autorizzate vengono considerate torture dagli osservatori dei diritti umani. Lo Human Rights Watch fornisce dettagli, come l'organizzazione israeliana per i diritti umani B'Tselem, e altre indagini compiute negli ultimi 20 anni.

E', comunque, ingiusto prendersela solo con Israele, dal momento che la maggior parte degli aiuti statunitensi sono -illeciti per lo stesso motivo; per esempio, la metà degli aiuti militari statunitensi al Sudamerica sono destinati alla Colombia, che non solo pratica la tortura ma compie anche massacri su scala imponente, ponendosi al comando dell'emisfero negli abusi dei diritti umani.

Gli estremi presupposti negazionisti dei governanti si rivelano ad ogni momento. Ne è esempio la reazione all'iniziativa di Arafat di invocare una "Jihad" per Gerusalemme; la quale suscitò una sorta di isteria negli Stati Uniti, poiché provava che non ci si poteva fidare dell'ambiguo terrorista. Nel frattempo Israele annunciò che la sua Jihad era compiuta: Gerusalemme sarebbe rimasta l'eterna e indivisa capitale di Israele, priva di qualunque istituzione palestinese (per tacere dei diritti). Questa dichiarazione è passata sotto silenzio negli Stati Uniti. La reazione (inesistente) alla decisione di Israele di affidare l'amministrazione dei luoghi santi al suo alleato giordano riflette la stessa posizione negazionista, così come la mancanza di preoccupazione riguardo all'espansione dei confini delle aree ambigue di Gerusalemme, ed il passo spedito al quale lì procedono edificazione e colonizzazione direttamente finanziate dall'ignaro contribuente statunitense.

Un ennesimo passo verso la realizzazione del negazionismo israeliano-statunitense è la cessazione del teorico diritto di ritorno e compensazione per i rifugiati palestinesi. Tale diritto era un elemento cruciale della Dichiarazione universale dei diritti umani: il suo articolo 13 afferma che "Tutti hanno il diritto di lasciare qualsiasi nazione, compresa la propria e di far ritorno alla propria nazione" (mio il corsivo). Il giorno dopo che la Dichiarazione venne approvata dal'Assemblea generale, si adottò all'unanimità anche la risoluzione 194 che applicava l'articolo 13 al caso dei palestinesi. La Dichiarazione è riconosciuta nei tribunali degli Stati Uniti e altrove in quanto "diritto internazionale consuetudinario e come "autorevole definizione" degli standard in fatto di diritti umani. L'articolo 13 è sicuramente la disposizione più famosa, invocata ogni anno per molti anni in occasione del giorno dei diritti umani, il 10 dicembre, con dimostrazioni e furiosi appelli all'Unione Sovietica per consentire agli ebrei russi di partire, loro sacrosanto diritto in base all'articolo 13. Quello che si è sempre nascosto e che coloro i quali lo invocavano con maggior passione erano i suoi più appassionati oppositori. Il trucco venne realizzato con semplicità: fu solo necessario sopprimere la frase in corsivo, col suo significato esplicitato dalla risoluzione 194. Questa ipocrisia, perlomeno, è un ricordo del passato. La prima parte dell'articolo 13 ha perso la sua importanza, e l'amministrazione Clinton ha tolto sostegno alla seconda parte nel dicembre del 1993 nella sua prima celebrazione del giorno dei diritti umani, votando, in contraddizione con la linea politica seguita ufficialmente per 45 anni, a sfavore della risoluzione 194, come seampre in solitudine (accanto ad Israele).

La vittoria dell'estremismo negazionista israeliano-statunitense è una conquista straordinaria. Costituisce un altro significativo passo verso la realizzazione delle aspirazioni della leadership sionista dei vecchi tempi, quando il padre fondatore del moderno sionismo, Chaim Weizmann, informò Lord Balfour che "il problema noto come la questione araba in Palestina sarà di carattere meramente locale e, in effetti chiunque sia al corrente della situazione non la considera un fattore estremamente significativo". La situazione attuale non si scosta dalle linee guida di fondo tracciate dall'ex presidente Haim Herzog nel 1972, quando dichiarò che non nega ai palestinesi alcun luogo o posizione o opinione su ogni questione" anche se "certamente non sono preparato a considerarli come partner in alcun modo in una terra che è stata consacrata nelle mani della nostra nazione per migliaia di anni. Per gli ebrei di questa terra non possono esservi partner". Come ho detto, ricade ben all'interno della gamma delle varie proposte israeliane avanzate dalla sinistra all'estrema destra, a partire dal 1968.

E' vero, i risultati sono ancora inferiori all'atteggiamento espresso da Weizmann quando rilevò, 70 anni fa, che i britannici lo avevano informato del fatto che in Palestina "ci sono alcune centinaia di negri, ma si tratta di una questione senza importanza". La situazione attuale, tuttavia, dimostra che gli specialisti del governo israeliano nel 1948, ebbero vista lunga nel prevedere che i rifugiati palestinesi si sarebbero assimilati altrove o "si sarebbero dispersi": "alcuni di loro moriranno e per lo più si tramuteranno in rifiuti umani e scarto della società, entrando nei ranghi delle classi più povere delle nazioni arabe". E vista lunga ebbe anche Moshe Dayan - forse il leader che si mostro più comprensivo nei confronti dei palestinesi - quando, prima della guerra del 1973, dichiarò che il controllo israeliano sui territori era "permanente" e consigliò che Israele dicesse ai palestinesi "che non abbiamo alcuna soluzione, continuerete a vivere come cani e chi vuole può partire - e vedremo a cosa porta questo processo [...]".

Ovviamente, Israele non avrebbe mai potuto raggiungere tali scopi con i suoi soli mezzi, e probabilmente non avrebbe rnai osato perseguirli. Lo poteva fare solo alleandosi col dominatore del mondo. La convinzione che la potenza statunitense sia guidata da una qualche sorta di "obbligo morale" nei confronti di Israele è troppo ridicola per meritare commento, cosa di cui Israele si accorgerebbe immediatamente se facesse l'errore di scavalcare il padrone. Fintantoché si mantiene il rapporto strategico e la dominazione statunitense permane senza grave rischio interno per gli Stati Uniti stessi, le questioni concernenti la giustizia e i diritti umani possono essere tranquillamente archiviate.

Ri cordate come fonti ufficiali abbiano riconosciuto che il budget del Pentagono deve rimanere alto, con forze di intervento puntate principalmente contro il Medio Oriente, dove "minacce ai nostri interessi potrebbero non risiedere alle porte del Cremlino". Con questa visione del mondo reale, vi sono buone ragioni di accettare il giudizio di Shlomo Gazit secondo cui dopo la guerra fredda, il principale compito di Israele non è cambiato affatto, e rimane di cru- ciale importanza. La sua ubicazione al centro del Medio Oriente arabo musulmano predestina Israele ad essere un devoto guardiano della stabilità di tutte le nazioni che la circondano. Il suo [ruolo] è di proteggere i regimi esistenti: prevenire o arrestare i processi di radicalizzazione e bloccare l'espansione del fanatismo religioso fondamentalista.

Per comprendere le sue parole si deve solo operare la consueta traduzione dal gergo odierno al linguaggio comune. Il termine "stabilità" significa controllo statunitense, "radicalizzazione" significa inaccettabili forme di indipendenza e "fanatismo religioso fondamentalista" è un caso particolare del crimine di indipendenza. Non ha importanza che i criminali preferiscano il nazionalismo laico, il socialismo democratico, il fascismo, la teologia della liberazione o il "fanatismo religioso fondamentalista". Sicuramente il compito di Israele non è di minare il regime più estremista del fondamentalismo islamico, quello dell'Arabia Saudita - almeno non per ora - così come Israele non venne chiamata a "bloccare" le forze estremiste fondamentaliste islamiche di Gulbuddin Hekmatyar, il prediletto degli Stati Uniti ne- gli anni ottanta, che fece a pezzi i resti dell Afghanistan dopo il ritiro sovietico mentre espandeva il suo narcotraffico; o i gruppi fondamentalisti islamici che Israele finanziava nei territori occupati alcuni anni fa, per controbattere l'Olp. Né, se è per questo, ci si aspetta che Israele "controlli" gli Stati Uniti, una delle più estremiste culture religiose fondamentaliste del mondo.

Se Israele reagisce in modo intelligente di fronte a quella che Thomas Friedman, specialista del Medio Oriente del New York Times, ha chiamato la "bandiera bianca" di Arafat, farà cadere le restrizioni imposte per impedire qualsiasi sviluppo nei territori, La posizione razionale sarebbe di incoraggiare un flusso di fondi stranieri che possono essere usati per fondare un settore di servizio per l'industria israeliana e produrre benefici per gli investitori israeliani e i loro partner palestinesi e stranieri. Sarebbe sensato per Israele spostare impianti di assemblaggio di alcune miglia in una zona dove non ci si deve affatto preoccupare di questioni come i diritti dei lavoratori, l'inquinamento e la presenza di indesiderati arabi (o anche dei lavoratori thailandesi e romeni) all'interno delle aree coloniche ebraiche. Impianti a Gaza e dintorni, oltre che nei cantoni della sponda occidentale, possono fornire manodopera a basso costo e facilmente sfruttabile, generando profitti per gli investitori e aiutando a controllare la popolazione. Settori ricchi di Israele dovrebbero ottenere considerevoli profitti se i territori venissero sfruttati in modo intelligente sul modello che Washington adotta nei propri dintorni.

Quanto alla forza di sicurezza, sarebbe sensato affidarla principalmente a forze locali asservite - il modello seguito dai britannici in India, dagli Stati Uniti nella regione dei Caraibi dell'America centrale, e in genere dalle potenze razionali. I vantaggi sarebbero molteplici, e uno di questi venne evidenziato dall'ultimo vincitore del premio Nobel per la pace poco dopo l'annuncio della Dichiarazione dei principi. Parlando al consiglio politico del partito laburista, il primo ministro Rabin spiegò che le forze palestinesi sarebbero state in grado di "occuparsi di Gaza senza i problemi provocati dagli appelli all'Alta corte di giustizia, da B'Tselem, e da tutti i teneri di cuore, dalle madri e dai padri". Questo è più o meno vero, sebbene a volte possa tornare utile anche l'ostentazione della forza come nel tradizionale schema imperiale.

Con una buona pianificazione, le cose dovrebbero svilupparsi secondo le linee tracciate da Asher Davidi sulla stampa del partito laburista nel febbraio del 1993, pochi mesi prima dell'accordo Israele-Arafat a Oslo. Egli descrisse l'"accordo completo tra rappresentanti dei vari settori (delle banche, dell'industria e del commercio su larga scala) e il governo sul fatto che la dipendenza economica dell'en- tità palestinese deve essere preservata" ma con "una transizione dal colonialismo al neocolonialismo", intrapresa congiuntamente con una ricca frangia di investitori e subappaltatori palestinesi, come nel modello comunemente applicato nel terzo mondo.

Non è chiaro quali implicazioni potrebbe avere questa situazione per la società israeliana al suo interno. Uno specialista israeliano di spicco, Sami Smooha, predice che un accordo di pace "accrescerebbe in modo significativo l'ineguaglianza", danneggiando i cittadini ebrei di seconda classe di origini orientali e migliorando lo status dei cittadini palestinesi di terza classe. Può darsi, anche se l'ineguaglianza può crescere per altre ragioni. Israele rimane estremamente dipendente dalle elargizioni e dagli aiuti americani, ed è percio più predisposta di altri a seguire il modello statunitense, abbandonando il suo tradizionale contratto sociale. Dal momento che l'economia e "liberalizzata", si può prevedere che l'ineguaglianza insolitamente elevata all'interno di Israele sia destinata a crescere, rispecchiando l'ordinarnento interno del padrone che continua a foraggiarla in cambio dei servizi resi.

Dopo la guerra del 1967, mi sembrava che il corso più saggio e umano per i vincitori sarebbe stato di far rivivere le tradizionali idee sioniste sulla federazione di aree amministrate da ebrei e da arabi, che avrebbe forse condotto a una conclusiva integrazione binazionalista man mano che si intrecciavano scambi tra le comunità a cavallo dei confini nazionali. Questa opzione si fece particolarmente appropriata, secondo me, dopo il rifiuto da parte di Kissinger delle disposizioni di ritiro della risoluzione 242, lo divenne ancora di più dopo che gli Stati Uniti dovettero frettolosamente schierarsi accanto ad Israele nel respingere la nozione dei due Stati quando quest'ultima entrò nell'agenda internazionale intorno alla metà degli anni settanta, e lo divenne più che mai negli anni che seguirono. Con l'avvento della Dichiarazione dei principi, dovrebbe ormai essere ovvio che l'opzione dei due Stati ha perduto qualsiasi (dal mio punto di vista limitata) possibilità di realizzazione, e da allora la cosa si è fatta ancora più chiara. Agli israeliani, ai palestinesi e agli esterni simpatizzanti che hanno a cuore i temi della pace e della giustizia, il momento appare più che maturo per cominciare a preoccuparsi di questioni concernenti i diritti umani e la democrazia invece di sempre più irrealistiche illusioni politiche, e per tornare, parallelamente, a considerare alternative che sono state a lungo disponibili e lo sono tuttora. Tali alternative avrebbero potuto prevenire la guerra del 1973, che si presentò come una necessita ineluttabile per Israele, la terribile invasione del Libano con le sue conseguenze, e molte altre distruzioni e sofferenze, che non sono in alcun modo terminate.

In tutta la faccenda, osserviamo chiaramente in azione i principi guida dell'ordine mondiale: gli affari mondiali sono gestiti dalla Regola della Forza, mentre si fa affidamento sugli intellettuali affinché dissimulino la realta per assecondare le esigenze del potere. Ci vuole una certa disciplina per non rendersene conto. Gli accordi che vengono attualmente messi in pratica sono degradanti e vergognosi, ma non più del simile modello che viene adottato in buona parte del mondo dal momento che gli ideali operativi - non quelli delle favole - hanno superato molti ostacoli popolari alla loro realizzazione. Alcuni si sono spinti più in là degli altri nel "tramutarsi in rifiuti umani e scarto della società" ma questa è la direzione nella quale sta andando, e andrà, buona parte del mondo, se ai padroni viene permesso di progettare un ordine mondiale in cui "si fa quello che diciamo noi".


tratto da Noam Chomsky - "Il potere; Natura umana e ordine sociale" - Editori Riuniti 1997


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