Archivio Web Noam Chomsky

A guardia del mondo

di Noam Chomsky


La fine della guerra fredda ha avuto molte conseguenze importanti sugli affari internazionali. In primo luogo, essa ha richiesto che la superpotenza regnante e i suoi apparati dottrinali (media, intellettuali, ecc.) adottassero nuovi pretesti per giustificare politiche che rimanevano sostanzialmente invariate. Questo è stato immediatamente evidente in documenti ufficiali, dibattiti pubblici, ecc. Di fatto, il processo era in corso dall'inizio degli anni '80, in previsione del fatto che la formula "arrivano i russi" non avrebbe funzionato ancora per molto (terroristi arabi pazzi, narcotrafficanti ispanici, ecc.). Ma un brusco cambiamento si è verificato immediatamente dopo la caduta del muro di Berlino. Ho documentato sulla stampa molti dei dettagli, via via che i mutamenti seguivano il loro corso naturale.

In secondo luogo, il non-allineamento è stato eliminato con successo. Quando il mondo è governato da due gangster, uno più potente e uno meno, vi è un certo spazio per il non-allineamento. Quando ne resta uno solo, quello più potente, tale spazio viene meno. Ecco perché perfino ferventi anticomunisti del Terzo mondo, come il primo ministro della Malesia Mahathir, descrivono la fine della guerra fredda come una specie di tragedia per il Sud. La noncuranza e il disprezzo per le preoccupazioni del Terzo mondo sono state subito evidenti, e sono ormai estreme. Anche di questo atteggiamento ho già discusso in dettaglio - e più volte - sulla stampa.

Un'altra conseguenza è che, venuto meno il deterrente, l'intervento violento è molto più facile per i principali stati guerrieri (gli Stati Uniti e il loro mastino, la Gran Bretagna). Anche questo è stato subito evidente, sebbene essi siano costretti in misura non piccola all'aggressione e al terrore dall'opposizione presente nei loro stessi paesi, ed è rivelato molto chiaramente nei documenti di programmazione ad alto livello trapelati.

Tutto questo era stato chiaramente compreso in anticipo. In alcuni saggi del 1989, ripubblicati nella mia raccolta del 1991 Deterring Democrocacy citavo le osservazioni di uno stimato analista, Dimitri Simes, Senior Associate del Carnegie Endowment for peace, nell'edizione di fine anno 1989 del New York Times. Egli riconosceva che l'era sovietica stava volgendo al termine, e salutava il nuovo scenario, in gran parte, per le ragioni che ho appena menzionato. Il crollo del deterrente avrebbe consentito agli Stati Uniti di ricorrere alla violenza per promuovere i propri interessi (di fatto gli interessi del settore finanziario, sebbene egli non si sia espresso così) e non sarebbe più stato necessario andare incontro alle preoccupazioni del Terzo mondo. Un'analisi fondamentalmente accurata, assai rispondente a ciò a cui assistiamo da dieci anni, sebbene per rendersene conto sia necessario sfuggire ai confini dell'apparato dottrinale e scoprire le verità nascoste sulla situazione in Turchia, Timor Est, Colombia, Haiti, ecc. - per attenersi solo all'era del dopo guerra fredda.

Il crollo del brutale e corrotto impero sovietico ha condotto ovviamente a molte lotte interne. Ma questo è la norma. I crolli degli imperi britannico, francese e portoghese portarono a conflitti ancora più violenti e distruttivi, molti dei quali ancora divampano. Poiché quelli erano imperi occidentali, la questione non è vista in questa luce, e l'orribile situazione che ha fatto seguito al crollo dell'impero sovietico viene percepita come qualcosa di unico, un altro delitto del nemico ufficiale, che ha già crimini di cui rispondere in misura più che sufficiente. Uscendo dai confini dottrinali, possiamo vedere che la storia è piuttosto diversa.

Le norme dell'ordine internazionale sono quelle di sempre. Regna la legge del più forte, così come è sempre successo. Gli stati non sono agenti morali, sebbene il compito degli intellettuali sia dipingerli come nobili e giusti (i loro stati e i loro clienti, cioè; non i nemici, che possono essere rappresentati realisticamente). Le persone comunque sono agenti morali, e possono agire - e agiscono - per limitare la violenza del potere, a volte per rovesciarlo

I problemi dell'autodeterminazione assumono sempre nuove forme, così come le situazioni contingenti, che si modificano. Soltanto per menzionare uno dei più drammatici cambiamenti recenti - il cui impatto globale è superiore a quello della fine della guerra fredda, ritengo -, la decisione da parte degli Stati Uniti e, in seguito, dei suoi alleati di liberalizzare il capitale finanziario all'inizio degli anni '70, smantellando il sistema di Bretton Woods, ha avuto proprio quelle conseguenze che gli ideatori di Bretton Woods avevano in mente quando costruirono un sistema di liberalismo contenuto", con limitazioni sui flussi di capitale e tassi di cambio relativamente fissi. Essi capivano molto bene che la liberalizzazione dei mercati finanziari sarebbe stata un'arma potente contro l'autodeterminazione - contro la democrazia e il welfare state. Le ragioni sono semplici: investitori, speculatori e potenti istituzioni finanziarie possono diventare ciò che alcuni economisti internazionali hanno chiamato un "senato virtuale", incapace di imporre le sue politiche anche agli stati più potenti. punendo scelte "irrazionali" che avvantaggerebbero solo le persone, non i profitti, mediante la minaccia (o la realtà, se necessario) della fuga dei capitali, costringendo i tassi di interesse a crescere, e spedendo l'economia in recessione se non peggio. A parte questo, le politiche di molti paesi del mondo sono determinate direttamente dalle istituzioni finanziarie internazionali che riflettono largamente le decisioni degli Stati Uniti. Ovviamente questo limita deliberatamente l'autodeterminazione e trasferisce potere nelle mani delle grandi tirannnie degli stati potenti su cui esse fanno affidamento e che dominano-"come strumenti e tiranni" secondo l'acuta definizione data da James Madison 200 anni fa.

Questo è solo un fattore nella limitazione dell'autodeterminazione. Altri sono più semplici ad esempio il brutale della violenza e del terrore. I dissidenti intellettuali dell'America Latina -quelli che sono sopravvissuti -hanno descritto in modo eloquente gli effetti residui dellla cultura del terrore, che permangono dopo che il terrore vero e proprio è tramontato, avendo raggiunto i suoi obbiettivi. Questa "cultura del terrore" ha l'effetto di "addomesticare le aspirazioni della maggioranza", in modo che essa non sogni nemmeno scelte di opposizione rispetto a quelle dei potenti. Sto facendo riferimento al rapporto di un meeting organizzato dagli intellettuali gesuiti (sopravvissuti) a El Salvador alcuni anni fa, ma questa consapevolezza è diffusa tra le vittime tradizionali, e naturalmente taciuta. I potenti e i privilegiati preferiscono una differente immagine di se stessi. Inutile dirlo, il terrore e la repressione che essi descrivono sono riconducibili direttamente al quartier generale della superpotenza regnante.

La pulizia etnica può essere un crimine terribile, e la storia ne è piena. Prendiamo ad esempio semplicemente la superpotenza regnante. Essa ha ottenuto il suo territorio nazionale mediante massicce operazioni di pulizia etnica "sterminando" la popolazione nativa, secondo le parole dei Padri Fondatori. Poi si è rivolta all'esterno, compiendo un enorme massacro nelle Filippine, uccidendo centinaia di migliaia di persone e sottoponendo i nativi che si opponevano a pulizia etnica.

Comportamenti analoghi sono seguiti poi in altre zone del suo dominio in espansione. In anni più recenti, l'attacco di John F. Kennedy al Vietnam del Sud nel 1961-62 (chiamato "la difesa del Vietnam del Sud" nella cultura dei commissari del popolo) ha incluso non solo il bombardamento su vasta scala di obiettivi civili da parte dell'aviazione americana, ma anche la distruzione dei raccolti e un'ampia operazione di pulizia etnica per portare centinaia di migliaia - infine milioni di persone in campi di concentramento chiamati "villaggi strategici" e in slum urbani. Le stesse politiche sono state poi estese a Laos, Cambogia, e Vietnam del Nord - soprattutto a sud del ventesimo parallelo, in modo che la cosa non risultasse troppo visibile agli osservatori occidentali.
Gli Usa hanno poi sostenuto la pulizia etnica indonesiana a Timor Est, distruggendo consapevolmente forse un quarto della popolazione o più, e compiendo molte atrocità in altri posti, incluse le loro vaste operazioni di terrore nell'America centrale, che hanno prodotto milioni di profughi uccidendo al contempo molte altre centinaia di migliaia di persone.

La situazione continua così per tutti gli anni '90. Una delle peggiori pulizie etniche della metà degli anni '90 avviene all'interno della Nato, nel suo angolo sud-orientale - forse 2-3 milioni di rifugiati, 3.500 villaggi distrutti, decine di migliaia di persone uccise, ogni atrocità immaginabile, in gran parte grazie a Bili Clinton che, mentre le atrocità giungevano al culmine, aumentava il flusso di armi (hanno contribuito altre potenze Nato, ma gli Stati Uniti erano in posizione preminente).

È solo un piccolo esempio. La pulizia etnica è una storia vecchia, e terribile. Devo aggiungere, per precisione, che gli Stati Uniti non sono impegnati in una pulizia "etnica". Piuttosto, sono ecumenici. Se si trova sulla loro strada e disobbedisce, una vittima vale l'altra. Per le altre potenze è lo stesso, anche se a volte capita che le vittime costituiscano un gruppo etnico. Ad esempio, i 750.000 palestinesi che sono fuggiti o sono stati cacciati dalle loro case nel 1948 con ampio ricorso alla violenza e al terrore. In linea di principio, fu loro garantito il diritto a ritornare o a ricevere un indennizzo per decisione quasi unanime della comunità internazionale.

Ma in un'altra dimostrazione del suo impegno nel campo dei diritti umani, Clinton ha unilateralmente posto il veto a quella decisione (l'opposizione degli Usa corrisponde a un veto, dati i poteri reali).

Nella dottrina occidentale, il termine "pulizia etnica" è usato molto poco: per riferirsi alla pulizia etnica attuata dai nemici ufficiali. Ancora una volta, è una pratica corrente, nella storia - e nella storia intellettuale. Gli esempi verso cui l'attenzione viene attentamente indirizzata sono sufficientemente orribili, ma paragonarli all'Olocausto è una forma estrema di revisionismo sull'Olocausto stesso, e un vergognoso insulto alle sue vittime. Questo dovrebbe essere evidente senza ulteriori commenti.

Da "Il Manifesto" di sabato 4 Dicembre 1999 nella sezione Culture alle voci: "Fine della guerra fredda, autodeterminazione, pulizia etnica, il ruolo degli Stati Uniti nel governo dell'ordine mondiale" e "Dopo la mobilitazione di Seattle contro l'organizzazione del commercio, la critica radicale di Noam Chomsky all'incontrastata potenza dell'Impero americano".

( trad. Marina Impallomeni) - il manifesto


Archivio Noam Chomsky




- -