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I cortili dello Zio Sam (indice)



L'esportazione della violenza

LA GUERRA DEL GOLFO

La guerra del Golfo illustra lo stesso principio-guida, come chiunque può vedere chiaramente se solleva il velo della propaganda [27].
Quando l'Iraq invase il Kuwait nell'agosto del 1990, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu condannò immediatamente Baghdad e gli impose severe sanzioni. Perché la risposta dell'Onu è stata pronta e ferma come mai prima? L'alleanza Washington-media aveva pronta la solita risposta.
Dapprima ci dissero che l'aggressione irachena costituiva un crimine senza precedenti, e meritava pertanto una reazione altrettanto insolitamente dura. "L'America è sempre stata contro l'aggressione, contro quanti insistono a sostituire la forza alle regole e alle leggi", questo ci disse il Presidente Bush, l'invasore di Panama e il solo capo di Stato ad essere stato condannato dalla Corte Mondiale di Giustizia per "uso illegale della forza" (come si legge nella sentenza contro l'aggressione americana in Nicaragua). I media e la classe intellettuale, prostrati in adorazione di fronte alla grandiosità di principi tanto elevati, ripeterono diligentemente le parole pronunciate per essi dai loro leader.
In seguito, quelle stesse autorità iniziarono a recitare la litania secondo cui l'Onu finalmente cominciava ad adempiere le funzioni per cui era stata concepita. Affermarono così che svolgere tale compito era stato impossibile prima perché l'organizzazione era stata svuotata d'efficacia a causa della spaccatura prodotta dai sovietici e dalla violenta retorica anti-occidentale del Terzo Mondo.

Nessuna di queste pretese sopravvive ad un solo minuto di serie verifica. Nel Golfo, né gli Stati Uniti né gli altri stati stavano difendendo qualche elevato principio morale. La ragione della reazione senza precedenti contro Saddam Hussein non risiedeva nella sua brutale aggressione, ma nell'aver pestato i piedi sbagliati.
Saddam Hussein è un bandito oggi esattamente com'era prima della guerra, quando era un nostro amico nonché partner commerciale di riguardo. La sua invasione del Kuwait è stata certamente un'atrocità, ma non aveva nulla di inusuale rispetto ai molti delitti simili perpetrati dagli Stati Uniti e dai loro alleati: anzi, non è nemmeno lontanamente paragonabile ad alcuni di essi. Per esempio, l'invasione dell'Indonesia con l'annessione di Timor Est ha raggiunto proporzioni quasi da genocidio, grazie al supporto decisivo fornito dagli Usa e dai loro alleati. Sembra che un quarto dei 700.000 abitanti siano stati uccisi, una carneficina ancora peggiore, se rapportata al totale della popolazione, di quelle commesse da Pol Pot in quegli stessi anni.
Il nostro ambasciatore presso le Nazioni Unite dell'epoca (oggi senatore dello stato di New York), Daniel Moynihan, così descrisse i risultati da lui ottenuti presso l'Onu riguardo a Timor Est: "Gli Stati Uniti volevano che le cose andassero come sono andate, e hanno lavorato per ottenere questo risultato. Il Dipartimento di Stato desiderava che le Nazioni Unite si dimostrassero del tutto inefficaci, qualsiasi misura decidessero di intraprendere. Questo fu il compito affidatomi, e io l'ho portato avanti ottenendo un successo non trascurabile".

Il Ministero degli Esteri australiano giustificò l'acquiescenza del suo paese di fronte all'invasione e all'annessione di Timor Est (nonché la complicità australiana con l'Indonesia nell'impadronirsi delle ricche riserve petrolifere di Timor) semplicemente osservando che "il mondo è un posto dominato dall'ingiustizia, tutto imbrattato di esempi di acquisizioni di territorio ottenute con la forza". Quando l'Iraq invase il Kuwait, tuttavia, il suo governo firmò una dichiarazione altisonante in cui si leggeva che "i grandi non possono invadere i piccoli vicini e sperare di cavarsela". Non c'è livello di cinismo che possa turbare la serenità dei moralisti occidentali.
Quando all'Onu che finalmente avrebbe funzionato secondo i compiti per cui era stata fondata, i fatti sono evidenti - ma accuratamente censurati dai guardiani della correttezza politica che controllano gli strumenti della libertà di espressione con pugno d'acciaio. Per molti anni, le Nazioni Unite sono state bloccate dalle grandi potenze, soprattutto dagli Stati Uniti - non dall'Unione Sovietica o dal Terzo Mondo. A partire dal 1970, i veti americani sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono stati molto più numerosi di quelli posti dagli altri paesi membri (la Gran Bretagna è al secondo posto; segue, a grande distanza, la Francia mentre l'Unione Sovietica è al quarto).
Più o meno simile è il nostro comportamento nell'Assemblea Generale. E la "violenta retorica anti-occidentale" del Terzo Mondo si riduce di solito a un richiamo a far osservare la legislazione internazionale: una barriera penosamente debole contro i saccheggi compiuti dai potenti.
L'Onu è stata in grado di rispondere all'aggressione irachena perché - per una volta - gli Stati Uniti l'hanno consentito. La severità senza precedenti delle sanzioni delle Nazioni Unite è stata il risultato delle intense pressioni e minacce esercitate dagli Usa. Le sanzioni, inoltre, avevano buone probabilità di funzionare, contrariamente al solito, non solo in ragione della loro durezza la anche perché quelli che di solito le aggiravano - cioè gli Usa, la Gran Bretagna e la Francia - per una volta le avrebbero rispettate.

Comunque, subito dopo aver approvato le sanzioni, gli Usa fecero in modo di bloccare l'azione diplomatica organizzando, insieme con la Gran Bretagna, un impressionante spiegamento di forze nel Golfo sostenuto dalle dittature dinastiche che governano gli stati petroliferi della regione, mentre dagli altri stati giungeva una partecipazione solo formale.
Una forza di deterrenza più ridotta avrebbe potuto restare in loco per tutto il tempo necessario fino a che le sanzioni avessero avuto un effetto significativo; ma un esercito di mezzo milione di uomini non poteva. L'obiettivo di tale immediato accumulo di forze militari era scongiurare il rischio che l'Iraq fosse costretto ad abbandonare il Kuwait con mezzi pacifici.
Perché la soluzione diplomatica era tanto sgradita? Nel giro di un paio di settimane dopo l'invasione del Kuwait, avvenuta il 2 agosto, le linee di fondo su cui si sarebbe potuto basare un accordo politico erano già definite abbastanza chiaramente. La risoluzione n° 660 del Consiglio di Sicurezza, che chiedeva il ritiro dell'Iraq dal Kuwait, sollecitava anche negoziati simultanei sulla questione dei confini. A metà agosto, il Consiglio per la Sicurezza Nazionale prese in esame una proposta irachena di ritiro dal Kuwait all'interno di quel contesto.
Pare che le questioni in discussione fossero due: dapprima, l'accesso iracheno al Golfo, nella forma di un affitto o di altri sistemi di controllo su due isolotti paludosi disabitati assegnati al Kuwait dall'impero britannico quando aveva risistemato la regione (lasciando l'Iraq praticamente privo di sbocchi sul mare); in secondo luogo, la risoluzione di una disputa riguardo ad un campo petrolifero che si estendeva per due miglia all'interno del territorio kuwaitiano, oltrepassando un incerto confine.

Gli Stati Uniti rifiutarono seccamente la proposta, e qualsiasi negoziato. Il 22 agosto, senza rivelare questi fatti riguardo all'iniziativa irachena (della quale a quanto pare era a conoscenza) il New York Times riferì che l'amministrazione Bush era determinata a bloccare la "via diplomatica" per timore che in tal modo si potesse "disinnescare la crisi". (I fatti essenziali saranno pubblicati una settimana dopo dal quotidiano di Long Island Newsday, ma i media nel loro complesso manterranno la consegna del silenzio.)
L'ultima offerta diplomatica, resa nota prima del bombardamento dai funzionari americani il 2 gennaio del 1991, parlava di un totale ritiro dal Kuwait. Non si affrontava in modo specifico il problema dei confini, ma l'offerta era stata fatta nel contesto di non meglio precisati accordi su altre questioni "connesse": le armi di distruzione di massa nella regione e il conflitto arabo-israeliano. Quest'ultimo punto comprendeva l'occupazione illegale del Libano meridionale da parte israeliana, in aperta violazione della risoluzione n° 425 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu del marzo del 1978, che chiedeva l'immediato e incondizionato ritiro dal territorio invaso. La risposta americana fu che non ci sarebbe stato spazio per la diplomazia. I media tacquero su questi fatti, a parte il Newsday, elogiando invece gli elevati principi morali di Bush.

Gli Stati Uniti si rifiutarono di prendere in considerazione le questioni "connesse" perché sono sempre stati contrari ad affrontare a livello diplomatico tali problemi. Ciò era risultato chiaro molti mesi prima dell'invasione irachena del Kuwait, quando gli Usa avevano respinto l'offerta dell'Iraq di aprire un negoziato sulle armi per la distruzione di massa. In tale offerta, Baghdad aveva proposto la distruzione di tutte le armi chimiche e biologiche in suo possesso, a patto che le altre nazioni della regione avessero fatto altrettanto.
A quel tempo Saddam Hussein era un amico e alleato di Bush, perciò fu degnato di una risposta, peraltro assai istruttiva. Washington disse che apprezzava la proposta irachena di distruggere le proprie armi, ma non voleva che questo gesto fosse collegato "ad altre questioni o sistemi di armamenti".
Gli "altri sistemi di armamenti" non venivano citati, non ce n'era bisogno. Israele non soltanto può avere armi chimiche e biologiche, ma è anche l'unico stato del Medioriente in possesso di armamenti nucleari (probabilmente circa 200). Tuttavia "gli armamenti nucleari di Israele" è una frase che non può essere né scritta né pronunciata da nessuna fonte ufficiale governativa degli Stati Uniti. È una frase che solleverebbe la domanda sul perché gli aiuti a Tel Aviv non siano considerati illegali, visto che una legge del 1977 sui finanziamenti all'estero vieta il trasferimento di fondi agli stati che sviluppino clandestinamente tecnologia militare nucleare. Del resto, indipendentemente dall'invasione irachena, gli Stati Uniti hanno sempre bloccato qualsiasi tentativo di "processo di pace" in Medioriente che contemplasse conferenze internazionali o il riconoscimento del diritto dei palestinesi all'autodeterminazione. Per vent'anni, gli Usa sono stati praticamente gli unici ad avere questa posizione come testimoniano le votazioni alle Nazioni Unite; e ancora una volta, nel dicembre del 1990, nel bel mezzo della crisi del Golfo, la richiesta di convocare una conferenza internazionale sul Medioriente ricevette 144 voti a favore e due contrari (Usa e Israele). E questo non aveva niente a che vedere con l'Iraq e il Kuwait.
Gli Usa furono irremovibili anche nel rifiutarsi di consentire il ripristino della situazione precedente all'invasione irachena tramite gli strumenti pacifici prescritti dalla legislazione internazionale. Preferirono al contrario evitare le trattative diplomatiche e restringere il conflitto all'arena della violenza, nella quale una superpotenza libera da qualsiasi condizionamento non poteva che avere la meglio su un avversario appartenente al Terzo Mondo.

Come abbiamo già spiegato, gli Stati Uniti fanno o appoggiano regolarmente aggressioni verso altri stati, invasioni spesso molto più sanguinose dell'invasione del Kuwait. Solo il più fanatico dei "commissari politici" del sistema può non accorgersi di tutto ciò, o del fatto che nei casi rari in cui l'America decide di opporsi a qualche azione illegale commessa da un protetto o da un alleato , è più che disponibile a tener conto delle "connessioni" con problemi analoghi.
Prendiamo l'occupazione della Namibia ad opera del Sudafrica, negli anni '60, dichiarata illegale dalla Corte Mondiale di Giustizia e dalle Nazioni Unite. Per anni gli Stati Uniti adottarono la linea della "diplomazia silenziosa" e dell'"impegno costruttivo", facendo da mediatori per un accordo che premiava ampiamente il Sudafrica (che ebbe tra l'altro in regalo il più grande porto della Namibia) per l'aggressione e le atrocità commesse, stabilendo una "connessione" che si estendeva fino ai Caraibi e gratificava abbondantemente gli interessi della finanza internazionale.
Le forze cubane che avevano difeso dall'attacco sudafricano l'Angola, confinante con la Namibia, si erano ritirate. Esattamente come accadré più tardi in Nicaragua dopo gli "accordi di pace" del 1987, ma Washington ha però continuato ad appoggiare l'esercito terrorista, finanziato dagli Usa e dai loro alleati (Sudafrica e Zaire), preparando il terreno alle "elezioni democratiche" in stile nicaraguegno del 1992, durante le quali la popolazione è andata alle urne sotto la minaccia dello strangolamento economico e dell'aggressione terroristica.
Nel frattempo, il Sudafrica saccheggiava e distruggeva la Namibia, servendosene come base per le aggressioni contro gli stati confinanti. Solo negli anni di Reagan-Bush (1980-1988) la violenza sudafricana causò danni per 60 miliardi di dollari e un milione e mezzo di vittime nei paesi limitrofi (esclusa la Namibia e il Sudafrica stesso). Ma la "classe dei commissari" non volle vedere questi fatti, e salutò invece con entusiasmo la grande ostentazione di principi morali da parte di Bush quando questi si oppose a risolvere diplomaticamente la Crisi del Golfo e le altre questioni mediorientali.

Più in generale, opporsi alle "connessioni" significa più o meno opporsi alla diplomazia che per sua natura coinvolge sempre argomenti più vasti. Nel caso del Kuwait, la posizione americana era particolarmente fragile. Dopo che Saddam Hussein era uscito dai ranghi, l'amministrazione Bush insistette affinché venisse annientata la capacità di aggressione irachena (una posizione corretta, ma in contrasto con il sostegno dato in precedenza alle aggressioni compiute da Saddam) e invocò un accordo per tutta la regione che ne garantisse la sicurezza.
Ebbene, questo significa collegare una questione con delle altre. La verità pura e semplice è che gli Stati Uniti temevano che la diplomazia "disinnescasse la crisi" e pertanto, nella fase preparatoria alla guerra, bloccarono sul nascere tutti i possibili collegamenti della diplomazia.
Rifiutando la via del dialogo, gli Usa raggiunsero nel Golfo il loro obiettivo principale: che le immense risorse energetiche del Medioriente non sfuggissero al loro controllo, e che gli enormi proventi derivanti da esse aiutassero sostenere le economie dell'America e del suo protegé inglese.
Gli Usa rafforzarono inoltre la loro posizione di domino e dettero a tutti una lezione: il mondo deve essere governato con la forza. Avendo raggiunto questi obiettivi, Washington procedette al mantenimento della "stabilità", scongiurando tutte le minacce di evoluzione democratica nelle dittature del Golfo e offrendo un tacito appoggio a Saddam Hussein quando questi soffocò dapprima l'insurrezione popolare degli sciiti nel sud del paese, a pochi chilometri dalle linee americane, e poi dei curdi al nord.
Ma l'amministrazione Bush non è ancora riuscita ad ottenere quel che il suo portavoce al New York Times, nonché capo corrispondente diplomatico, Thomas Friedman chiama "il migliore dei mondi possibili: una giunta militare irachena dal pugno di ferro, ma senza Saddam Hussein". Questo, scrive Friedman, rappresenterebbe un ritorno ai bei tempi andati, quando "il pugno di ferro [di Saddam] teneva unito l'Iraq, con notevole soddisfazione degli alleati degli Usa, la Turchia e l'Arabia Saudita", per non parlare dei grandi capi di Washington. La situazione attuale del Golfo riflette le priorità della superpotenza che ha in mano tutte le carte: un'altra verità del tutto evidente che deve rimanere invisibile ai custodi della fede.


NOTE

27. Chomsky, Deterring Democracy, cap. 6 e Postafazione (edizione 1991); Chomsky in Peters, Collateral Damage.


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