È importante accorgersi di quanto sia cambiato lo scenario negli ultimi 
  trent'anni, grazie ai movimenti popolari che si sono organizzati, per quanto 
  in modo vado e caotico, intorno a temi come i diritti civili, la pace, il femminismo, 
  l'ambiente ed altri problemi che preoccupano l'umanità.
  Prendiamo ad esempio le amministrazioni Kennedy e Reagan, che sotto molti aspetti 
  hanno assunto politiche e impegni fondamentalmente simili. Quando Kennedy, dopo 
  la fallita invasione, lanciò una colossale campagna terroristica internazionale 
  contro Cuba e poi esasperò il criminale terrorismo di stato nel Vietnam 
  del Sud, fino a mettere in atto un'aggressione vera e propria, non ci furono 
  proteste degne di rilievo.
  Ci vollero l'invio di centinaia di migliaia di soldati americani e il devastante 
  attacco contro l'Indocina, con il massacro di centinaia di migliaia di persone, 
  perché la protesta acquistasse un'importanza un po' più che marginale. 
  Per contro, non appena l'amministrazione Reagan lasciò capire la propria 
  intenzione di intervenire direttamente in America Centrale, la protesta spontanea 
  esplose con un'intensità sufficiente a costringere i terroristi si stato 
  ad utilizzare altri mezzi.
 I politici possono cantare vittoria sulla fine della "sindrome del Vietnam", 
  ma in realtà sanno benissimo che le cose non stanno in questo modo. Un 
  documento politico sulla sicurezza nazionale dell'amministrazione Bush, fatto 
  trapelare proprio durante l'attacco di terra nella Guerra del Golfo, sottolineava 
  che "nei casi un cui gli Usa si trovano ad affrontare nemici molto più 
  deboli" - i soli cioè che un autentico statista acconsentirebbe 
  a combattere - "la sfida non consiste semplicemente nello sconfiggerli: 
  occorre sconfiggerli nel modo più deciso e rapido". Qualunque esito 
  diverso da questo sarebbe "imbarazzante" e potrebbe "far diminuire 
  il consenso politico" che, lasciava intendere, era già ridottissimo. 
  [41]
  Oggi come oggi, l'intervento di tipo classico non è nemmeno considerato 
  un'opzione possibile. Gli strumenti disponibili sono limitati al terrorismo 
  clandestino, tenuto accuratamente nascosto alla popolazione civile, o alla "rapida 
  e decisa" distruzione di "nemici molto più deboli" - preceduta 
  da campagne di propaganda colte a dipingere tali nemici come mostri dotati di 
  una potenza quasi invincibile.
  Tali osservazioni sono valide in generale. Basti pensare al 1992. Se il cinquecentenario 
  di Colombo fosse caduto nel 1962, avremmo assistito solamente alla celebrazione 
  della "liberazione" del continente. Nel 1992 questa posizione ha perso 
  il suo monopolio, cosa per cui i "manager culturali" abituati ad un 
  controllo pressoché totalitario si sono stracciati le vesti ed hanno 
  inveito contro gli "eccessi fascisti" di quanti esortano al rispetto 
  per altri popoli e altre culture.
Anche in altri settori si registra una maggiore apertura e comprensione, più scetticismo, più voglia di mettere in discussione le autorità. Ovviamente, anche queste tendenze più recenti sono una lama a doppio taglio. Potrebbero favorire la nascita di un pensiero indipendente, di organizzazioni popolari, di pressioni in favore di quei cambiamenti istituzionali di cui c'è più bisogno. Ma potrebbero anche consegnare nelle mani di nuovi governanti autoritari una base popolare composta in gran parte da gente terrorizzata. Queste due possibilità non devono costituire materia di speculazione, ma di azione, perché la posta in gioco è altissima.
41. Maureen Dowd, New York Times, 23 febbraio 1992.