il manifesto" del 29 Aprile 1998

NIKE SCARPE E MITI

35 dollari per una virgola girata

L'avventura di Phil Knight e delle sue scarpe da corsa. Un impero di sport e immagine

- MATTEO PATRONO -

E ra il 1971 quando una giovane studentessa di Portland, invitata da un assistente del corso di ragioneria dell'università di Stanford (Oregon) a disegnare un logo per le scarpe sportive che questi vendeva dal portabagagli della sua auto ai meeting locali di atletica, pensò bene di fare uno banale schizzo di una virgola a pancia in su. In cambio di 35 dollari, consegnò all'ex corridore della sua università il disegno di un'ala, quella della dea greca della vittoria, Nike, mistica figura ispiratrice dei guerrieri. Nike era il nome della società che Phil Knight, mezzofondista mancato, aveva messo su per vendere grosse quantità di scarpe da corsa, fabbricate a basso costo in Giappone, sul mercato locale dei corridori più accaniti.

Oggi quel marchio alato vale miliardi e la piccola società dal nome greco è considerata, al pari della Coca Cola e del rap, un simbolo della cultura popolare americana. La Nike è oggi, soprattutto, un'organizzazione e un'impresa sportiva fra le più potenti del mondo, capace di muovere i fili di tutti i suoi atleti-immagine, al punto da poter decidere (pare) in che squadra far giocare Ronaldo. Un moderno Mangiafuoco che, con sembianze anticonformiste, ha influenzato come pochi le fantasie dei consumatori di sport. Oggi però questo colosso granitico, che ha sempre fatto dello spirito sportivo uno dei suoi principi chiave è accusato di aver tradito proprio quello spirito e di rappresentare l'ambiguità del rapporto fra sport e business.

La storia della Nike è legata a doppio filo a quella del suo padre-padrone, Phil Knight, ex ragioniere ed ex mezzofondista. Nei primi anni '60 questi formò una società, la Blue Ribbon Sports, per vendere in Oregon le scarpe da corsa fabbricate in Giappone dalla Onitsuka Company. All'inizio provò a fare l'ambulante, girando per le piste di atletica locali come fossero mercati; poi aprì un piccolo negozio a Portland e prese con sè, oltre al suo ex allenatore dell'università Bill Bowerman, un altro mezzofondista di Stanford, Jeff Johnson. Una piccola società di (ex) atleti, per atleti, in un mercato, quello delle scarpe sportive, dominato allora da Adidas, il monolite tedesco col trifoglio e le strisce sulle maniche.

Nel '71 la svolta: Johnson scodellò l'idea del nome Nike, dopo aver sognato la dea greca della vittoria; Knight ottenne il regalo del logo alato ("swoosh", fruscio, dicono gli americani) e il primo modello lanciato sul mercato con la virgola bene in vista fu una scarpa da calcio. Nel '73 la Nike scelse il suo primo testimonial, Steve Prefontaine, un corridore americano un po' ribelle, con le basette alla Sergeant Pepper e i capelli lunghi, che passò i suoi bei guai (squalifiche) per portare la virgola sulle scarpe, ma prima di morire a soli 24 anni in un incidente d'auto creò nell'immaginario collettivo americano la figura dell'atleta che corre contro l'establishment. La Nike cavalcò l'onda, propagandando l'idea di un marchio sportivo antiburocratico. I profitti cominciarono a salire. Bowerman, versando del lattice liquido nella stampa per cialde della moglie, inventò la suola capace di trasformare le Nike in perfette pantofole da corsa. Raggiunto il mercato europeo ed aperte le prime fabbriche in Asia, la Nike entrò in borsa all'inizio degli anni '80 e scalzò Adidas dal trono del mercato americano. Era il momento d'oro della virgola alata: ogni volta che McEnroe sfasciava una racchetta ed insultava l'arbitro, il marchio Nike faceva il giro del

mondo; gli atleti assoldati da Knight vinsero 65 medaglie alle Olimpiadi di Los Angeles dell'84.

Nel frattempo però il mercato americano era stato invaso dalla Reebok e la Nike era così costretta a ripensare le sue strategie: nell'85 riuscì a mettere le scarpe ai piedi di un giovane cestista appena uscito dal college, tale Michael Jordan, destinato a diventare di lì a poco il giocatore più forte di tutti i tempi. Il modello "Air Jordan" (rosso e nero, subito proibito dalla Nba che calzava solo il bianco) andò immediatamente a ruba, anche perché la società dell'Oregon decise di lanciarlo con una campagna capace di bucare lo schermo: lo spot di Jordan che vola verso il canestro per schiacciarvi il pallone rimanendo in aria per 10 secondi colpì l'immaginazione anche di chi non aveva mai visto una partita di basket, facendo di scarpe, atleta, colori e logo un geniale video musicale.

Quella di Jordan fu solo la prima delle grandi campagne promozionali per la tv con cui la Nike si trasformò in un'organizzazione di marketing, in grado di usare come testimonial del proprio marchio e del proprio stile gli atleti migliori di ogni sport. Nella seconda metà degli anni '80 il logo Nike diventò sinonimo di tutto ciò che era glamour, giovane e sportivo, esercitando un fascino ed un'attrazione paragonabili a quelli delle automobili nei decenni precedenti: nei ghetti poveri si sparava per un paio di "Air Jordan", neanche fossero piene di crack.

Nell'88 prese il via il tormentone del "just do it" ("fallo"), il nuovo slogan destinato ad accompagnare per il decennio successivo tutti i prodotti Nike: qualunque cosa la gente volesse fare, Knight e compagni avevano pronto il giusto paio di scarpe. Bastava soltanto farlo. La Nike aveva già perso a quel punto l'originaria venatura anticonformista e, con l'inizio degli anni '90, il passaggio da Davide a Golia era completato: le entrate superarono i due miliardi di dollari; venne avviato un programma di gestione di tutti gli affari degli atleti Nike. Numerose università si trasformarono in "Nike Schools" (divise, scarpe, palestre con il logo alato). Cominciò a farsi largo l'idea che nell'equazione Nike=Sport ci fosse qualche conto che non tornava: nel '92, alle Olimpiadi di Barcellona, Michael Jordan ed altri componenti del Dream Team americano sponsorizzati dalla Nike annunciarono di non esser disposti a salire sul podio per ritirare la medaglia d'oro con le tute della Reebok (sponsor della nazionale Usa); alla fine accettarono di farsi premiare con i marchi ben coperti e Jordan (che lealtà...) salì sul podio completamente avvolto nella bandiera a stelle e strisce. Poco dopo iniziò negli Stati uniti una campagna contro la Nike, organizzata da alcuni gruppi sindacali e da associazioni di fabbricanti che denunciavano la perdita di posti di lavoro nell'industria domestica di scarpe sportive a vantaggio di quelle dislocate in Asia, che producevano a costi bassissimi. Emersero allora le prime accuse di sfruttamento del lavoro minorile e di salari al livello di sussistenza, alle quali la Nike rispose (e da allora è sempre stato così) negando qualsiasi tipo di sfruttamento e sostenendo che i suoi stipendi in Asia erano ben al di sopra della media locale.

Il colosso di Portland ha tirato avanti per la sua strada e negli ultimi anni ha catturato Ronaldo e Tiger Woods, il primo campione afroamericano di golf. Gli utili sono arrivati a più di 7 miliardi di dollari l'anno, ma non sono riusciti ad allontanare le numerose ombre che hanno offuscato il marchio e la percezione (sportiva e non) della Nike. Dell'immagine iniziale del logo alato, alternativa e antiautoritaria, è rimasta oggi solo l'aura di misticismo che l'ha caratterizzata sin dalla nascita: non solo per le presenze demoniache nei suoi spot pubblicitari (Maldini e compagni contro i diavoli nel Colosseo) o per le "sembianze sataniche" di alcuni dei suoi campioni (Nastase, McEnroe, Cantona); ma perché persino i 39 membri del culto Heaven's Gate, che nel marzo '97 si suicidarono per intraprendere un viaggio spaziale verso la cometa di Hale-Boop, avevano tutti quanti pronto, insieme ad una banconota da 5 dollari, un paio di Nike nere nuove di zecca.


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