Movimento abolizionista (Francia)

L'ABOLIZIONE DEL CARCERE SIGNIFICA L'ABOLIZIONE DELLA GIUSTIZIA, DEL DIRITTO E DI OGNI SOCIETA'?

Documento presentato al CONGRESSO ABOLIZIONISTA di Amsterdam, giugno 1985


CONTRO LE CARCERI

     Oggi si dice chiaro e tondo che le segrete sono delle segrete, le gabbie delle gabbie e che nulla si può fare per quelli che vi sono rinchiusi, poiché l'essenziale non è di far loro del bene quanto piuttosto di bandire dal proprio territorio i delinquenti. Li si sopprime, puramente e semplicemente. Ecco perché le pene brevi sembrano inadeguate, del tutto prive di senso.
     All'inverso, le pene lunghe corrispondono perfettamente alla volontà collettiva omicidiaria. Se la pena di morte è scomparsa in alcuni paesi, ciò è stato perché era troppo eccezionale. Non era la morte a sembrare indecente, ma tutte le smancerie che vi si facevano attorno. A tal punto che coloro che, pubblicamente, si dicono e vengono detti rivoluzionari si propongono sempre serenamente la morte per i nemici della loro libertà; dal generale dell'esercito al terrorista, passando per il rapinatore e il poliziotto, tutti sono d'accordo sul vecchio adagio per cui non si possono fare delle frittate senza rompere le uova.
     La morte di quelli che ti impediscono di vivere non ha mai spaventato nessuno, a patto che non si faccia d'ogni erba un fascio (se gli abitanti di Filadelfia, nel maggio del 1985, hanno espresso la loro scontentezza, non è stato perché la polizia aveva buttato una bomba incendiaria sulla casa di persone che gli stessi vicini avevano denunciato come sporche e sporcaccione, bensì perché in una simile operazione aveva distrutto una parte del quartiere).
     Così la prigione è la morte ideale poiché elimina in massa coloro che la società potrebbe eliminare solo in minima parte con la morte fisica. Si risparmiano emozioni.
     Solo che c'è un enorme problema, di importanza capitale, che rende inadeguato alla nostra società moderna questo sistema di eliminazione. Il fatto è che, tranne coloro che si suicidano (che dunque si fanno "giustizia" da soli), gli altri, nella maggioranza dei paesi, un giorno o l'altro escono.
     Non è questo il luogo adatto per analizzare come si sia giunti ad una tale aberrazione, ma sta di fatto che il carcere fallisce per un pelo nella sua vocazione: la morte che dispensa non dura che alcuni anni o alcuni decenni. L'imprigionamento di rado giunge sino al punto finale della sua logica, se non altro perché la società deve pur riconoscere una scala di pene che corrisponda alla sua scala di valori. Il crimine possiede effettivamente un valore monetario: tradire la moglie non è punibile per legge mentre ingannare il socio è materia da tribunale, la "legittima difesa" funziona quando si tratta del poliziotto che agisce contro il ladro ma non certo all'inverso, ammazzare per rubare è più grave che ammazzare per rabbia, quando si rubano venti milioni si è condannati più pesantemente di quando se ne ruba uno. Questi sono alcuni esempi del valore mercantile attribuito dai giudici al delitto.
     Dunque i detenuti escono. La carcerazione li avrà, per lo meno, "innervositi". Nessuna persona sensata può sopportare l'idea di vivere con gente che è stata deliberatamente resa angosciata, violenta, rabbiosa. Sicché la prigione non solo non protegge la "gente perbene" dai malviventi, ma riversa quotidianamente nella società non incarcerata dei delinquenti etichettati come tali e provocati come tali. E' assolutamente falso che il carcere rassicuri chicchessia. Il benessere che la sua esistenza talvolta procura allo spirito di alcuni non corrisponde affatto ad un desiderio di sicurezza, bensì di vendetta. Quello che vogliono costoro non è il carcere, ma una punizione ed è per questo che non si oppongono affatto all'abolizione delle carceri, a patto però che esse vengano sostituite con qualcosa di "meglio".
     L'opinione pubblica non esiste, non è che il rivestimento dei gruppi di pressione di cui i media si pongono come eco. Ora, a poco a poco, l'idea di taluni amministratori viene ripresa dai suddetti media, e cioè che il carcere non serve a niente e soprattutto che pecca di arcaismo: non è redditizio.
     Quando, nel maggio 1985, scoppiarono le rivolte nelle carceri francesi, i giornali considerati più reazionari si ponevano lo stesso quesito che è l'oggetto del presente congresso e il "Parisien Libére", per esempio, titolava in prima pagina a caratteri cubitali: <<E' vero che la prigione non serve a niente, ma con cosa sostituirla?>>.
     Pertanto l'abolizione delle carceri va nel senso della storia. Di per certo nell'ultimo decennio gli interrogativi sulla fondatezza del carcere si sono largamente diffusi sia tra gli "specialisti" (criminologi, sociologi, educatori, psicologi) sia tra i loro portavoce abituali (giornalisti e politici).
     Bisogna essere coscienti del fatto che questo Congresso è moderno. Sembra che ci si stia avviando verso una soluzione di questo tipo: si sopprimerà il carcere nell'80% dei casi per i quali si cercheranno delle forme differenti. Per il restante 20% di individui considerati pericolosi, si rafforzerà l'aspetto eliminatorio sia inventando pene di morte "non traumatiche" (l'iniezione), sia rinchiudendo davvero a vita alcuni delinquenti, sia considerandoli come dei malati mentali che si può, o meno, "rendere" alla società guariti, calmati. L'accordo che si sta formando sulla necessità di iniziare l'abolizione del carcere a partire da chi è condannato a pene brevi tiene poco conto dell'immediato corollario di una tale affermazione, e cioè che gli altri, quelli etichettati come "pericolosi", saranno ben rinchiusi, si tratti di un 20% o un 30% o un 3%: queste cifre saranno l'oggetto dei mercanteggiamenti che si possono immaginare. Costoro, capri espiatori, simboli, sarebbero le vittime di una sinistra messinscena, ancora più odiosa di quella odierna. Non ci si può ripromettere di "liberare i piccoli delinquenti" senza voler anche dire che non bisogna liberare i delinquenti considerati seri.
     Quando si parla di ridurre il tempo di carcerazione, si vuole ancora una volta "addolcire la punizione", rendere la pena più "sopportabile". Ma ci si dovrebbe interrogate sull'assurdità rappresentata dal voler ridurre la sofferenza inflitta giustamente dalla Giustizia.
     I riformisti, che siano mossi da un semplice calcolo di redditività o da ragioni cosiddette umanitarie, hanno in comune il fatto di essere moderni. Il riformismo è quello che permette al carcere di persistere. Rendere il carcere più vivibile oggi, significa renderlo più adeguato. Non più adeguato alle persone, si badi bene, ma più adeguato ad un'epoca. La modernizzazione della punizione si può realizzare solo perché delle anime caritatevoli e degli spiriti illuminati si prendono la briga di riflettere su un modo moderno di punire.
     Da cui discende l'idea che bisogna trovare una soluzione alternativa all'incarceramento.

CONTRO IL GIUDIZIO

     Altri faranno, per lo meno lo speriamo, la critica del sistema delle multe o del lavoro forzato "liberamente accettato". In quanto a noi, ci limitiamo a notare che si tratta di punizioni vecchie come il mondo e che il loro unico aspetto moderno è quello che gli viene dato dal loro cinismo.
     Ci sembrano più interessanti le soluzioni sostitutive non della punizione ma del giudizio.
     Si è detto dei "patteggiamenti" tra vittime ed autori di atti delittuosi che essi stanno al carcere come la diplomazia sta alla guerra. Come abolizionisti, siamo sensibili a questa volontà - se si vuole sopprimere il carcere - di evitare qualsiasi apparato giudiziario e qualsiasi sanzione. Riconosciamo anche l'interesse di cercare la conciliazione sia dal punto di vista della vittima che da quello dell'autore dell'infrazione. Tuttavia non siamo sicuri che il delinquente così come la vittima avranno voglia di un accomodamento amichevole. Certo, il non delinquente, a priori, non attende di lasciar passare più di un giorno in questo giudizio di "conciliazione" per realizzare l'accomodamento che gli consente di ammettere le regole sociali. Ma il delinquente, quello che non accetta il gioco, avrà la volontà di patteggiare, collaborare o fraternizzare con il nemico (non parliamo qui, evidentemente, della vittima, bensì di tutto l'apparato sociale di appoggio alla vittima)?
     Ci poniamo dunque la questione di questo sistema, della sistematizzazione della suddetta conciliazione. Chi sarebbero i conciliatori? Dei professionisti della riconciliazione? Degli psicologi? Dei volontari? Che interessi difendono?
     Noi rifiutiamo ogni ingabbiamento. La vita iperpoliziesca che ci viene proposta, nella quale alcune persone si arrogherebbero il diritto di capire ciò che ci ha fatto agire, somiglia troppo all'ingabbiamento del controllo sociale come già esiste in alcuni paesi mostruosamente sviluppati. Gli operatori sociali, psicologi, medici, che considerano loro dovere rammendare i buchi del tessuto comunitario, non lo fanno con lo scopo di preservare la loro propria felicità, bensì la sopravvivenza dei sistemi di cui non vogliono essere altro che gli addetti alla manutenzione.
     All'opposto, noi possiamo benissimo ammettere e sperare che ognuno possa contare su persone che si associno a lui per aiutarlo a risolvere una situazione conflittuale con l'unica condizione che questo aiuto sia puntuale, singolare, individualizzato ed è per questo che diffidiamo delle istanze di conciliazione che non sarebbero altre che una nuova istituzionalizzazione dei rapporti. Giacché soffriamo tutti, sopra ogni cosa, di non poter creare delle relazioni che non vengano immediatamente ridotte ad ingranaggi sociali.
     I conflitti non sono paventati da coloro che li vivono ma da quelle istanze cosiddette "oggettive" che, in realtà, fanno di noi tutti degli oggetti. Non dobbiamo scaricare sulla società le nostre indignazioni e i nostri giudizi. E' indubbio che degli atti o dei comportamenti ci commuovono e ci scandalizzano, ma non ci sentiamo "ripagati delle nostre pene" mettendo in moto una macchina che non si interessa di ciò che vi è di particolare nel mio giudizio, come di ciò che vi è di particolare nel giudizio del suo atto da parte di chi l'ha compiuto. La giustizia si fa a nome nostro, cioè al nostro posto. Ma se qualcuno può prendere il mio posto, io non esisto più. Mai si potrà evocare il problema della Giustizia senza guardare in faccia l'unicità di ciascun essere: assassino, vittima, giudice, nessuno può mettersi al posto dell'altro.
     La domanda "cosa fare dei criminali?" è esattamente quel tipo di domanda che trasforma i "criminali" in esseri astratti. Astratti dal loro essere, i supposti criminali non sono che un piccolissimo elemento di se stessi, non sono degli individui, vale a dire "gli esseri che non possono venir divisi senza venir distrutti".
     Questo problema, che sembra appassionare tanto la gente, deve dunque essere ripensato radicalmente. Non si tratta di sapere ciò che un'entità sociale astratta può fare di un'altra entità sociale astratta, ma si tratta di vedere ciò che ciascuno (io, voi) deve fare nei confronti di qualcuno che lo attacca (me, voi). La sola buona domanda da porsi è di chiedersi, e sapere, come io possa non essere criminale e neppure vittima. Di sicuro, il più grave pericolo che ci minaccia è la perdita totale della nostra singolarità. Noi, abolizionisti, vogliamo ripetere che siamo contro la carcerazione, contro ogni sistema penale perché lì vi si annida un inganno mostruoso: in nome di tutti e di ciascuno, veniamo giudicati innocenti o colpevoli, i nostri atti sono digeriti nel sociale e tutto ciò che siamo viene considerato solo dopo questa digestione, laddove non siamo più noi stessi ma un elemento indefinito di un unico tutto, il "corpo sociale", e ciascuno viene rispedito nel suo posto, quello assegnatogli, di membro funzionale: assassino, giornalista, donna, bandito, bambino ecc.
     <<Che fare dei criminali?>> è una domanda criminale, una domanda che perpetua la trappola in cui non vogliamo cadere, la trappola che consiste nel negare l'individuo secolo dopo secolo.
     Se si scoprisse qui, in questo momento, un terrorista che ha appena posato una bomba in una sala, potremmo, ognuno, porci la domanda: <<Che faremo, lui e io?>>, ma già apparirebbe scioccante la domanda: <<Che faremo l'uno dell'altro?>>.
     Come agire, quindi, quando vi è un'urgenza, per sfuggire alla morte? Quella morte a cui mi avrebbe destinato chi ha messo la bomba, ma anche quella a cui mi condanna ogni visione delle cose che fa di me una particella intercambiabile che mi uccide in quanto individuo?
     Noi non diciamo che questa società è fatta male e che dopo la rivoluzione le cose andranno meglio. I rivoluzionari che si interrogano su come affrontare il problema della delinquenza nella società futura continuano così a porre come un dato irrefutabile la necessità di un sistema di regolazione dei rapporti che permetta alla loro macchina sociale di girare. Questo sistema giudiziario esiste già oggi e mettere dei giudici rossi, verdi o neri al posto di quelli bianchi non può interessare gli abolizionisti.
     L'idea secondo la quale, all'interno di un'economia intelligente, i progressi tecnici potrebbero determinare una soddisfazione tale che nessuno più avrebbe voglia di opporsi ad una simile età dell'oro, ebbene, questa idea non ha più corso. D'altra parte, si sa che gli anarchici non possono più preconizzare, senza un'assurda ipocrisia, l'ostracismo, l'allontanamento, perché nessuna società può concepire di conservare in sé degli asociali senza volerli socializzare, in una maniera o in un'altra.
     Alla domanda: <<Che fare di coloro che la società non potrà recuperare e che considera quindi come l'ultimo grado della feccia?>> pensiamo che non ci sia che una soluzione: smettere di voler socializzare. Con che sostituire la tortura? Con che il carcere? Con che il giudizio? Con niente.
     Queste tre domande restano intercambiabili perché tutte presuppongono che si debba spezzare ciò che non si piega. Noi ci rifiutiamo in modo assoluto di chiederci: <<Come spezzare?>>. Il rovesciamento che facciamo nostro sta nel chiederci: <<Come non piegare?>>. In questo senso la delinquenza ci riguarda. Ci interessa per quello che esprime di irrecuperabile, non nelle sue forme segnate quasi sempre dall'impronta dei rapporti sociali normali più spaventosi (sessismo, violenza, valorizzazione del capo, del denaro ecc.).
     Noi abolizionisti abbiamo ben altre ambizioni che non la conservazione dei sistemi sociali quali che siano. Non ci auguriamo l'isolamento, va da sé, altrimenti cosa ci staremmo a fare qui? Vogliamo riflettere in parecchi sui modi di vivere in molti al di fuori dei sistemi preesistenti. E' la comunità che secerne l'isolamento. In ogni idea di comunità - dobbiamo ripeterlo - si dà che ciascuno non è che l'infima parte di un solo essere completo che è la comunità: l'uomo dunque vive sempre nella mancanza degli altri e non liberamente, nella sua unicità, nel desiderio degli altri. Noi pensiamo che ogni individuo costituisca un tutto. Il suo desiderio di incontrare degli altri "tutto" esprime solo la sua libertà e non una specie di determinismo gregario.
     Il movimento abolizionista non è un movimento militante, non abbiamo nessuna causa da difendere, quella dei detenuti piuttosto che un'altra. Non lottiamo per loro e neppure con loro, ma per noi stessi. Non siamo degli umanisti né gente di sinistra, non desideriamo darci da fare per una prigione più umana. Il carcere è affare nostro (e ancora! Solo per una parte) quando siamo in galera. Alcuni di noi, abolizionisti, oggi sono detenuti ma ciascuno, laddove si trova, lotta contro il suo imprigionamento e contro una organizzazione sociale che logicamente non può condurre che alla punizione, all'eliminazione. Da ciò ne discende che non siamo del "ripetitori esterni" che, per esempio, si mettono al servizio dei detenuti per far circolare l'informazione. Attualmente, detenuti o no, non vogliamo altro che la nostra libertà individuale. Se fossi al posto dei detenuti, forse mi batterei per un miglioramento delle condizioni di vita in galera, ma sono fuori ed è da fuori che parlo. (Quando parlo di noi, so che in questo noi si riconoscono solo i detenuti e i non-detenuti abolizionisti, cioè un piccolissimo numero di persone).
     Non sopportiamo di essere rinchiusi né in prigione né altrove. Non sopportiamo che ci si privi della libertà. Il carcere, per noi che siamo fuori, non è una qualsivoglia minaccia: ci fa male non soltanto perché è il simbolo di tutti i nostri ingabbiamenti, ma perché è il risultato reale di un'insopportabile logica di normalizzazione.
     Gli individui vengono giudicati non conformi (colpevoli) o conformi (innocenti), ma in ogni modo giudicati. Noi diciamo che se accettiamo di passare sotto lo statimetro, che ci misuri ben bene, ci spossessiamo del nostro giudizio, del nostro pensiero, del nostro essere. La tragica divisione tra innocenti e colpevoli, conformi al sistema o disconformi, distrugge ciascuno di noi. Tutto ciò che rafforza questa spezzatura ci è antagonista ed è per questo che non ci sentiremmo coinvolti da lotte riformiste che mirassero a creare delle galere meno penose. Per noi, abolizionisti in carcere e fuori, è proprio l'idea di carcere e di giudizio che ci impedisce di respirare. Sappiamo che ci sono dei prigionieri che cercano di regolare la società in maniera tale che le sue sanzioni siano "accettabili": costoro sono nostri nemici come tutti coloro che vogliono costringerci a forza ad una vita che non possiamo fare nostra.
     Il carcere è un punto d'attacco ideale contro il nostro stesso ingabbiamento individuale. Ci riconosciamo nel rifiuto dei detenuti quando si ribellano proprio contro l'ingabbiamento. Giacché, fuori, sappiamo di essere incarcerati tra mura di costrizione. Ma non possiamo assumere ogni rivolta che tenda a ricondurre nel carcere i rapporti sociali che ancora vi mancherebbero, perché, contrariamente ad un'idea assai diffusa, il carcere socializza i detenuti per quanto può (rispetto delle gerarchie, tipo di divertimenti autorizzati, ricatto del lavoro, privazione e privatizzazione dei rapporti interindividuali ecc.).
     Il carcere non è affatto una malattia della nostra società, non ha nulla di mostruoso; è il punto massimo della società, di ogni società, di ogni organizzazione comunitaria dei rapporti sociali.
     I mass media, la polizia, la giustizia, ma anche l'educazione, la morale, la cultura, tutto mira a mantenere a forza la coesione dell'insieme. La sanzione penale è necessaria all'ordine, l'ordine alla società. Non si potrà mai concepire una società senza ordine e l'ordine senza sanzione penale. Abbiamo interiorizzato tanto tutto ciò, rafforzando le sbarre e le ghigliottine del nostro cervello, fino a diventarne dementi d'angoscia, così che lo Stato esercita la sua tutela su di noi del tutto "naturalmente" dato che, in realtà, siamo "irresponsabili". Ma lo Stato non è che una macchina al servizio di qualcosa di più terrificante: dietro lo Stato c'è una volontà, una volontà umana. Li sta l'Uomo con le sue leggi. Abbasso l'Uomo.
     Noi siamo uomini che si levano contro l'Uomo. Questo animale vive in società. Ne siamo felici?

CONTRO IL DIRITTO

     Noi vogliamo l'abolizione della Giustizia. Questo significa quindi l'abolizione del Diritto in ogni società? Perché sicuramente le leggi sono indispensabili alla vita in società. Nessuno ne può dubitare, neppure noi.
     Il diritto garantisce i diritti di ciascuno. Vieta o autorizza, ma in ogni modo viene imposto dall'esterno. Parlare di un Diritto interno non avrebbe alcun senso.
     I membri di una società, qualunque essa sia, borghese, socialista, comunista, anarchica o altro, hanno degli interessi comuni da difendere, devono tendere ad una risposta comune a tutto ciò che può minacciarla, debbono considerare insieme il problema dei nemici esterni e della guerra o dei nemici interni e della delinquenza. Da un punto di vista societario o comunitario la logica esige una difesa organizzata, un giudizio condiviso generalmente, una sanzione. Alcuni reputano che la Giustizia non sarà una buona Giustizia fintanto che resterà separata dal popolo, vogliono una Giustizia che sia l'emanazione della comunità. Dal canto nostro, noi riteniamo che il nostro giudizio non possa che rimanere individuale; quand'anche il giudizio di diversi individui su un particolare avvenimento fosse unanime, non sarebbe comunitario e non potrebbe essere generalizzato. Per contro, un giudizio che si impone come quello dell'insieme della comunità ha come sua particolarità di non appartenere più a nessuno.
     Con il dire "abbiamo tutti i diritti", gli abolizionisti aboliscono il Diritto, dato che ciascuno è l'unico riferimento per se stesso. Se ci sono degli atti che non facciamo, è perché non vogliamo farli. Tutto qui. Vietare lo stupro non offre alcun interesse per nessuno. In cambio, ognuno troverà senza dubbio interessante riflettere intorno ai mezzi per non essere né violentatore né violentato. Riconoscere che chiunque ha il diritto di violentarmi o di farmi a pezzi esprime la mia coscienza di non poter essere in alcun modo protetto dal Diritto. E' altrettanto aberrante dire <<se fosse permesso uccidere, tutti ucciderebbero>> quanto dire <<dato che l'omicidio è proibito, non sarò ucciso>>. Ci sentiamo sicuri con coloro di cui abbiamo fiducia e nessuna legge al mondo può cambiare questo dato di fatto. Non possiamo provare interesse gli uni per gli altri se non abbiamo un minimo di discernimento. Abbiamo bisogno di ripensare le cose a partire da noi stessi.
     La definizione della legge è: <<regola imperativa imposta all'uomo dall'esterno>>. E proprio perché ci è esterna che rifiutiamo qualsiasi legge, compresa ovviamente la legge del più forte: ci opponiamo alla forza in quanto questa forza ci vuole sottomettere. E' dunque inutile ritornare sul fatto che la delinquenza in quanto tale non è portatrice di nessuna delle nostre speranze: concorrenza, maschilismo, racket sono leggi che combattiamo, mentre la società le considera come sue proprie, condannando soltanto il criminale, come lo ha mostrato assai bene Thierry Levy nel suo libro Le Crime en toute humanité, proprio perché non è all'altezza del crimine di cui essa si nutre. E' vero che per la sua sopravvivenza la società deve integrare ogni velleità individuale di passare attraverso le sue maglie: definire la delinquenza, rinchiudere i delinquenti, far credere attraverso i media che ciò che è pericoloso per la società è pericoloso per ciascuno di noi; tutto ciò consente ai sistemi che conosciamo di stravolgere ai suoi fini ciò che molto spesso all'inizio non è che disgusto, rabbia o stanchezza. Chiude le brecce di fronte ad ogni comportamento che le si oppone e che può pertanto apparire deviante o rivoluzionario. Così, la sua vittoria le ridà un nuovo dinamismo e le permette di allargare ulteriormente il suo raggio di azione. Il nostro ottimismo consiste nell'affermare che viene recuperato ciò che è recuperabile. L'irrecuperabile è possibile.
     Infatti gli individui non possono identificarsi totalmente con la società, sanno che è fuori dal sociale che realizzano il meglio di se stessi - con l'amicizia, l'amore, l'arte, il pensiero geniale ecc. - ed ogni individuo realizza ciò che fa di lui un essere unico.
     La società cerca dunque di socializzare il crimine attraverso il processo e, in seguito, il criminale con il carcere. Accaparra gli atti di ciascuno, dato che esiste effettivamente una rivalità tra proprietari: io e la comunità, alla quale tragicamente si dice che "appartengo".
     Appena compiuti, i nostri atti ci sfuggono: se sono giudicati asociali vengono puniti e questo indipendentemente - è ovvio - dall'idea che ci si potrebbe fare del bene e del male; vengono rinchiusi i folli, gli obiettori, i cosiddetti criminali. L'ingabbiamento in galera, in campi di concentramento, negli ospedali non è che il risultato finale di questo ingabbiamento fuori dal sé di cui soffriamo tutti.
     Noi, abolizionisti, vogliamo che gli individui in questione si riapproprino dei loro propri atti, che siano o meno chiamati crimini. In sé, il crimine non esiste. Se esistono, come esistono, delle circostanze dolorose, degli atti orribili che ci vengono inflitti non chiediamo di meglio che di cercare di evitarli riflettendo da soli o con alcuni altri sui mezzi per preservarci da ogni aggressione alla nostra integrità mentale o fisica. Constatiamo che il progresso è una nozione assolutamente vuota di senso e pensiamo dunque che ci si debba liberare da un modo di pensare che ci ha condotto soltanto a dei vicoli ciechi. Non è il Diritto, ma la libertà che può consentire agli individui di vivere in armonia, stabilendo rapporti a partire da se stessi e non dai rapporti sociali a cui si è oggi obbligati.
     Siamo spossessati di tutto e resi stranieri alla nostra stessa vita. Non lo sopportiamo. La parola "rivoluzione" è stata confiscata dai politici e dunque ce la risparmieremo, il che non ci dispiace, ma speriamo che le nostre idee vengano prese per quello che sono: un cambiamento concreto.
     Così, quando affermiamo di non riconoscere a nessuno il potere di giudicarci o di giudicare i nostri atti, aboliamo realmente questo troppo famoso consenso sociale che è fondato soltanto sulla dimissione di sé rispetto alla comunità. Gli uomini non hanno mai rotto con l'idea secondo cui dovevano rinunciare alla loro singolarità a vantaggio della specie umana.
     Al contrario, non solo vogliamo considerarci come degli esseri particolari, ma desideriamo considerare ogni essere che si voglia tale. In quanto abolizionisti, facciamo in modo che i criminali e gli altri si riapproprino dei loro atti dato che vogliamo vivere in mezzo a gente che pensa alla sua vita e non la delega alle istanze sociali. L'idea di società non è così inevitabile. Il movimento abolizionista ne è un segnale, tra gli altri.

Movimento abolizionista (Francia)

TITOLO ORIGINALE:
Mouvement Abolitionniste - France
L'abolition de la prison signifie-t-elle l'abolition de la justice, du droit et de toute société?

Traduzione di Isabella De Caria e Riccardo d'Este

Documento presentato al CONGRESSO ABOLIZIONISTA di Amsterdam, giugno 1985

Lo scritto è pubblicato in:
Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi
Nautilus
Torino
1990


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