Il declino e la caduta della sinistra israeliana
Ilan Pappe

Qualcuno visitando l'accademia israeliana nella metà degli anni '90 deve aver sentito una fresca aria di apertura e pluralismo che soffiava attraverso i corridoi di un fino ad allora stagnante establishment, dolorosamente leale all'ideologia sionista in ogni campo della ricerca che aveva interessato la realtà israeliana, passata o presente.
La nuova atmosfera permise agli studenti di rivisitare la storia del 1948, ed accettare alcune delle rivendicazioni palestinesi su quella guerra. Esso produsse un sapere locale che aveva sfidato drammaticamente il quadro storiografico del primo periodo d'Israele. Nel nuovo ambiente di ricerca, l'Israele dell'epoca pre-1967 non era più un piccolo paese difensivo e l'unico stato democratico nel Medio Oriente, era dipinto ora come una struttura potente che aveva oppresso la minoranza Palestinese, aveva discriminato i suoi cittadini arabi e condotto un'aggressiva politica verso gli stati vicini nella regione.
La critica accademica era scesa dalle torri d'avorio per raggiungere altri mezzi culturali, come il teatro, i film, la letteratura e la poesia ed anche i documentari TV e i libri di testo nel sistema ufficiale scolastico.
Ci vorrebbe un visitatore proprio fantasioso e determinato oggigiorno per trovare una traccia di quell'apertura e pluralismo ­ fra le conseguenze maggiori, o dovremmo dire le vittime, dell'ultima Intifada in Israele. Era una parte del declino di quella che una volta era chiamata la “sinistra israeliana” nelle immediate conseguenze dell'Intifada. La “sinistra” era quella parte dell'opinione pubblica ebraica che, con differenti gradi di convinzione ed onestà, aveva tenuto posizioni di pace sulla questione della Palestina. Dal 1967, i suoi membri avevano dichiarato la loro volontà a ritirarsi dai territori occupati, avevano accettato uno stato Palestinese con Gerusalemme Est come capitale vicino ad Israele, ed avevano parlato del bisogno di garantire pieni diritti civici alla minoranza nella stessa Israele.
Una larga porzione di questo gruppo, all'inizio dell'attuale Intifada, pubblicamente e privatamente confessarono quanto avevano sbagliato a credere nei Palestinesi e senza esitazione votarono per Sharon nelle elezioni di Febbraio (o votando direttamente per lui o bloccando la via ad un terzo candidato al posto di Barak, che aveva promesso di invitare Sharon in un governo di unità dopo le elezioni).
I principale "guru" e leader di questo gruppo espressero il loro disappunto con i Palestinesi cittadini di Israele ­ con i quali, così essi affermavano, avevano concluso una “storica alleanza”. Il boicottaggio dei palestinesi di Israele alle elezioni del febbraio 2001 fu l'ultima goccia che fece traboccare il vaso di quello “storico patto.” La disidratazione della scena accademica, culturale, intellettuale israeliana e la scomparsa di un voce politica e morale che accettasse infine il diritto Palestinese all'autodeterminazione ed alla parità, se non il diritto al ritorno erano processi gemelli che camminavano ad un velocità sorprendente. Ci si sarebbe attesi, specialmente nei circoli della società più intellettuali ed eruditi, un lungo processo di riflessione e deduzione.
Ma sembra che tutto quello che ha avuto luogo invece è stata una corsa frenetica, accompagnata da un forte sospiro di sollievo, a disfarsi dei pochi sottili strati di democrazia, moralità e pluralismo che avevano coperto l'ideologia e la prassi sionista attraverso gli anni. La rapida dissoluzione degli istituti che avevano sostenuto le politiche di pace e di compromessi, l'affrettata rimozione della terminologia pacifica e morale dai discorsi pubblici e la scomparsa di ogni visione alternativa allo sgradevole consenso sionista sulla questione Palestinese ­ tutto testimonia della superficialità del discorso e del campo pacifista israeliano prima dell'Intifada.
Gli analisti israeliani attribuiscono il fenomeno di cui siamo testimoni ad un trauma genuino. Lo shock è stato causato da tre fattori: l'insistenza di Arafat al diritto al ritorno, il rifiuto dell'ANP alle offerte generose di Barak a Camp David e la violenta rivolta. Ma queste sono false spiegazioni, così molti di coloro che le hanno pensate sarebbero i primi a riconoscere. Arafat non ha mai abbandonato il diritto al ritorno -- infatti, egli non poteva, anche se avesse voluto farlo. Ha apertamente e costantemente parlato di questo da Oslo in avanti. Così per la favola delle generose offerte fatte a Camp David, sembra che come recentemente Shlomo Ben Ami e Yossi Beilin hanno ammesso che tali offerte furono fatte solo a Taba ­ e allora scherzosamente, poiché ogni interessato sapeva che Barak era un fallito (dato che stava per perdere le elezioni con Sharon N.d.T.) e non aveva il potere per renderle esecutive.
Per di più, molti israeliani di “sinistra” lessero i rapporti USA da Camp David, tradotti in ebraico da Haaretz, e seppero che a Camp David ad Arafat fu presentato un diktat egli non avrebbe potuto accettare sotto quelle circostanze.
Realmente li ha delusi non riuscendo a resistere alla rabbia popolare nei territori occupati e nel cul-de-sac nel quale entrambe le parti erano state spinte, e che per i Palestinesi significava la perpetuazione dell'occupazione? I grandi profeti di questo campo, A B Yehoshua e Amos Oz, avevano avvertito ben prima della rivolta che se la pace non fosse stata raggiunta in Camp David, la guerra avrebbe invece regnato. Non c'era nessun elemento di accenni di sorpresa alla delusione contenuta dal fatto che il popolo di sinistra si era mosso con piacere verso il centro e la destra, dove sono stati abbracciati come il figliolo prodigo che ritorna a casa da un lungo esilio, ancor prima di concederli il tempo di esaminare lo sviluppo. Sembra ora che coloro che, come lo scrivente, avevano avvertito che gli accordi di Oslo non erano più che altro un intesa politico-militare che significava sostituire l'occupazione israeliana con un'altra forma di controllo, avevano ragione.
Oslo non ha provocato un cambio significativo nelle interpretazioni basiche israeliane (da sinistra a destra). La maggior parte della Palestina, nella visione sia di sinistra che di destra, era Israele e non c'era nessun diritto al ritorno ­ poiché l'unica speranza degli Ebrei di sopravvivenza era all'interno di uno stato sionista, sopra quanta Palestina possibile, con così pochi Palestinesi possibile.
La discussione era sulle tattiche non sugli obiettivi. La tattica “moderata” era stata presentata ai palestinesi ad Oslo con la proposizione “prendere o lasciare”, in cambio della quale dai Palestinesi ci si attendeva che cessassero tutti i tentativi di raggiungere più di quello che era stato offerto. Ciò non ha funzionato sebbene è sembrato per un po' che lo fosse. Questo fu dovuto al profondo coinvolgimento del Presidente Clinton, alle impressioni rese note dai leader palestinesi che questo davvero era un processo di pace, ed alla sonnolenza del mondo arabo. Israele raccolse i dividendi e non pagò niente in cambio. Il “campo pacifista” in Israele aveva nemici: quelli a destra, e specialmente i coloni, che avevano trovato anche quel tentativo superfluo. Nel nome di dio e della nazione, avevano preferito l'uso della forza pura per imporre la realtà sionista su tutta la Palestina. A causa di questi oppositori e della loro violenza, il campo di Oslo ha avuto un martire (Yitzhak Rabin); poiché hanno avuto delle vittime, erano convinti (i pacifisti N.d.T.) che stessero lottando per la pace. Infatti, quello per cui stavano combattendo era la creazione di un Bantustan, un protettorato sulla maggior parte della West Bank e della Striscia di Gaza. In cambio, avevano cercato di sollecitare ai Palestinesi una dichiarazione di “ fine del conflitto”. Questo non aveva bisogno di una nuova valutazione del ruolo di Israele nella, e la responsabilità per, la pulizia etnica compiuta nel 1948, una revisione delle politiche brutali nei Territori Occupati o una revisione del suo rifiuto a permettere ai Palestinesi uno stato pienamente sovrano su almeno il 22% della Palestina (la totalità della West Bank e della Striscia di Gaza).
Ciò aveva anche condotto all'illusione che la sinistra israeliana aveva avuto successo nel “sionizzare” la minoranza Palestinese in Israele come parte di un accordo globale. Ci è voluto del tempo per la minoranza Palestinese e a suoi leader per capire che una mappa della pace finale includeva la continuazione, se non addirittura l'accentuazione, delle politiche e pratiche discriminatorie contro la minoranza nello stato ebraico.
Come ai Palestinesi fu detto a Camp David di accettare la “madre di tutti gli accordi” ­ volendo dire che da essi si attendeva che non avessero più posto ulteriori richieste in futuro ­ cosi i cittadini palestinesi di Israele furono invitati ad abbandonare ogni aspirazione di vivere in uno stato per tutti i suoi cittadini come pure ogni speranza della sua de-sionizzazione.
Quando l'Intifada scoppiò nei territori occupati e nella comunità palestinese dentro Israele, i limiti molto stretti del genuino campo pacifista ebraico furono smascherati. Erano sempre stati molto piccoli, ma con l'aiuto dei media internazionali, il discorso di pace americano ed il fanatismo della destra israeliano, erano apparsi abbastanza larghi per giustificare speranze per un comprensiva e giusta soluzione nell'intero medio Oriente. Fu una bolla che scoppiò. Ora il momento è venuto per riaggiustare, in una maniera molto più sobria e realistica, come il genuino mondo pacifista dentro la società ebraica possa raggrupparsi e impattare la questione palestinese.
Si dovrebbe permettere ai pochi impegnati che rimangono di parlare più apertamente del loro sostegno alla lotta Palestinese per l'indipendenza ­ anche se ora un tale sostegno pubblico è simile ad un tradimento agli occhi della maggior parte degli israeliani. Si dovrebbe introdurre la necessità di de-sionizzare Israele come unico mezzo per raggiungere la pace e la riconciliazione con il Popolo Palestinese.
Si dovrebbe non solo appoggiare il diritto al ritorno Palestinese, si dovrebbero anche offrire modi pratici per implementarlo. Si dovrebbe abbandonare i piccoli dissensi e i conflitti che caratterizzano i movimenti di sinistra, e capire che il compito principale è di impedire attacco israeliano su i Palestinesi sia dei territori Occupati sia dentro Israele stesso.
E infine, si dovrebbe produrre e pubblicizzare nuove coraggiose idee su come costruire una struttura politica nel futuro per una situazione che renda irrilevante l'idea dei due stati, data la distribuzione demografica dei Palestinesi e degli Ebrei fra il Giordano ed il Mediterraneo. Tali nuove strutture potrebbero prendere la forma di uno stato bi-nazionale o uno stato secolare democratico, o qualcosa di simile in questa direzione.
Questo può mettere troppo alla prova ma quanto detto sopra è una priorità ed un lavoro di convincere quanti ebrei possibile per perseguire tali direzioni per ragioni sia funzionali sia morali che può essere solamente compiuto dall'interno della comunità ebraica. L'urgenza di alcuni pericoli che sono svianti è tale che, intanto, la sinistra israeliana non sionista dovrebbe spronare la comunità internazionale per interferire ed impedire i pericoli che affronta l'esistenza stessa dei palestinesi nei territori occupati e dentro Israele.
Per il tempo che c'è, questo gruppo di persone, con tutta la loro buona volontà, non ha il potere per agire così.



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