MANIFESTIAMO A ROMA l'8/11/2003


Il ghetto nel muro

URI AVNERY (professore israeliano)

muro israeliano«First of all, the wall must fall», prima di tutto il muro deve cadere. Questo slogan è nato alcune settimane fa, spontaneamente, proprio davanti al muro nella città di Kalkiliya, nel luogo dove la barriera gira verso est, addentrandosi in profondità nel territorio palestinese. Dall'altra parte c'erano dei palestinesi che stavano dimostrando. Serviva uno slogan in rima, buono per il megafono, sono arrivate quelle sette parole. Esprimono con chiarezza ciò che bisogna fare. Inutile illudersi, non si tratta delle mura di Gerico da abbattere suonando le trombe. Chi lo sta costruendo lo fa affinché quel muro resti per l'eternità, così come sostengono che la «Gerusalemme unita» è «l'eterna capitale di Israele». La destra israeliana non considera alcun periodo di tempo inferiore all'«eternità». Purtroppo però anche nella sinistra israeliana c'è chi pensa che il muro abbia creato una situazione «irreversibile». E altre «eternità».

Il nostro muro viene spesso paragonato a quello di Berlino. Da punto di vista politico e visuale il paragone è calzante. Anche perché quel muro non era solo una mostruosità architettonica urbana. Era parte della sezione tedesca della cortina di ferro che tagliava il paese in due e che si estendeva dal Mar Baltico a nord fino al confine della Cecoslovacchia a sud - circa un migliaio di chilometri, può o meno la lunghezza del mostro di Sharon. Anche in Germania il muro era una grande muraglia, un insieme di mura e reti, torrette e postazioni di fuoco, zone off limits, strade per le pattuglie e «corridoi di morte» dove i soldati aprivano il fuoco. Il muro divideva il paese, violava il panorama, separava le famiglie da una parte e dall'altra. Un mostro che incuteva terrore, un simbolo del potere e dei suoi obiettivi ultimi. Chiunque ci si è trovato davanti ha sentito dentro di se che il muro rappresentava un punto di non ritorno nella storia tedesca, che quella separazione era eterna e che quindi non aveva senso combatterlo. Non pochi politici hanno basato la loro azione sul fatto che quel muro non sarebbe mai caduto. Per tutti, a destra e a sinistra, era un dato di fatto. Nessuno lo metteva in discussione. La situazione era «irreversibile».

Poi un giorno, come l'imprevista eruzione di un vulcano, ecco che è caduto, quasi da solo. In pochi secondi l'irreversibile è diventato reversibile. La situazione è cambiata, il mostro scomparso dalla faccia della terra, come i dinosauri. Alcuni giorni prima della caduta del muro avevo passato il confine per andare a Berlino. I poliziotti erano rudi: «Passaporti. Siediti. Aspetta». Pochi giorni dopo il crollo, gli stessi agenti erano sorridenti e gentili, prego signore, grazie signore, vorrebbe per favore, solo un momento - prova che non solo i muri ma anche le persone, per fortura, sono «reversibili».


Vi è però una grandissima differenza tra il muro in Germania e quello costruito da Israele.

La Germania dell'est aveva un confine fissato da accordi internazionali raggiunti al termine della seconda guerra mondiale. E il muro era stato costruito rispettando al millimetro quella linea di confine. Il suo percorso era evidente. Nel nostro caso non c'è nulla di evidente, non c'è stato alcun accordo, non c'è alcun confine. Tutto viene disegnato da anonimi pianificatori. E' facile immaginarli seduti in uffici con l'aria condizionata e una grande mappa. Su di essa vi sono solo gli insediamenti e le vie per collegarli tra di loro evitando i centri arabi. Le città palestinesi e i villaggi non vi sono riportati, come se la pulizia etnica, alla quale mirano tanti in Israele (e nel governo Sharon) fosse già stata realizzata. Questa è la caratteristica principale del muro, la sua inumanità. Coloro che l'hanno pianificato hanno del tutto ignorato l'esistenza di esseri umani non ebrei. Hanno tenuto conto delle valli e delle colline, degli insediamenti e delle strade ma hanno ignorato del tutto le città, i quartieri e i villaggi palestinesi, i loro abitanti e i loro campi. Come se non esistessero.

Così il muro ora divide i bambini dalle scuole, gli studenti dalle università, i pazienti dai dottori, i villaggi dalle fonti d'acqua, i contadini dai campi. Come un bulldozer corazzato che irrompe in un villaggio e distrugge tutto ciò che incontra, il muro taglia le migliaia di piccoli fili che costituiscono il tessuto della vita quotidiana dei palestinesi, come se non fossero già più lì. Per i pianificatori quelle vite non esistono, il paese è ormai privo di non ebrei. All'inizio del terzo millennio, essi agiscono sulla base del principio sionista della fine dell'Ottocento: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra». In realtà l'idea del muro ha profonde radici nel pensiero sionista e lo ha accompagnato sin dall'inizio. In «Der Judenstaat», Theodor Herzl già scriveva: «In Palestina dovremo costituire parte del muro dell'Europa contro l'Asia... un avamposto della cultura contro la barbarie». Oltre cento anni dopo, il muro di Sharon esprime lo stesso punto di vista. Gli osservatori esterni non possono capire. Arafat mi ha raccontato che, nella sua recente visita negli Usa, Abu Mazen ha mostrato a Bush una mappa del muro. Il presidente è rimasto choccato e agitando la mappa sotto gli occhi del vicepresidente Cheney avrebbe gridato: «Cos'è questa cosa? Dov'è finito lo stato palestinese?»

Con la sua sola esistenza il muro esprime potere. Il suo messaggio è chiaro: noi siamo potenti, possiamo fare tutto ciò che vogliamo, imprigioneremo i palestinesi in piccole enclave e li taglieremo fuori dal mondo. Ma questa è autoconsolazione. Il muro esprime in realtà le antiche paure ebraiche. Nel medioevo gli ebrei si circondavano di mura per sentirsi sicuri, molto prima che fossero costretti a vivere nei ghetti. Uno stato che si circonda di mura non è altro che uno stato-ghetto. Un ghetto molto forte, certo, molto armato, un ghetto che terrorizza tutti i vicini - ma sempre un ghetto che si sente sicuro solamente dietro mura, torrette di guardia e filo spinato. Israele non arriverà mai alla pace a meno che non si liberi di questa mentalità del ghetto. E il primo passo non potrà che essere la distruzione del muro. (uri avnery)