L'Europa Laboratorio di un mondo senza ordine.
Prima di entrare nel merito delle riforme istituzionali promosse a Nizza,
occorre fare una premessa. Essa attiene al modello cui riferirsi nella
costruzione europea.
Da mesi la stampa italiana riporta la polemica tra i fautori di un modello
forte (il cosiddetto "Superstato") e coloro che realisticamente constatano
l'impossibilita' del riprodursi della sovranita' statuale in un ambito piu'
largo. Invero, nel secondo gruppo vi sono anche posizioni estreme. Si pensi
a Giuliano Amato che, nell'indicare la dialettica tra diversi livelli
istituzionali (regioni, Stati, organismi sovranazionali), e' arrivato a
parlare di un policentrismo decisionale tale da ricordare la situazione
dell'Europa medievale, prima del sorgere dello Stato moderno. Al di la' delle
divergenze sull'Europa tra studiosi o politici di vario orientamento, il nodo
da sciogliere rimane il seguente: se lo Stato perde la sua sovranita', c'e'
un luogo dove essa si esprime nella sua potenza ed
indivisibilita'? Non si
profilano all'orizzonte risposte definitive, almeno al momento.
La sovranita' statale -concordano tutti- e' il risultato della possibilita' di
detenere, nello stesso tempo, lo schmittiano monopolio della decisione ed il
monopolio dell'uso legittimo della forza di weberiana definizione.
Ora, nessuno nega il venir meno della centralita' dello stato-nazione nei
processi decisionali, soprattutto in campi come quello economico. E' indubbio
che il disporsi lungo l'intero pianeta delle fasi di un medesimo processo
produttivo lo sottragga al controllo statuale (e poco importa, in questo
senso, il fatto che tale fenomeno non coincida sempre con il venir meno della
base nazionale dei capitali).
Meno certezze si hanno su un'altra questione: il mantenimento o meno allo
Stato del monopolio dell'uso legittimo della forza. Da un lato, infatti, si
registra un intensificarsi della attivita' repressiva dello Stato, proprio in
virtu' della necessita' di far passare provvedimenti e misure antisociali
definiti a Bruxelles. Dall'altro si assiste al delinearsi di momenti di
coordinamento tra le polizie nazionali, che muovono dagli strumenti
repressivi dei singoli stati ma li sottopongono in parte ad una istanza
direttiva sovranazionale.
Per questo, c'e' chi si spinge ad affermare che "accadono cose per le quali
le grandi categorie weberiane cominciano ad apparire inadeguate" (G. Bonacchi
, "Un laboratorio a domande incrociate". Il Manifesto, 13 dicembre 2000).
Anche il monopolio della forza, ossia il dominio sulla vita e sui corpi dei
cittadini intrinseco allo Stato moderno (che lo ha esercitato al massimo con
le coscrizioni obbligatorie dei due conflitti mondiali) potrebbe venir meno.
Lo Stato potrebbe dividere sempre di piu' con altri organismi l'esercizio di
determinate funzioni.
Se il tendenziale restringersi delle prerogative dello Stato viene analizzato
con la lente engelsiana, ne escono fuori conclusioni del massimo interesse.
Come si sa, lo Stato per Engels non e' uno strumento nelle mani dei
capitalisti.
Pur sintetizzandone le volonta', esso sviluppa un intervento che -nella
complessita' delle sue articolazioni- e' rivolto alla conservazione del modo
di produzione capitalistico nel suo insieme.
Per questo lo Stato puo' emanare anche provvedimenti non graditi a singoli
capitalisti o a settori del capitale, animati da un egoismo che non li porta
a vedere altro se non il proprio interesse immediato.
Ora, uno Stato che non esercita in modo pieno la sua sovranita' non puo'
adempiere a questa funzione storica.
Solo il luogo in cui coesistono decisionalita' e uso della forza puo' essere
capitalista ideale collettivo. Ma -e torniamo al punto di partenza- tale
luogo si e' venuto a definire?
Alla luce della problematica engelsiana, non e' una domanda da poco. Infatti,
e' impossibile un ordine mondiale quando, ad esempio, le spinte delle singole
imprese non vengano almeno in parte ricondotte alla necessita' di preservare
il sistema nella sua globalita'.
Ne sono coscienti lor signori, per questo guardano alla costruzione europea
con la massima attenzione. Infatti, "l'Europa puo' essere vista come un grande
laboratorio, dove si sperimentano continue trasformazioni degli antichi
confini tra politica e diritto" (Gabriella Bonacchi, cit.):
Di grande importanza, quindi, e' l'analisi del processo di avanzamento
istituzionale dell'Unione, che ha avuto a Nizza una tappa significativa.
Riflettere sulle trasformazioni in corso nella struttura dell'Unione, non ha
senso se non si prende a riferimento la prospettiva dell'allargamento ad Est,
rispetto al quale d'altronde vengono calibrate tutte le misure istituzionali.
E' evidente, infatti, che la prevista entrata di nuovi paesi nell'UE, determini
al tempo stesso nuove possibilita' e nuove questioni per organismi come la
BCE e la Commissione Europea. Per esempio,, all'aumento dei paesi membri non
possono che corrispondere problemi di gestibilita'. Non a caso di essi si e'
parlato a Nizza, adottando precise soluzioni empiriche non prive di impatto
sugli organismi interessati.
Per quello che concerne la Commissione, i grandi Paesi che vi aderiscono
dovranno cedere uno dei loro due commissari, in modo che tutti i paesi -anche
i piu' piccoli- abbiano il loro.
Quando l'UE arrivera' a 27 Stati, inoltre, verra' definito un tetto di
commissari (comunque inferiore a 27) ed introdotto un criterio di rotazione.
Per quello che riguarda la BCE, essa si e' impegnata a formulare una proposta
sulla modificazione della composizione del suo direttivo e dei suoi
meccanismi decisionali, per evitare gli sconquassi che potrebbero derivare
dall'aumento dei suoi membri (da 17 a 29)
Ma le riforme non sono determinate solo dalla risposta a problemi contingenti.
Nella stessa commissione, non potra' che aumentare il potere del suo presidente,
che potra', oltre che attribuire e distribuire gli incarichi ai commissari,
nominare i vicepresidenti, gestire l'organizzazione interna e, quando sia
necessario, dimissionare.
Altra riforma istituzionale sulla quale si e' dibattuto a Nizza, stentando a
trovare un accordo, e' quella legata alla
riponderazione dei voti nel consiglio Ue.
L'orientamento di partenza era di aumentare il peso dei grandi Stati, per
evitare che le decisioni di un'Europa a 27 membri vengano paralizzate dalla
opposizione dei piccoli paesi. In piu' la Germania voleva il riconoscimento
in voti della sua maggiore popolazione. Vi si opponeva la Francia, in virtu'
dei suoi 20 milioni di abitanti in meno. La situazione, per non infastidire
Parigi, e' rimasta formalmente invariata. I quattro grandi (Francia, Germania,
Italia, Gran Bretagna) hanno mantenuto i 29 voti a loro disposizione. I
piccoli paesi, capitanati dal Belgio e dal Portogallo, hanno espresso il
malcontento di chi vuole pesare di piu'.
Le decisioni, alla fine, saranno prese a doppia maggioranza. In partenza
serviranno circa il 74% dei voti (255) sempre che rappresentativi di poco
piu' del 60% della popolazione. In seconda battuta, potra' intervenire una
"minoranza di blocco" con la possibilita' di fermare le decisioni. In essa la
Germania potra' disporre di un potere di veto maggiore di quello degli altri
tre grandi paesi. Se riuscira' ad allearsi con uno dei 3 grandi e con uno dei
piccoli potra' bloccare ogni decisione.
Come si puo' vedere, dagli attriti fra Stati e' scaturito un meccanismo
decisionale quanto mai macchinoso.
Si pensi poi alla attribuzione dei seggi nell'Europarlamento. Esso, dopo
l'ingresso dei nuovi paesi, dovrebbe passare da 626 a 738 membri. Se gli
eurodeputati tedeschi rimarranno 99 (come fotma di compensazione per non
avere ottenuto piu' voti nel consiglio), gli altri grandi dovranno cedere un
po' di seggi ai nuovi venuti.
Ancora una volta Nizza ha dovuto registrare i rapporti di forza concretamente
vigenti fra gli Stati.
Proprio lo scontro tra gli Stati ha impedito il procedere verso una riforma
risolutiva, proprio nella prospettiva dell'allargamento ad Est. Quella
coincidente con l'estensione del voto a maggioranza, con la riduzione al
massimo della settantina di materie in cui il diritto di veto di un singolo
paese puo' bloccare il processo decisionale.
Alla fine si e' giunti ad un accordo su poco piu' della meta' delle materie. Ne
restano escluse la sanita', la scuola ed il fisco. Non solo, ma la Germania
ha frenato su immigrazione e diritto di asilo, mentre Spagna, Grecia e
Portogallo hanno difeso l'attuale elargizione dei fondi comunitari fino al
2007, preoccupandosi di perderne una parte consistente con i nuovi meccanismi
determinati dall'allargamento ad Est.
In sostanza, Nizza e' stata deludente per chi come l'Italia voleva che il voto
a maggioranza qualificata diventasse la regola.
Proprio i fautori di un piu' netto avanzamento della costruzione europea non
sono rimasti soddisfatti dall'appuntamento di Nizza.
In esso poche sono state le decisioni significative a livello istituzionale.
Non dimentichiamo che paesi come l'Italia e la Germania propongono la
definizione di una autentica carta costituzionale europea. Nizza ha mostrato
timidezza non solo rispetto alla Carta dei diritti ed al suo inserimento nei
Trattati, ma anche in relazione a riforme tali da creare un piu' solido edificio
europeo.
A dimostrazione del fatto che lo Stato-nazione, pur privo ormai di molte
delle sue storiche prerogative, non ha ancora fatto il suo tempo, emergono
dissidi come quello tra Francia e Germania, le due realta' nazionali che
possono pesare di piu' nell'Europa Unita.
Certo, la tradizionale logica dei rapporti di forza tra Stati sara' in
prospettiva superata, non appena determinati passaggi costitutivi dell'Unione
in senso politico-istituzionale si saranno determinati e ciascuna entita'
nazionale avra' il suo posto assegnato.
Allora, lo scontro tra i poli rendera' meno importanti i conflitti come quello
franco-tedesco. Ma prima che tale situazione si possa profilare
all'orizzonte, persisteranno molte tracce del vecchio.
Gli attuali dibattiti sul futuro della costruzione europea, gli scontri tra
specialisti sul Superstato o sul ritorno alla complessita' giuridica
medioevale sono aria fritta dunque? Non del tutto. Al di la' degli aspetti
apologetici o di falsa coscienza che vi si possono rinvenire, essi preparano
il terreno per soluzioni non avventate rispetto ai problemi di fondo
dell'Unione. Si puo' dire con certezza che istituti un tempo legati al
movimento operaio ed alla solidarieta' internazionalista come la Fondazione
Basso, svolgano ormai la funzione insostituibile di consiglieri del principe.
Molta acqua dovra' passare sotto i ponti prima di dare risposte definitive ai
quesiti di cui sopra. E probabilmente esse andranno nella direzione che meno
aggrada ai padroni del vapore: probabilmente né il tendenziale Superstato né
il policentrismo decisionale potranno sostituire la capacita' del vecchio
Stato-nazione di togliere le castagne dal fuoco al capitale.
Ma, quale che sia lo scenario cui assisteremo nei prossimi anni, lor signori
potranno sempre contare sull'ausilio e sulla presenza vigilie di
quelle
fondazioni culturali che la evoluzione della sinistra storica ha trasformato
in angeli custodi del nuovo polo imperialista europeo.