Bush l'africano.

Esiste una politica africana di Bush? E, se la risposta è affermativa, quali ne sono le caratteristiche di fondo? Forse è meglio rispondere ad un quesito per volta. E non solamente per motivi di logica o in virtù della complessità delle domande. Ma anche sulla base di una banale constatazione.
La pura e semplice registrazione dell'esistenza di una propaggine africana della politica yankee, porta già con sé la messa in discussione dell'idea, tanto in voga, per cui l'occidente trascurerebbe l'Africa. In sostanza, se di questo continente si occupa quella che sui nostri quotidiani viene definita "Iperpotenza", allora tutto ciò che si è detto sulla sua marginalità va rivisto. Ed è così, d'altronde. Se ancora nel 2000 quel gigantesco insieme di Stati (ma anche di culture) non rivestiva grande interesse per la nazione più potente del pianeta, da un anno a questa parte l'Africa, soprattutto subsahariana, è al centro dei pensieri di Washington.
Che tipo di pensieri? Qui entriamo nel merito della seconda domanda che ci siamo posti all'inizio. E possiamo , in via di prima approssimazione, riassumerne la risposta alludendo a tre questioni: il transgenico, il petrolio e la cosiddetta lotta al terrorismo. Vediamo un po'.
Per scoprire che, in merito al transgenico, la sua massiccia immissione in Africa è veicolata da un discorso che si vorrebbe umanitario. D'altra parte lo sostengono anche liberisti italiani "dal volto umano" come Mario Deaglio: il transgenico può salvare molti paesi dalla fame. Di più, esso è da considerarsi un autentico toccasana per molti dei problemi del pianeta, da affiancarsi senz'altro come sostiene sulle colonne de "La Stampa" lo stesso Deaglio all'adozione di quella Tobin Tax che può frenare gli eccessi legati ai movimenti speculativi di capitale.
Chissà…magari la leadership del Social Forum prova un po' di imbarazzo nell'avere, quali alleati su una battaglia ritenuta importante come quella per il "granello di sabbia", i sostenitori del cibo di Frankenstein. Divagazioni a parte, anche Bush ha deciso di occuparsi della fame in Africa. In tempi duri, durissimi, in cui la questione umanitaria, particolarmente urgente in Africa Australe, in Etiopia ed in Eritrea, riguarda non meno di 40 milioni di persone. Ma al riguardo cosa propongono gli States? Essi sostengono, appunto, di poter rispondere all'emergenza "con massicci aiuti di mais transgenico. Un'offerta generosa, ma anche chiaramente interessata" (Angelo Turco, "Continente sospeso", Nigrizia, gennaio 2003). Come si reagisce a questo proposito americano affatto strumentale? "Per ora un fronte del rifiuto continua a reggere tra Mozambico, Zambia e Zimbabwe, ma non si sa fino a che punto questi paesi potranno resistere all'onda d'urto della carestia" (Angelo Turco, cit.). In sostanza, l'offensiva "umanitaria" yankee dilaga e potrebbe non trovare più sufficienti argini. Neanche in quel campione di demagogia che risponde al nome di Robert Mugabe, il quale nello Zimbabwe sta portando avanti una tardiva -ma necessaria- riforma agraria, provocando mestizia nei proprietari terrieri bianchi e in quegli organi di stampa occidentali che finora avevano visto in lui un esempio di moderazione. Da quando, nel 1979, libere elezioni portarono alla vittoria del suo Zanu, Mugabe ha guidato il passaggio ad un nuovo regime dopo anni di dominio della minoranza inglese ripartendo "saggiamente" il potere: ai neri i gangli amministrativi, ai bianchi il controllo delle risorse economiche. Ora che, per mantenersi in vita politicamente, Mugabe ha deciso di espropriare un po' di farmers e di redistribuire le terre, sui nostri quotidiani è diventato un demonio. Probabilmente, però, neanche lui riuscirà a respingere del tutto la magnanimità statunitense. Come fare d'altronde quando si è presi dalla morsa della fame?
L'amministrazione Usa si rende conto di queste difficoltà, perciò cerca di piazzare, per via umanitaria, le sue eccedenze produttive di transgenico. Di più, le sue finalità rimandano ancora una volta allo scontro, sul piano della produzione agricola, con altri poli economici. Si tratta, infatti, "di sferrare un attacco decisivo alla politica commerciale dell'Ue, contraria a quella liberalizzazione totale degli Ogm che garantisce ampi e duraturi profitti alle multinazionali del transgenico e costituisce l'obiettivo ultimo della battaglia condotta dagli Stati Uniti nel seno dell'Organizzazione mondiale del commercio" (Angelo Turco, cit.).
Ricondotto l'intervento "contro la fame" alle sue motivazioni di fondo, non ci resta che esaminare il secondo aspetto dell'intervento americano: quello relativo all'oro nero. E qui non bisogna sorprendersi se ci si lega immediatamente alla questione centrale che agita lo scenario internazionale in questi mesi: la guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein. Rispetto alla quale, risulta ovvio, è riduttivo parlare soltanto di guerra per il petrolio. Il controllo delle risorse energetiche è di certo uno dei moventi di quella operazione bellica. Tuttavia, essa si lega anche alla necessità di porre un argine all'attivismo europeo nel Medio Oriente, alla volontà di frenare l'offensiva dell'Euro in un significativo spicchio del pianeta.
Comunque l'implicazione energetica, pur se non esclusiva come vorrebbe qualcuno, ha una sua rilevanza in questa guerra. E rimanda al fabbisogno americano di petrolio, alla conseguente necessità degli States di domare definitivamente l'Opec e altri paesi la cui forza dipende dall'oro nero. Come? Piazzando nell'Iraq liberato dall'ex fratello Saddam un regime amico, docile rispetto alla volontà statunitense e disposto a fornirgli greggio a spron battuto; facendo riferimento a nuovi interlocutori per ridurre le quote di petrolio provenienti da alcuni paesi dell'area mediorientale e dalla sempre meno fedele Arabia Saudita in particolare.
Si intende, ad esempio, portare "di qui a una decina d'anni il contributo africano al 25% del fabbisogno americano, grazie al fatto che i paesi africani, salvo l'Algeria, sono produttori non Opec, e quindi non soggetti alle politiche restrittive messe in atto dal cartello per mantenere un controllo sul prezzo del greggio" (Angelo Turco, "Quegli amici di Bush", Nigrizia, dicembre 2002). Ora, si può eccepire all'articolo di Angelo Turco appena citato che pure la Nigeria fa parte dell'Opec. Ma non è che con questa precisazione la musica cambi, anzi. La sostanza del discorso ne risulta ulteriormente confermata. Gli Usa, che con la Nigeria hanno eccellenti rapporti, da mesi stanno premendo affinchè questo paese si prenda la briga di fuoriuscire dall'Opec!
Il tutto si lega ad un attivismo ed ad una presenza in Africa, anche sul fronte diplomatico, che ha del sorprendente se si pensa a qualche anno fa. Illuminante è, in tal senso, la mediazione tra il governo islamico e i ribelli cristiani che nel Sudan, viene portata avanti proprio da quegli americani che avevano senz'altro incluso lo Stato in questione tra le "canaglie" da colpire. D'altronde, oggi gli USA vedono del Sudan anche le "virtù", rappresentate dalla presenza di ricchi giacimenti petroliferi.
Ma la spinta "attivistica" che stiamo descrivendo, ha avuto il suo massimo picco di recente, nell'autunno del 2002. E' vero, nel mese di gennaio del 2003 Bush ha rinviato una sua capatina in Africa, ma l'ha fatto nel pieno della preparazione dell'attacco all'Iraq.
Se torniamo indietro di qualche mese, possiamo registrare che "già agli inizi di settembre tornando da Johannesburg, non erano sfuggite le soste-lampo di Colin Powell in Angola e Gabon, tra i più importanti e sicuri produttori di greggio subsahariano". Di lì a poco, poi, Bush è arrivato a riunire "a Washington ben undici capi di Stato africani, per parlare di investimenti e di aiuti, di lotta alla corruzione e Aids, chiedendo naturalmente contropartite energetiche" (Angelo Turco, cit). Ma chi, in seno all'amministrazione Bush o tra le lobbies che la sostengono ha spinto in questa direzione? Chi ha fatto decidere di aumentare l'importazione di petrolio africano?
Il petroliere Bush, da eletto, non può non fare gli interessi delle grandi multinazionali americane dell'oro nero. E ciò spinge lui ed i suoi più stretti collaboratori a valorizzare i centri di studi strategici che da tempo concentrano la propria attenzione sulle questioni energetiche. Tra questi un ruolo di primo piano è detenuto dallo Iasps (Institute for advanced Strategic and Political Studies). "Creato nel 1984 a Gerusalemme, questo think tank è molto vicino sia al Likud, il partito di destra che da sempre sostiene una strategia di disimpegno dal petrolio saudita, che ai neoconservatori americani" (Jean-Christophe Servant, "Offensiva sull'oro nero africano", Le Monde diplomatique, gennaio 2003). Proprio lo Iasps ha indicato nuove strade agli States, sospingendo l'individuazione di nuovi paesi fornitori di petrolio. I suoi suggerimenti, d'altro canto, hanno avuto maggior peso a partire dall'11 dicembre del 2001. Il che rimanda, sotterraneamente, al nesso tra la guerra attuale e quella in Afghanistan, combattuta, si è detto, contro il terrorismo.
Non è privo di significato, lo ribadiamo, il fatto che mentre si prepara la guerra contro l'Iraq si allacciano rapporti più stretti con il continente africano. Non è una divagazione notare che mentre si accerchia l'"infedele" Arabia Saudita, riempiendo di proprie truppe l'area in cui essa è inclusa, si apre un altro versante per ciò che concerne i paesi fornitori di petrolio. Altro che terrorismo!
Guerra antisaudita era quella contro l'oppressivo regime talebano che tanto si era sostenuto in precedenza, guerra antisaudita, ancora, è quella che mira a rovesciare l'ex alleato Saddam. Ma se interpretiamo gli attuali accadimenti in questo modo, dobbiamo vedere nell'Africa un altro fronte in una guerra dalle implicazioni complesse, un fronte dove gli States non si producono ancora in bombardamenti, ma dove fanno i propri comodi senza guardare in faccia a nessuno, senza porsi il problema di intrecciare rapporti con regimi che definire autoritari è un eufemismo. D'altra parte, la retorica americana è cambiata. La stessa giustificazione della guerra in quanto mossa da problemi umanitari è superata. Essa era più utile nell'era Clinton, quando si doveva cogestire le guerre con altre potenze, che ora che si mira a portarle avanti da soli. E' sbagliato, quindi, quanto hanno scritto Hardt e Negri nel bestseller "Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione", dove la guerra umanitaria è vista come tratto saliente di una intera epoca storica.
Ma lasciamo l'immaginifico professore ai suoi sfondoni analitici ed ai suoi successi editoriali e torniamo al nostro oggetto. Per vedere da vicino quella nuova spregiudicatezza americana cui abbiamo poc'anzi accennato. Essa ha spinto, ad esempio, a cambiare atteggiamento rispetto ad un paese emergente tra i produttori di petrolio: la Guinea Equatoriale. "In questo Kuwait africano il cui prodotto interno lordo è cresciuto del 70% nel 2001e che sembrerebbe disporre di riserve valutate in 2 miliardi di barili di petrolio, gli Stati Uniti si aprestano a riaprire un consolato (...) e a cancellare questo Stato dalla lista dei 14 paesi africani accusati di non rispettare i diritti umani". E pensare che questo paese "viene descritto dal rapporto annuale della CIA come una nazione gestita da dirigenti senza legge che hanno saccheggiato l'economia nazionale" (Jean-Christophe Servant, cit.).
Altro che umanitarismo, tutto -a partire da ciò che accade in Africa- può esser ricondotto in termini immediati alla tradizionale lettura che rimanda agli interessi economici e geostrategici. E a riprova di ciò segnaliamo il modo in cui si vuol coniugare la difesa della risorse energetiche con quella che è la terza manifestazione della presenza yankee in Africa, la presunta lotta al terrorismo. Lo specifica ancora una volta Angelo Turco (sempre nel suo "Quegli amici di Bush"), il quale spiega come sia in cantiere "la costituzione di un comando regionale aeronavale nel Corno, più precisamente a Gibuti: la terza grande base che, dopo Bagram in Afghanistan e il Qatar, dovrebbe completare a sudovest la cintura di contenimento di una sorta di spazio del terrore che si estenderebbe ad arco dagli altipiani semiaridi dell'Asia centrale allo Stretto di Bab al-Mandab, che mette in comunicazione il Mar Rosso con l'Oceano Indiano". Non solo, ma gli USA intendono anche creare un'altra base a "Sao Tomè e Principe nel cuore del golfo di Guinea" per "completare il dispositivo militare americano, con funzione di protezione dei nuovi interessi petroliferi. Le mosse americane, del resto, danno un colpo al cerchio e uno alla botte: nel mentre seguono un disegno strategico complessivo, infatti, esse minano l'immagine di affidabile bastione militare che Parigi intende comunicare all'Africa subsahariana. Gibuti infatti rappresenta a tutt'oggi la più grande base francese sul continente, mentre il Golfo di Guinea, nel cui centro vanno ad insinuarsi gli americani, è presidiato dalle basi di Libreville e di Abidjan". In sostanza, in entrambe le situazioni gli insediamenti militari yankee e quelli francesi si troverebbero faccia a faccia!
E qui emerge con chiarezza il motivo meno esplicito del nuovo interesse americano per l'Africa. Quello che sottende le tre cause manifeste (transgenico, petrolio, "lotta al terrorismo") sin qui affrontate della "campagna americana" di Bush, risultandone l'istanza di collegamento ed il principio ordinatore: la volontà di contenere il protagonismo francese in Africa.
Un protagonismo che sta portando ad effetti disastrosi, come dimostra il dramma del paese che ha proprio in Abidjan il suo principale centro economico: la Costa d'Avorio. Ma, soprattutto, un protagonismo che è meno collocabile di quanto non sembri nel solco della tradizionale presenza francese in Africa. Infatti se è vero che la Francia ha sempre avuto velleità di autonomia dagli Usa, è anche vero che in Africa, pur curando prioritariamente propri interessi, essa, fino al crollo del muro di Berlino, è intervenuta con il beneplacito americano. Agli Usa, infatti, interessava soprattutto che qualcuno, in quel continente, ponesse un argine all'avanzata del "campo socialista". Ma quando questo campo si è dissolto, la situazione è cambiata ed il consenso all'azione lanciata da Parigi è progressivamente venuto meno. A ciò si aggiunga, poi, che l'intervento francese si sta connotando in termini sempre più aggressivi. Esso appare animato dalla volontà di acquisire una egemonia che travalichi di molto i confini della tradizionale politica dell'Eliseo in Africa, storicamente. fatte salve alcune eccezioni, non includenti le ex colonie di altre potenze.
Se ne deduce che la discesa in campo americana in Africa non poteva essere evitata. Il fatto che terzi cerchino di controllare un intero continente non può non scalfire il tentativo della Casa Bianca di mantenere la propria posizione di prima potenza del pianeta.