Costa d'Avorio: fallimento della "via africana al capitalismo" e rilancio della "Franciafrica".

Cosa sta accadendo in Costa d'Avorio? E' dal settembre del 2002 che ci arrivano, da quel paese, immagini di scontri militari e frammentarie notizie di una guerra civile. Al solito, però, gli eventi che si producono in Africa ci risultano indecifrabili. Questo perchè -anche adesso che l'attenzione verso quel continente è aumentata- soltanto gli accadimenti che possono suscitare clamore o essere sfruttati a fini sensazionalistici, trovano uno spazio significativo nelle pagine dei quotidiani.
Ne deriva una informazione segnata dalla discontinuità, che fa sì che ogni evento ci giunga come isolato, al di fuori di qualsiasi contesto e senza che ne siano distinguibili le cause o intuibili le possibili conseguenze. Certo, nel caso della Costa d'Avorio, si è avuto modo anche di leggere, pur nella confusione e nella superficialità dell'intervento mediatico al riguardo, qualche analisi dove le tradizionali spiegazioni sui conflitti in Africa sono relativizzate e/o meglio collocate. Non tutti hanno indugiato esclusivamente sul dato etnico e religioso ed anche i primi articoli, inevitabilmente centrati su quegli aspetti, restituivano la compresenza di altri fattori scatenanti la guerra civile. Si pensi, in tal senso, ad un commento a caldo di Claudio Moffa. Il quale ha così argomentato: "non era solo un golpe, e neppure di un semplice ammutinamento di militari contro il tentativo di estrometterli dalle Forze Armate: quello che sta accadendo in questi giorni in Costa d'Avorio -il simbolo principale, negli anni Sessanta e Settanta, dell'Africa liberalcapitalista- è ormai sicuramente, al di là degli esiti immediati dello scontro, qualcosa di più profondo e pericoloso. La corporativa rivendicazione dei soldati ribelli, vittime allo stesso tempo della riduzione della spesa pubblica e della loro simpatia per l'ex avversario del presidente Gbagbo, Robert Guei" si inserisce "in un conflitto più ampio che coinvolge tutte le dialettiche d'ordine sociale, etno-religioso" del paese, così da polarizzare "attorno a sè il malcontento delle etnie islamizzate del nord" e da trovare "la sua proiezione politica nell'antico conflitto fra il governo attuale e Alassane Ouattara, nemico sia perchè musulmano, sia perchè figlio di burkinabè, e dunque non ivoriano puro". Mediante, poi, "il coinvolgimento di quest'ultimo" la dinamica di scontro in atto "fa pesare su di sè (...) l'onbra di un coinvolgimento dei paesi limitrofi, a cominciare dal Mali e dal Burkina Faso, secondo un modello infausto -tipico segnale della crisi di legittimità degli Stati africani- che ormai è sempre più diffuso nel continente" (Claudio Moffa, Mal d'Avorio, "La Stampa", 23 settembre 2002). In sostanza lo studioso di storia afro-asiatica, dipinge una situazione complessa, quant'altre mai aggrovigliata. Sullo sfondo, sia pur solo accennata, vi è la questione della Costa d'Avorio come modello di "capitalismo africano", modello evidentemente in difficoltà. Eppoi, ad innestarsi su conflitti che sembrerebbero avere origini etniche e religiose, vi è la conflittualità tra Stati nella parte occidentale dell'Africa. In sostanza i paesi vicini in qualche modo ingeriscono, sono parte in causa della crisi della terra eburnea.
E il fatto che altri paesi si siano inseriti, sfruttandolo a seconda delle proprie necessità, nel conflitto in atto, o, addirittura, l'ipotesi che terzi ne abbiano favorito la genesi, è ventilata da tutta la grande stampa internazionale. Su "Jeune Afrique. L'intelligent" numero 2184 ci si chiede -rendendo conto degli armamenti di cui dispongono sia gli "insorti" sia le truppe governative- chi effettivamente li abbia riforniti. Così a proposito dell'equipaggiamento delle forze "lealiste", viene specificato che: "Le gouvernement s'est (...) procurè (sur le stock de l'Angola, après accord entre marchands d'armes israèliens et dirigeants de Luanda) plusieurs vèhicules de combat, des transports de troupe blindès (BMP) de fabbrication russe. L'avantage de ces engins, comme le t-55, livrès, selon les sources, avec des instructeurs angolais ou russe, c'est d'etre relativement faciles à manier" (Eliman Fall, Qui arme qui", "Jeune Afrique. L'intelligent", numero 2184, dal 18 al 24 novembre 2002).
Ma se, appunto, il governo in carica acquista mezzi di trasporto "comodi" da usare, che arrivano per via angolana ma anche israeliana, i ribelli non scherzano. Sono armati di tutto punto. Anche per scontrarsi con un esercito regolare che si avvale del contributo, sia pure a quanto sembra solo consultivo, di mercenari di diverse nazionalità (russi, angolani ecc.). Il notevole arsenale militare di cui beneficiano i ribelli, però, non può derivare solo dalle armi sottratte all'esercito ivoriano. Lo ha detto lo stesso governo: alcune armi usate dagli "ammutinati" non comparivano nell'equipaggiamento di cui hanno sempre disposto le forze armate regolari.
Così anche "Jeune Afrique. L'intelligent" arriva ad indicare, in modo meno netto di altri organi di stampa, Tripoli. Lo fa, certo, semplicemente suggerendo una ipotesi, basata sulla constatazione che molte armi giungono dal nord, attraverso quel Burkina Faso che della Libia è fedele alleato.
Tuttavia, il ruolo di Gheddafi nella crisi ivoriana è sottolineato da riviste di ogni paese e non è improbabile, quindi, che l'istrionico leader nordafricano abbia deciso di appoggiare i ribelli. D'altra parte, la sua ambizione di affermare la Libia come principale potenza della futura Africa Unita può passare anche per la destabilizzazione di intere aree e per la creazione di governi amici in alcuni Stati.
E' ovvio, però, che il progetto libico non può che incontrare resistenze ed opposizioni. Tra queste, anche quella francese, ossia del paese europeo maggiormente presente in Africa. Così presente, da risultare anche uno degli attori principali del dramma che la Costa d'Avorio sta vivendo dal settembre del 2002. Il che, peraltro, evoca gli spettri di un colonialismo tra i più feroci che la storia abbia mai conosciuto. Ma come si sta articolando la ingerenza francese? Essa delineatasi nei giorni immediatamente successivi all'inizio della crisi, si è presentata -in principio- come legata alla necessità di difendere i cittadini francesi in suolo ivoriano.
Tuttavia, l'intervento diretto dall'Eliseo ha ben presto assunto un carattere diverso da quello ufficialmente propagandato. E' indicativa, in tal senso, l'analisi effettuata al riguardo su "Le monde Diplomatique" nel novembre 2002. Il mensile francese colloca l'ingerenza di cui stiamo parlando dentro una precisa svolta nella politica estera francese. Una svolta che porta ad un deciso superamento della prudenza che aveva contraddistinto l'esecutivo guidato da Jospin nell'approccio alle vicende africane.
Si ricorda infatti che: "Provocando un vero e proprio terremoto nel coritle di casa, il governo socialista aveva in particolare rifiutato -nonostante l'auspicio espresso dal presidente Chirac- di rimandare truppe in Costa d'Avorio durante il golpe di Natale del 1999, che aveva deposto il presidente Henri Konan Bediè" (Philippe Leymarie, L'eterno ritorno dei militari francesi in Africa, "Le monde diplomatique", novembre 2002).
La cautela jospiniana, tale da spazientire Chirac, originava da insuccessi di entità tale da arrecare danno all'immagine ed al prestigio del paese, tra cui quello legato all'intervento in Ruanda del 1994, in un paese dove si è consumato un vero e proprio genocidio. La Francia, quindi, per anni si è limitata nell'intervenire in Africa, nei fatti svolgendo solo azioni di sostegno a forze di pace regionali o volte alla evacuazione dei propri cittadini in situazioni di crisi. Ma ora, proprio quello Chirac che -come asseriscono molti commentatori- sta facendo ritrovare alla potenza d'oltralpe la sua tradizionale grandeur, dice di voler superare certi problemi, di non porre più argini all'agire francese, particolarmente nelle proprie ex colonie.
Così la "missione" in Costa d'Avorio -sulla quale, alla partenza, il parlamento francese non ha potuto esprimersi- ha assunto via via caratteristiche ben diverse sia dalla semplice difesa dei connazionali a rischio sbandierata in principio, sia dalla interposizione.
Come sottolinea ancora Leymarie: "Ufficialmente, la missione ha per obiettivo di limitare uno scontro per il tempo necessario a mettere in piedi una improbabile forza di pace ovest-africana, sotto l'egida della Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale (Cedeao). Ma più verosimilmente si tratta (...) di proteggere Abidjan, le regioni del sud e i centri utili del paese, di dissuadere i ribelli dall'andare avanti, di congelare il fronte per dare all'esercito ivoriano allo sbando il tempo di riprendersi" (P. Leymarie, cit.).
Dunque la Francia che, non lo dimentichiamo, ha realizzato, in Africa, accordi di difesa con 7 stati e di cooperazione militare con altri 25 interviene in modo diretto a difesa dei propri interessi. Meno, in realtà, a tutela della compagine governativa guidata dal "socialista" Gbagbo di quanto non sia sembrato a Leymarie. Ma quel che sostiene lo stesso sulle pagine di "Le monde diplomatique" non rimanda necessariamente ad un errore analitico, collegandosi, semmai a quel che è sembrato a tutti l'atteggiamento francese iniziale.
Ancora il 21 dicembre a Duekouè si sono registrati duri scontri tra le forze ribelli ed i soldati francesi, tanto da indurre la stampa legata alle prime a denunciare un presunto schieramento dell'Eliseo in favore di Gbagbo e dei suoi. Ma così non è, almeno nel senso dell'appoggio totale che si temeva pochi mesi fa. Il che testimonia della estrema complessità della situazione, dello sforzo che dobbiamo sostenere per comprenderla appieno.
Uno sforzo che ci deve far entrare ulteriormente nella situazione ivoriana, sviluppando questioni sin qui appena accennate. Si tratta di focalizzare l'attenzione sugli aspetti etnico-religiosi del conflitto, ossia di soffermarsi, in un primo momento, sulla superficie dei problemi. Una volta esaurito il discorso sulle apparenze fenomeniche (lo scontro tra musulmani e cristiano-animisti) dell'evento bellico attuale, non sarà poi difficile risalire alle sue cause ultime. A qualcuno il nostro potrà sembrare uno sforzo inutile.
C'è, d'altra parte, chi certe letture le ha escluse a priori. Si pensi ad un generoso commentatore dell'attività del governo in carica com'è inevitabilmente l'ambasciatore della Costa d'Avorio in Italia, già operaio immigrato in questo paese. Egli asserisce con decisione che: "(...) non c'è un conflitto etnico-religioso. Nel governo del presidente, il ministro degli esteri Abudhramane Sangare, è un musulmano, come del resto il Presidente del Parlamento. Non è vero che tutto il nord è musulmano. Vero è che tutti cercano di venire al sud, la parte più ricca del paese, con il porto di Abidjan, le foreste, le piantagioni di cacao di cui siamo il primo produttore del mondo" ("Costa d'Avorio, i ribelli vogliono la legge della giungla, intervista all'ambasciatore Zady a cura di Corrado Giustiniani, "Il Messaggero", 24 dicembre 2002).
Una difesa d'ufficio, è vero, ma tale da evidenziare alcuni degli interessi concreti che muovono alla battaglia in Costa d'Avorio. Tuttavia, se l'aspetto etnico non può esser considerato una causa scatenante della guerra, è vero che esso persiste come problema in un paese che -considerato per decenni un modello di stabilità in Africa- ha sempre avuto una fortissima necessità di richiami alla concordia interna. Si pensi, in tal senso, ai proclami in cui era uso cimentarsi il padre della patria Houphouet-Boigny. D'altra parte "Houphouet sapeva bene (...) che la Costa d'Avorio si basa su di una costruzione politica fragile. Le frontiere coloniali hanno acquistato il tracciato odierno solo nel 1947, mentre prima comprendevano una parte dell'attuale Burkina Faso occidentale. La popolazione, inoltre, è frammentata in una miriade di gruppi etnici, assemblati in quattro conglomerati umani -mandingo, akan, kuru, voltaici- nessuno dei quali tuttavia è esclusivo della Costa d'Avorio, ma si espandono senza soluzione di continuità nei paesi confinanti (Angelo Turco, Sull'orlo del precipizio, Nigrizia, novembre 2002).
Questo è dunque il quadro, segnato a un tempo dalla annosa questione dei confini definiti arbitrariamente dal colonialismo e dalla presenza di diverse etnie, che potrebbero agevolmente coesistere solo nel caso in cui il "miracolo ivoriano" di cui si è sempre parlato, fosse un fenomeno reale. Ma evidentemente così non è, in una paese in cui l'immagine stessa di prosperità lanciata all'esterno ha richiamato lavoratori dai paesi circonvicini.
Sono tanti gli immigrati in Costa d'Avorio. Talmente tanti -soprattutto quelli provenienti dal limitrofo Burkina Faso- che verrebbe da dire che in quel contesto tutto si può fare fuorchè insistere sulla purezza ivoriana, su un senso di appartenenza legato alla internità ad una specifica etnia.
Eppure proprio a questi motivi si è fatto riferimento, negli ultimi anni, sospingendo lotte intestine di tale crudezza da stravolgere il paese.
Proprio a partire dal governo di Henri Konan Bediè, deposto -come si è visto- nel 1999, si è introdotto un discorso nazionalistico e legato al concetto di "Ivorianitè", con la evidente finalità di eliminare dalla contesa elettorale un rivale politico, l'impuro Ouattara. Le ricadute di tale campagna ai limiti della xenofobia esplicita, sono state, sul piano istituzionale, pesanti: in seguito ad essa si è modificata la costituzione per stabilire che possono essere candidati alla presidenza solo coloro i quali siano nati in Costa d'Avorio e da madre e padre "indigeni".
E' vero, Bediè è stato rovesciato da Robert Guei. Ma nel 2000, alle elezioni, ha vinto quel Gbagbo che, soprattutto all'inizio, non ha messo all'ordine del giorno il superamento della "mistica ivoriana" precedentemente affermatasi. "E' in questo quadro" quindi, "che scoppia il bubbone del 19 settembre". Bene, questa è la situazione, ma la domanda persiste: che sta succedendo in Costa d'Avorio? "Un ammutinamento, un colpo di Stato, un'invasione di mercenari, una guerra civile, una lotta intestina del regime in carica, un attacco di un paese straniero? Niente, veramente di tutto questo eppure un po' di tutto questo" (Angelo Turco, cit.).
Già, in questo nostro cimento ricapitolativo, sembreremmo esser tornati indietro nella analisi della situazione ivoriana. Eppure abbiamo fatto consistenti passi in avanti. Nel senso che adesso possiamo porci le domande giuste. Com'è possibile che in un paese contraddistinto dalla prosperità, si sia giunti ad uno scontro tra nord e sud di quelle proporzioni? E perchè la classe dirigente ivoriana si è lasciata andare ad una lotta che non si può non definire fratricida? E' evidente, rispondendo alla prima domanda, che il modello ivoriano era molto meno positivo di quanto non abbiano riportato certe leggende. Mentre al secondo quesito si può rispondere sostenendo che un certo modo di scontrarsi interno ad una classe dirigente è già il sintomo di una sua intrinseca debolezza.
Ma cerchiamo di uscire dal generico.
La Costa d'Avorio per anni è stata indicata come esempio di una possibile "via africana al capitalismo". Charles De Gaulle amava definirla la "perla francese" in suolo africano. Abidjan, l'ex capitale, è da decenni meta dell'immigrazione di quanti non possono arrivare sino al "paradiso", cioè in Europa.
Trattasi infatti di una città moderna, ricca di iniziative economiche, segnata da una attività febbrile che ne avvicina i ritmi a quelli dominanti nelle megalopoli occidentali.
Ma, al di là di ciò che lascia apparire la città-vetrina, quali sono i limiti che infirmano lo sviluppo ivoriano? Si può dire con tranquillità che "la storia economica della Costa d'Avorio mostra la perfetta continuità tra i meccanismi dell'economia coloniale e le scelte neocoloniali compiute dai politici africani all'indomani dell'indipendenza (1960). Nella divisione internazionale del lavoro imposta dall'Europa, all'Africa è stato assegnato il ruolo di immenso serbatoio di materie prime minerarie o agricole. Lo storico burkinabè Joseph Ki-Zerbo osserva spesso che i paesi africani oggi come cinque secoli fa, esportano materie prime e importano manufatti: la struttura dell'economia ivoriana durante la colonizzazione ricalca questa impostazione. Questo territorio, una volta diventato Africa Occidentale Francese, deve fare i conti con tre grandi società concessionarie -Cfao, Scoa e Unilever- che dominano i settori della coltivazione dei prodotti d'esportazione (cacao e caffè, introdotti con metodi violenti nel 1908, la pianta del caucciù, palma da olio, ananas) e quello della commercializzazione dei prodotti francesi: la stessa cosa accade agli altri paesi sotto la dominazione francese. Poca trasformazione in loco dei prodotti coltivati" (Jean-Lèonard Touadi, "Quant'eri capitalista Abidjan", "Nigrizia", gennaio 2003).
Questa dunque è la situazione che ha caratterizzato il paese in quanto colonia e che ne connota ancora la realtà produttiva. Una situazione che non si è certo risolta in senso positivo con l'indipendenza formale ottenuta -appunto- nel 1960. Il presidente padre della patria Houphouet-Boigny ha sempre portato avanti una linea precisa nel continente. Egli ha contrastato duramente ogni spinta volta alla piena acquisizione di autonomia da parte dell'Africa, sostenendo la possibilità di un "rapporto costruttivo" con le potenze capitalistiche occidentali. Di qui, l'ostilità della Costa d'Avorio verso ipotesi come quella panafricana portata avanti -nei primi anni '60- dal presidente del Ghana Nkrumah. Di qui, il mantenimento -di contro all'atteggiamento di altri Stati africani- di rapporti, sia pur ufficiosi, con il Sudafrica dell'Apartheid.
Ora, questo atteggiamento marcatamente filo-occidentale della Costa d'Avorio ne rivela la sostanziale subalternità all'imperialismo. Una subalternità che può essere spiegata facendo riferimento, secondo l'indicazione espressa da Touadi nell'articolo che abbiamo appena citato, ad un libro del sociologo Jean Ziegler intitolato Le mani sull'Africa. In tale testo, il paese di cui stiamo parlando viene definito "una protonazione, ossia una realtà territoriale segnata da una 'socialità rudimentale, limitata nella sua costruzione, asservita ai bisogni esclusivi di coloro che la organizzano dall'esterno". Ne consegue che si può tranquillamente descrivere la Costa d'Avorio come "una creazione dell'imperialismo dotata di una sovranità fittizia, una perfetta succursale dell'economia del paese che ne costituisce il centro'". Infatti, "numerose società multinazionali francesi vi hanno impiantato settori importanti della loro attività da dove controllano il resto dei loro affari sparsi nel continente" (Jean-Lèonard Touadi, cit.).
In sostanza, lo Stato nel quale è scoppiata la ormai nota crisi del settembre 2002, è -a livello africano- un esempio tra i più lampanti di dipendenza e dal punto di vista politico e da quello economico.
E' per questo che la sua classe dirigente svolge come funzione principale quella di tutelare gli interessi francesi, rispondendo solo in subordine alla volontà di precisi settori della sua popolazione. Rappresentati, peraltro, da coloro che si contendono -nel quadro della subalternità alle imprese francesi- il controllo del cacao o da settori della burocrazia o della borghesia locale che svolgono la funzione di intermediari per l'Eliseo.
Per il resto, l'assenza di un tessuto produttivo endogeno - l'altra faccia dello "sviluppo dipendente ivoriano"- impedisce il consolidarsi di una autentica borghesia nazionale, in grado di conquistare non tanto una vera indipendenza (trattasi di un obiettivo che nessuna borghesia nazionale di un "paese in via di sviluppo" ha mai conseguito pienamente), quanto almeno di contrattare quote significative dei proventi dello sfruttamento selvaggio della forza lavoro locale da parte delle imprese straniere. Il che rende la classe politica, la dirigenza del paese poco più di un orpello, di un manto che ricopre il pieno esercizio del dominio da parte dell'Eliseo. La sua tendenza a lasciarsi guidare da un personalismo violento e la spinta a soffiare sul fuoco del conflitto etnico per annientare gli avversari, originano quindi dalla sua debolezza strutturale, dal suo essere autonoma da qualsiasi spinta attraversi la società ivoriana.
C'è da chiedersi, però, perchè questa classe politica riesce a tutt'oggi ad avere seguaci. Perchè, cioè, interi settori della società si fanno prendere da certe spinte. Il vuoto progettuale, a ben vedere, non riguarda poi soltanto chi presiede all'esecutivo del paese, ma anche la opposizione armata. E' vero: il Movimento patriottico della Costa d'Avorio si batte per eliminare le discriminazioni etniche, però non presenta un programma articolato. E le altre forze della ribellione non esprimono in modo chiaro nemmeno un plausibile motivo per spiegare perchè hanno scelto la via dello scontro frontale e militare.
Il punto, per Toaudi, è che "il paese si ritrova privo di una guida politica in grado di agevolare in modo pacifico la rinegoziazione di un patto nazionale che passa anche attraverso l'individuazione di un modello economico che non lasci per strada nessuno dei disperati pronti a seguire qualunque leader pronto a garantire loro, oltre al kalashnikov, anche un pasto e un futuro fuori del capitalismo selvaggio" (Jean-Leonard Touadi; cit.).
E c'è del vero in queste affermazioni, sebbene siano inficiate dalla mancata sottolineatura della impossibilità dell'affermazione di una siffatta classe dirigente, dotata di un proprio disegno riformatore e di una propria progettualità, nel contesto attuale. Diciamolo chiaramente: se in Costa d'Avorio non si avvia un processo di sganciamento dall'imperialismo, con la combinazione della lotta dal basso, di classe, con quella per la indipendenza dalle potenze capitalistiche, risulterà essere una chimera anche il semplice superamento dello scontro permanente tra fazioni, ammantato o meno che sia di motivazioni etnico-religiose. Ma se la instabilità ivoriana, generata -in ultima istanza- da uno sviluppo dipendente dalla Francia, dilaga e diventa un elemento permanente, proprio le imprese della ex potenza coloniale ne rimangono danneggiate. Dal loro punto di vista il caos va contenuto, per poter portare avanti i propri affari con una relativa tranquillità. In tal senso deve leggersi quella recente mediazione francese che sembra aver smentito categoricamente l'idea che l'Eliseo fosse attestato su posizioni di netto sostegno a Laurent Gbagbo.
La conferenza tenutasi a Marcoussis, in prossimità di Parigi, a metà gennaio del 2003, sotto l'egida dell'ONU e con la partecipazione -oltre che delle parti in causa, governo ivoriano e ribelli- dei paesi membri della Cedeao (comunità economica degli stati dell'Africa occidentale), nonchè di organismi religiosi come l'italiana Comunità di Sant'Egidio, rivela il vero senso dell'intervento francese in Costa d'Avorio. E umilia le utopistiche le velleitarie spinte alla autosufficienza connesse al lancio della ipotesi dell'Unione Africana. Ma entriamo nel merito. Alcuni commentatori hanno letto nella volontà francese di intervenire per stabilizzare la situazione, una concessione agli interessi delle compagnie petrolifere francesi, interessate dal ritrovamento di petrolio al largo della Costa di San Pedro. Ora, il motivo petrolifero non è da sottavalutare, figuriamoci. D'altra parte, il fatto che la Francia porti avanti una propria politica energetica risulta chiaro a tutti ed è motivo secondario, ma non irrilevante, della sua posizione verso la guerra yankee all'Iraq.
Ma ciò non basta. Non basta a spiegare, ad esempio, perchè la Francia abbia insistito, a Marcoussis, per integrare due esponenti dei ribelli nel governo ivoriano, trasformandolo in un esecutivo di unità nazionale. E rischiando quella frizione con Gbagbo che poi si è concretizzata. Quest'ultimo, infatti, ha accettato a malincuore le proposte francesi in sede di trattativa, salvo denunciarle al ritorno in patria, dove il governo ha promosso oceaniche manifestazioni in cui addirittura si chiedeva agli americani di intervenire contro la politica di Chirac in Costa d'Avorio!
Perchè dunque, i francesi si sono mossi così? Perchè questa ricerca della stabilità a tutti i costi? Perchè l'obiettivo attuale di Chirac è quello di rilanciare quella tradizionale dottrina di intervento nel continente in cui ha sempre creduto: la Franciafrica. Di più, la dottrina in questione oltre ad essere rilanciata, viena anche modificata. L'imperialismo d'oltralpe, infatti, si era fino ad ora diretto principalmente verso i paesi che erano già stati colonie francesi. Ora, come dimostra la conferenza franco-africana tenutasi a Parigi tra il 19 ed il 21 di febbraio, con la partecipazione di ben 37 Stati africani, esso abbraccia tutto il continente. Come inquadrare altrimenti la presenza a quell'evento (presenza fortemente criticata dai tabloid inglesi) dello Zimbabwe di Robert Mugabe, di un paese, cioè, che in passato è stato subalterno all'Inghilterra?
Bene, se il progetto è di tale portata si può dire che il conflitto ivoriano per certi versi è stato una manna. Ha dato la possibilità di intervenire di nuovo in Africa, per giunta con l'approvazione dell'ONU ( in tal senso, non si dimentichi che una risoluzione posteriore a Carmoussis ingiunge a Gbagbo di rispettare gli accordi e autorizza i francesi -in caso contrario- a procedere in senso militare, a fianco di truppe dei paesi africani). Ma al contempo il caos dell'ex perla cara a De Gaulle non deve propagarsi. Perchè la Francia deve fare della Costa d'Avorio la base logistica per la conquista di una parte significativa del pianeta.
Non sappiamo se il disegno francese sarà portato a completa attuazione. Quel che è certo, dato il contemporaneo interessamento di Bush al continente africano, è che le terre più martoriate del globo si apprestano a diventare quelle in cui più esplicitamente si consumerà lo scontro interimperialistico.