Domande e risposte sulla guerra preventiva.

Domande e risposte su un avvenimento complesso, rispetto al quale non è semplice districarsi. Nella selva di commenti, di letture, di interpretazioni di cui quotidianamente veniamo a conoscenza, ci si può orientare attraverso una bussola ben precisa. Quella che ritiene il multipolarismo ormai in atto e che sostiene sia imprescindibile partire, nella considerazione di qualunque evento internazionale, dal presupposto che lo scontro interimperialistico sia già in fase avanzata. Un presupposto, d'altra parte, confermato in questo numero dalle stesse vicende africane, più intrecciate con la "questione irachena" di quanto non sembri.
Domande e risposte sulla guerra, dunque, nel segno dell'umiltà, del dubbio, ma anche di certezze acquisite con l'analisi.

1) La "seconda guerra del Golfo" è una guerra per il petrolio?

"No blood for oil" fu già lo slogan più diffuso nel 1991, quando si trattava di contrastare la prima guerra del Golfo. Già allora, però, si affacciarono altre letture oltre a quella legata alla questione petrolifera. Alcune, in qualche modo, possono essere ritenute valide anche per l'oggi, anche per spiegare l'evento bellico attuale. A suo tempo, Valentino Parlato ebbe a dire che la guerra all'Iraq era, in buona sostanza, un tentativo dissimulato di attaccare Berlino e Tokyo. Quanto a Gunder Frank, egli pose l'attenzione sulla necessità di riavviare il ciclo dell'accumulazione capitalistica, distruggendo in Iraq infrastrutture e settori di capitale, per poi dare luogo alla ricostruzione. Bene, questi motivi scatenanti la guerra del '91 sono presenti anche in quella che si sta consumando adesso.
Con una differenza: la questione petrolio ha ora una maggiore rilevanza. Nel recente passato, mai gli States avevano avuto tante difficoltà e motivi di frizione con l'Arabia Saudita come ora. Nè una così forte necessità di approvvigionarsi di continuo di oro nero, di controllare pozzi e giacimenti. Proprio per questo, la nuova guerra del Golfo è ancor più determinata dalla questione petrolio di quella che si svolse nel '91. Tanto da rientrare in una strategia più ampia, legata al controllo dell'oro nero su scala planetaria. Una strategia che porta, ad esempio, ad ingerire pesantemente in Venezuela, dove il governo demopopulista del generale Chavez propugna l'opzione di uno sviluppo autonomo, basato sul controllo diretto -da parte di settori della propria borghesia, si intende- delle proprie risorse. Una strategia, ancora, che porta a sviluppare nuovi rapporti con quei paesi africani che, non facendo parte dell'OPEC, risultano avere scarsa forza contrattuale. Ma il culmine di questo disegno non può che essere l'acquisizione -a scapito di Francia e Russia- del possesso diretto delle risorse di un grande produttore come l'Iraq.
Ciò per motivi che vanno anche al di là del controllo diretto delle risorse.
Gli USA vogliono infatti impedire, avendo base fissa nel Medio Oriente, l'accesso alle principali rotte del petrolio da parte dell'UE. Non che quest'ultima fondi la propria opzione di sviluppo solo sull'oro nero, ma qualsiasi soggetto politico ed economico ricaverebbe un danno dall'esser tagliato fuori dal controllo delle vie dell'oro nero. Soprattutto ora che alcune fonti- inglesi, del Mare del Nord- risultano in via di esaurimento. Eppoi non bisogna dimenticare che il colpo ad una eventuale politica energetica dell'UE si colloca dentro un attacco più complessivo nei riguardi di questo nuovo polo imperialistico.Un attacco teso ad indebolirne la presenza in quel Medio Oriente che avrebbe buone possibilità di associarsi all'area valutaria europea e a rafforzare di contro Israele, ossia il principale bastione americano in quella parte del pianeta.
Ma frenare l'Europa Unita non è l'unico obiettivo americano. La guerra non è forse infinita? Non rimanda alla definizione di un "Nuovo ordine democratico"? Si può dire senza tema di smentita che la guerra preventiva vuol scongiurare il rischio di un rafforzamento di altre potenze imperialistiche, colpendole nel vivo dei loro interessi. Si pensa di attaccare l'Iran per il suo programma di riarmo nucleare, ben sapendo che esso è portato avanti con la cooperazione russa e prendendo l'occasione per scalzare Putin da quell'Asia centrale ch'egli sente come il "cortile di casa" di Mosca. Di qui l'opposizione russa all'attacco all'Iraq. Una opposizione che conferma ciò che avevamo avuto modo di scrivere nel terzo numero di "Junius Brutus" (in un articolo intitolato "Le guerre di Putin"), quando intravedemmo il barcamenarsi dell'ex funzionario del KGB tra Europa ed USA, nonchè quanto fosse di facciata -coprendo una sostanziale divaricazione di interessi- la docilità di Mosca verso la potenza yankee.
Ma se qualcuno ha insistito fino a ieri sul logoro motivo della totale subalternità russa a Washington, nessuno si è mai espresso negli stessi termini parlando della Cina. Che è già stata vittima del "fortuito" bombardamento della propria ambasciata a Belgrado nel 1999. E che ora, attraverso la alleata Corea del Nord, presa dalla esibizione della sua "proliferazione nucleare", lancia provocazioni. Anche la Cina, d'altra parte, in quanto soggetto protagonista di una incontenibile espansione economica, è nel mirino. Si tratta solo di trovare il momento per insediarsi vicino a questo potenziale colosso, attaccando quell'immensa galera che è il paese guidato da Kim Jong Il. Ed è impresa difficile, che non può essere attuata subito ma che nei piani degli strateghi di Bush non risulta neanche troppo lontana. Per questo non riteniamo del tutto giuste le valutazioni espresse settimane fa dal direttore di Limes Lucio Caracciolo. Quest'ultimo ha posto l'accento sul fatto che Osama Bin Laden e l'11 settembre abbiano spinto gli States a rinviare il regolamento di conti con il loro principale avversario "strategico": la Cina. La quale quindi, dallo sviluppo della guerra in Medio Oriente, potrebbe trarre due vantaggi: quello di non esser toccata subito dall'ira americana e quello, conseguente, di avere più tempo per dedicarsi a curare il proprio sviluppo economico, gettando le basi per diventare effettivamente una grande potenza. Ora, c'è del vero in queste troppo decise asserzioni. Ma il ritardo con il quale -procedendo a spron battuto sulla via di una guerra mediorientale la cui estensione è stata paventata, con le minacce a Siria e Iran, in questi giorni di guerra- gli USA potrebbero cimentarsi con un "attacco alla Cina" (mediato, naturalmente, dalla questione coreana) non rimanda al realizzarsi di quest'ultimo scenario bellico sul lungo termine. La guerra contro la Corea, nella migliore delle ipotesi, potrebbe verificarsi entro un termine medio (ad esempio, di qui a 5 anni). L'interesse di Pechino è quindi, in senso proprio, ora che la guerra preventiva è iniziata, quello di incepparne gli ingranaggi. Perchè prima o poi toccherà anche alla Cina e per giunta dopo un lasso di tempo evidentemente non sufficiente per consolidare la propria posizione e per avere i rapporti di forza adeguati alla tenzone.
Senza contare il fatto che gli USA, attaccando sul medio termine, come già ventilato, l'Iran, non solo colpirebbero un paese che ha ottimi rapporti con Pechino, ma arriverebbero ad aggiungere un nuovo tassello a quel proposito di controllo complessivo dell'Asia a cui stanno lavorando da tempo, creando roccaforti un po' ovunque (Filippine, Afghanistan ecc). In sostanza, la Cina ha la necessità di accodarsi, sia pure in termini sfumati, al fronte antiguerra preventiva che si sta creando nel mondo. Per contrastare un ciclo bellico teso a frenare l'irrompere di nuove forze nel proscenio planetario. Un obiettivo, invero, non distante da quello coltivato nel '91, quando si tentava, senza darlo a vedere, di frebare Berlino e Tokyo. Ora, magari, si parla, in termini più espliciti, di contenere la spinta concorrenziale rispetto agli USA manifestata da Bruxelles (e quindi ancora da Berlino) da Pechino e Mosca, ma la musica –a parte il fatto non trascurabile che le potenzialità dei concorrenti degli USA sono maggiori che 12 anni fa- non cambia.
Ed il terzo motivo citato in principio, quello legato alla necessità di distruggere per ricostruire?
C'è anche quello è ovvio. Non a caso il quantitativo di bombe riversato sull’Iraq attualmente è molto maggiore che nel '91. E oltretutto esse sono dotate di una maggiore "intelligenza". Intendiamoci: tale intelligenza la rapportiamo non ad un calcolo umanitario di cui agli USA importa poco, come dimostrano i mercati e gli ospedali colpiti, bensì alla scientifica pianificazione della distruzione di infrastrutture e settori di capitale. Per ravvivare, attraverso una ricostruzione in cui molti capitali americani troveranno finalmente sbocco, quell'economia yankee che di certo non sta passando un periodo felice.

2) L'Unione Europea sarà la prima vittima della "Guerra preventiva"?

L'obiettivo UE è tutto sommato esplicito in questa nuova guerra americana. E ciò rimanda non soltanto al tentativo, già accennato, di frenare l'affermazione del nuovo polo imperialistico nel mondo, ma anche a quello di distruggerlo, di disarticolarlo. La paura americana nei confronti delle potenzialità di questo soggetto politico-economico emergente giunge a tanto. E ottiene anche qualche risultato, evidenziando forti spaccature in seno alla Unione Europea. Le lacerazioni sono di tale portata da non potersi escludere un arresto anche significativo del processo di integrazione economica, politica e militare della Europa Unita.Un arresto, però, che non può comportare il venir meno dell Unione Europea. Lo dimostra la stessa unità di facciata sulla guerra raggiunta il 17 febbraio. E' vero, non stiamo parlando di un significativo passaggio nella direzione della conquista di una politica estera comune da parte dei paesi europei, poiché ogni paese ha mantenuto le proprie specifiche posizioni e le frizioni più gravi non sono state superate. Tuttavia, quel momento, con tutto il suo carico di formalismo, ha evidenziato che i quindici non vogliono buttare a mare un percorso, non totalmente, almeno. Il che può risultare insufficiente, dal momento che nuove sfide attendono l'Unione, ma rimane il fatto che la volontà di mantenere in vita il carrozzone europeo c'è, sebbene ognuno la declini a modo suo.
Ora, si tratta di vedere da vicino le posizioni di alcuni dei paesi più importanti. Solo così, infatti, si potranno comprendere sia la vera entità della ferita apertasi nell'UE, sia le possibilità di un suo rimarginarsi. La prima impostazione con la quale ci confronteremo è quella che maggiormente svolge un ruolo di freno al processo di integrazione europea, e sul piano politico e sul piano militare: quella inglese. Chè è forse più complessa di quanto non sembri, di quanto non lasci intendere il puntuale schieramento a fianco degli USA da parte del Regno Unito. L'Inghilterra, infatti, è contemporaneamente o -alle volte- alternativamente due cose: il gendarme yankee sulla costruzione europea ed il gestore per proprio conto del rapporto USA-UE. In sostanza, i legami economici e politici che essa sviluppa con la maggiore potenza mondiale la pongono in una condizione di inevitabile subalternità, condizione che porta l'isola a svolgere una mansione di controllo per conto terzi sulla costruzione europea. Ma, in verità, la Gran Bretagna, gioca o vorrebbe giocare anche una partita propria, che rimanda a suoi specifici interessi e non alla subordinazione al colosso d'oltreoceano. Essa, per esser più chiari, vorrebbe essere il trait d'union tra Europa e Stati Uniti diventando per ognuno dei due termini di di questo ormai problematico rapporto, l'insostituibile intermediario. Lo ha evidenziato, un po’ di tempo fa, Napoleone Colajanni su Il Sole 24 Ore e decisamente non gli si può dar torto, salvo sottolineare che in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo, tale ruolo è assai difficile da adempiere.
Così difficile che qualsiasi sforzo di praticarlo in questo momento risulta vanificato o addirittura trasformato nel suo esatto contrario, ossia in qualcosa di così strettamente funzionale agli USA da far perdere respiro ai discorsi inglesi. Per esemplificare, l'appello degli 8 -fortemente voluto, tra gli altri, da Blair- è una iniziativa che ha portato l'Europa Unita ad una spaccatura, senza favorire l'assunzione della funzione di trait d'union tra due mondi cui tanto anela l'Inghilterra. Certo, la rottura, sia pur non ancora definitiva che ne è derivata, può avere anche qualche effetto positivo per Blair. Nel senso che, indebolendo l'Europa già prima del suo allargamento, si fa in modo che essa si configuri in futuro più come spazio economico comune che come spazio politico. Il Regno Unito, da sempre propositore di questa versione debole dell'UE, quindi, ne ricava un vantaggio non da poco, ma nel complesso si può dire che la sua ambizione più profonda continua a non essere soddisfatta.
Che si può dire, invece, della Francia? La Francia ha altre mire. E' o non è un paese a forte vocazione europeista, anzi il paese che difende l'onore dell'Europa come ha sostenuto, con insopportabile retorica, Bernardo Valli su La Repubblica? Invero, le cose sono un po' più complesse di come appaiono a tutta prima. Attualmente, è vero, la Francia si muove su una linea di coerente europeismo e -d'altra parte- lo scetticismo sulla Unione non fa parte del suo bagaglio politico e culturale.
Tuttavia, il suo atteggiamento non è stato sempre così lineare. Se andiamo a decifrare il dibattito, in larga misura incomprensibile, tenutosi negli ultimi tempi sulla architettura istituzionale dell'UE, scopriamo che la Francia ha portato avanti fino a ieri una posizione, per così dire, conservatrice. Una posizione, cioè, in cui la rinuncia dei singoli stati alla propria sovranità veniva dosata. La Francia proponeva di rafforzare il Presidente del Consiglio europeo, organo dove si incontrano gli esecutivi dei paesi della Unione, rivelando la propria adesione ad una logica intergovernativa , alternativa ad una visione federalista del nuovo Polo. Ora, tale posizione è stata accantonata, almeno nella sua originaria formulazione, in favore di una sintesi con la proposta tedesca, fautrice di un aumento delle prerogative della Commissione e del suo Presidente. Ma l'impianto che la sottendeva la dice lunga sulla matrice dell'europeismo di marca parigina.
In sostanza, la Francia non può porsi compiutamente in una ottica federalista, perché ritiene di poter contare di più in una Europa che sia ancora assieme di Stati. Nello stesso tempo, mentre cerca di consolidare una posizione egemone nel "vecchio continente", si adopera per conquistare un ruolo di potenza nello scenario mondiale, come dimostra il suo attuale protagonismo africano. Ma, proprio lo scenario africano, tra gli altri, dimostra che essa non può muoversi da sola, perché le risulterebbe difficile, in proprio, sostenere lo scontro con gli States. Essa ha bisogno di una copertura, quella di un polo come l'UE, ad esempio. Percio si può dire che la Francia, dalla contrapposizione interimperialistica, ulteriormente inasprita in tempi di guerra, è sospinta verso un più deciso sostegno al rafforzamento dell'Europa Unita.
Tanto da sfumare alcune sue posizioni tradizionaliste e da mitigare la tendenza all'egemonismo dentro l'UE, venendo incontro, in parte, alle attese tedesche. Per gli sciagurati che credono nell'Europa politica -tra i quali si colloca anche Toni Negri- la Francia ora gioca un ruolo positivo. Inficiato, però, da certi pregressi. La sua volontà egemonica in Europa ha spaventato parecchi paesi, che la pongono quasi sullo stesso piano di quella che viene definita iperpotenza. Inoltre, essa ha contribuito ad allungare i tempi di una riforma istituzionale europea, consona alla prospettiva del passaggio dell'UE a 25 paesi. Tuttavia ora, come si diceva, la Francia si muove in una ottica parzialmente diversa, sviluppando un tandem vero e proprio con quella Germania che è - per molti versi- lo Stato più conseguentemente europeista, nonchè lo Stato che ha maggiormente spinto per un Polo politico ed economico segnato dalla logica del federalismo.
E soprattutto quello che ha posto l'accento con più vigore e per primo sulla ipotesi di un'Europa a due velocità, divisa tra gli Stati fondatori o comunque più interni al suo progetto, portati quindi a conseguire livelli sempre nuovi di integrazione (economica, politica, militare) e gli altri. Ossia, i paesi che risultano essere dentro il continente della moneta unica ma che non partecipano di tutti i piani della unificazione (che però possono arrivare a condividere in un secondo momento, quando si sentono pronti per farlo).
Tale progetto tedesco -delineato in particolare da Fischer- ha subito considerevoli battute d'arresto ma è quello più razionale nel momento in cui l'Europa si allarga e rischia pertanto di perdere in identità comune. Esso risponde alla perfezione all'interesse germanico, alla proiezione di Berlino verso est. Ma la dinamica di guerra sta accentuando le divisioni proprio con i nuovi arrivati, con i paesi in procinto di entrare. Si pensi alla Polonia, beneficiaria di prestiti americani molto consistenti. Quel paese ha fatto non solo la scelta di firmare l’appello degli 8, ma anche di dare ad esso un seguito pratico, inviando propri uomini in Iraq. Il che testimonia che la partita ad Est è ancora aperta: l'entrata dei nuovi paesi potrebbe assecondare l'ipotesi inglese di uno spazio economico comune senz'anima politica, oppure segnare dei punti in favore della opzione tedesca, rafforzata dall'adesione di Parigi.
Certo, vi sono tante altre variabili da affrontare nello sviscerare la questione europea, non solo il nodo dell'est, dei nuovi aderenti . La variabile italiana, ad esempio, di cui trattiamo dopo e che, in ogni caso, sul piano dell'interesse del paese rinvierebbe più che all'attuale filoamericanismo spinto, ad un europeismo morbido con aperture verso gli USA. E' una posizione di non poco conto, d'altronde, quella di Roma, dato che l'Italia si appresta ad avere la presidenza UE nel secondo semestre del 2003. Ora, se la politica italica evolverà in senso meno filoyankee sarà acqua al mulino della Europa Unita, in un contesto in cui, come si sosteneva prima, nessuno ha interesse a gettare a mare tutto. Nemmeno la Gran Bretagna di Blair che vuole una UE debole, poco connotata politicamente, ma non così ridotta a larva da interdire a Londra qualsiasi ruolo di ponte tra "due rami di una stessa civiltà". Per non dire degli altri paesi. In sostanza, le contraddizioni non mancano ma la guerra -e, in generale, l'inasprirsi della contraddizione interimperialistica- non hanno come unico effetto quello di lacerare l'Unione, spingendo anche al ricompattarsi dei più convinti europeisti. Assisteremo dunque ad una dialettica serrata. Cosa dobbiamo auspicare?
Diciamo che, dal momento che il processo di costruzione del Polo imperialistico europeo non è reversibile, noi dobbiamo sperare in un ritardo nei suoi tempi di attuazione. Ciò per due ordini di motivi. In primo luogo in virtù del fatto che un rafforzamento dell'Europa intesa come entità politica non eserciterebbe una azione di freno al bellicismo yankee, se non in un primo momento, già sul medio periodo esacerbando i termini dello scontro interimperialistico in atto. Se è vero, infatti che la guerra all'Iraq viene portata avanti dagli USA non per congenita cattiveria, bensì per arginare l'Unione Europea, il profilarsi di quest'ultima come potenza, precipiterebbe il pianeta in una conflittualità sempre più aperta, con richiesta di schieramento dei proletari dei diversi continenti in un fronte o nell'altro. In secondo luogo, occorre auspicare questo ritardo in considerazione del fatto che l'Unione che si andrà a configurare avrà, forse, una spruzzata di "sociale", ma -presa dalla necessità del riarmo, col conseguente aumento delle spese militari, e dalla competizione economica con gli altri poli- porterà avanti politiche sempre più antipopolari.
Per di più, senza che vi sia un movimento di classe continentale degno di questo nome. Un movimento, cioè, che non si configuri ambiguamente in quanto "sinistra interna" alla Europa Unita, organizzandosi su una scala non più solo nazionale, perché la controparte è anche l'UE, sta anche a Bruxelles.

3) Qual è il senso della posizione italiana?

Non è facile rispondere a questa domanda. In passato, rendendo conto delle notevoli oscillazioni della politica berlusconiana in relazione alle questioni internazionali, abbiamo avuto l'ardire di sostenere che l'Italia non aveva più una politica estera. Ora, il problema sembrerebbe essere superato. E nella direzione di un filo-americanismo alquanto spinto. E' vero, Berlusconi continua a cambiare tono ogni volta che incontra il leader di un paese ritenuto importante. E continua a rilasciare dichiarazioni che si negano l'una con l'altra. Tuttavia, una scelta l'Italia gestita dal centrodestra l'ha fatta. Una scelta netta, che si è concretizzata nella firma del famigerato appello degli otto in risposta alla dura presa di posizione contro l'unilateralismo yankee sostenuta da Francia e Germania.
Una scelta diversa da quella espressa da altri paesi europei, capaci di gestire un atteggiamento contrassegnato dall'equilibrismo, dalla ricerca di buoni rapporti e con l'asse franco-tedesco e con gli USA. Si pensi all'Olanda, tra i paesi che -in occasione della riunione del 17 febbraio che doveva portare l'Europa a superare ogni frizione interna- si sono barcamenati.
Il punto è che uno Stato come l'Olanda si ritrova stretto tra opposte necessità. Interno al Benelux e tra i fondatori della costruzione europea, mantiene rapporti economici con Francia e Germania ma ha anche multinazionali con forti legami con le imprese inglesi e americane. Ma l'Italia, che ha preso una posizione assai più filoamericana di quella portata avanti dalla patria di Van Gogh, quali interessi economici può veder soddisfatti con l'attuale impresa bellica?
Non risulta facile rispondere a tale quesito. Vi sono settori di capitale finanziario che hanno grande possibilità di intervento in Israele. E, per ciò che riguarda la ricostruzione dell'Iraq e la possibile partecipazione ad essa, si sa che l'Italia ha qualche chance. Nel senso che a Kuwait City, la città che sarà il luogo di riferimento per il capitale finanziario una volta che si aprirà la fase della rinascita di un paese che verrà letteralmente distrutto, si sono già affacciati Mediobanca ed altri soggetti per prenotarsi, per dire: vogliamo un posto anche noi. E lo avranno, non c'è dubbio alcuno. Ne hanno pieno diritto, d'altra parte, dato che l'Italia ha spaccato l'Europa per seguire l'impresa militare anglo-americana. Ma il punto è che il loro ruolo sarà comunque subalterno. Non solo perché la penetrazione del capitale finanziario italiano in quell'area non è forte (e in Kuwait non ha nessuna tradizione), ma anche perché altri faranno la parte del leone.
Insomma, i vantaggi saranno scarsi, quando e per chi ci saranno. Se poi pensiamo all'ambizione di una politica energetica autonoma, quella, per intenderci, legata all'azione dell'ENI in alcune aree del mondo, essa potrebbe andare a farsi benedire. Attraverso la diplomazia targata ENI l'Italia ha contribuito allo sdoganamento di paesi come la Libia e l'Iran, ma ora si potrebbe tornare indietro rispetto a tale risultato. L'Iran è o non è, secondo la dottrina dei Cheney e dei Rumsfeld, uno stato-canaglia? Gli Usa -di certo poco interessati al nodo della oppressione della donna, così mirabilmente descritta nel film Il cerchio di Jafar Panahi- non gli perdonano la politica di cooperazione sul versante militare-nucleare con la Russia di Putin. Ma ad esser danneggiata da un attacco all'Iran sarebbe non solo la potenza eurasiatica, ma anche la stessa Italia. I sogni di gloria dell'ENI incontrerebbero morte sicura sul fronte iraniano. E senza che la grande impresa italiana riceva almeno un contentino in Iraq. Essa, ci è stato ricordato di recente, è stata inserita dagli americani nella black list di chi ha investito troppo nello stato canaglia che ha la sua capitale a Teheran. Perciò sarà probabilmente esclusa dagli appalti petroliferi iracheni. Addio, quindi alla possibilità –che da tempo si stava delineando- di sfruttare i giacimenti di Nassirya, addio piccolo compenso iracheno per la grande, futura perdita iraniana…
Ecco che si spiega la sia pur morbida opposizione di ampi settori della stampa italiana alla guerra. Cosa ci veniamo a guadagnare dalla guerra? Poco o niente, anzi essa potrebbe risultare addirittura controproducente per i nostri affari in giro per il mondo.
Questo è il ragionamento in cui si producono pennivendoli come il mite Ferruccio De Bortoli. Il direttore del Corsera non ha forse detto che bisogna essere contro la guerra attuale perché dopo l'Iraq verranno l'Iran, la Siria ecc.? E allora ecco che l'americanismo spinto del Berlusca arriva a risultarci sganciato da un disegno politico vero, disancorato da specifici interessi materiali. A spingere verso gli USA il cavaliere ci pensano settori del capitale finanziario, così come ad allontanarlo dall'UE ci prova -riuscendovi almeno in parte- quella piccola e media impresa che non sosterrebbe la competizione in un sistema economico-politico dall'altissimo livello di integrazione. Ma la razionalità politica vorrebbe un'Italia non attestata sul filo-americanismo spinto. Un'Italia che costruisca l'Europa senza subordinarsi a Francia e Germania e che mantenga un legame privilegiato con gli States. Non è casuale se un quotidiano come Il Sole 24 ore sia arrivato a criticare, ponendoli sullo stesso piano, Bush e Chirac, rei di voler modellare il mondo a propria immagine e somiglianza. E' chiaro il messaggio lanciato dall'organo confindustriale. L'Unione Europea deve procedere ma senza che vi si approdi ad una incontrastata egemonia di Parigi e di Berlino. L'Italia vi deve pesare, giuocandovi un ruolo proprio così come nello scacchiere internazionale, senza tuttavia rompere con gli USA. Rispetto a Washington si tratta di essere né sudditi, né in palese contrasto, tutelando comunque i propri interessi quando siano calpestati dalla potenza più forte del pianeta. Ma la firma all'appello degli 8, criticata sull'importante quotidiano economico da Adriana Cerretelli smentisce la posizione che la Confindustria nel suo complesso sembra richiedere al governo italiano. Una posizione peraltro molto soft rispetto agli States e che vuole giungere per gradi, nel rispetto delle esigenze dei pesci piccoli del capitalismo nostrano, al conseguimento di nuovi traguardi istituzionali per l'Unione.
Berlusconi la poteva sostenere subito e invece si è schierato nettamente. L'ha fatta grossa. Ha seguito un De Michelis che sembra la controfigura di sé stesso ed altri consiglieri, tradizionalmente poco lucidi, tutti dell'avviso che la guerra poteva essere risolta non solo in un baleno, ma anche senza eccessivi strascichi. Ora, nelle scorse settimane era parso che il premier e –soprattutto- i suoi consiglieri, avessere avuto modo di riflettere. Così, l'esecutivo, senza smentire un passaggio poco calibrato come quello dell'appello incriminato, è sembrato allinearsi sempre più alle indicazioni di Ciampi, introducendo piccole distanze non solo dagli USA, ma anche da quel Blair che pure ha svolto una funzione di freno delle spinte yankee più segnate dal delirio unilateralista. D’altra parte, se il "povero Berlusconi" ha cambiato un po’ il verbo, nelle settimane scorse, sfumando le posizioni più belliciste, non è solo perché ha tenuto conto dei cortei di massa che si sono svolti in tutto il paese, né in virtù della dura presa di posizione contro gli States da parte del Vaticano.
Sono tutti fenomeni che hanno inciso, ma non nel senso di determinare per intero le giravolte berlusconiane. Il Cavaliere si è reso conto di aver preso una cantonata, firmando l’appello degli 8, ed ha cercato di riparare, di avvicinare –almeno formalmente- l'Italia ad una posizione come quella olandese.
Una politica dei buoni rapporti con tutti, d’altra parte, è quel che ci vorrebbe per l'Italia. Che dovrebbe sempre rivolgere un occhio all'UE ed un altro agli USA.
Non è questo ciò che sostiene Ciampi? A questa linea il cavaliere –già mal consigliato da un ceto politico dilettantistico- si è progressivamente allineato. Non senza ritorni indietro, però. Si pensi al fatto che, attualmente, il Berlusca si è prodotto in un sia pur moderato sostegno alla ipotesi di un “protettorato” anglo-americano sull’Iraq… E, possiamo starne certi, l’altalena del governo di centrodestra in politica estera continuerà, pur nel prevalere del motivo della alleanza stretta con gli USA.
Ma il problema di fondo, il nodo che attanaglia la politica estera italiana -lo rivela proprio ciò che abbiamo appena argomentato- non è quello sottolineato dalla stampa italiana di sinistra e non rimanda alla sola incapacità berlusconiana. Esso, in sostanza, rinvia alla debolezza strutturale del capitalismo italiano, che impedisce al paese non solo di avere forza, ma anche di far assumere una fisionomia precisa alla propria politica estera. Da quel che si è visto, l'Italia dovrebbe avere come linea guida nella politica internazionale un continuo arrampicarsi sugli specchi, stando dentro e fuori i processi, ritagliandosi spazi in zone di confine tra le posizioni più definite che agiscono nello scacchiere internazionale.
Qui, dunque, risiede il senso più profondo della posizione italiana sull'odierna guerra all'Iraq. Il che rimanda al fatto che le difficoltà che ha l'attuale esecutivo non sarebbero totalmente superabili da un governo cosiddetto di centrosinistra. Certo esse emergerebbero con minore vigore, dato l'ancoraggio dell'Ulivo a settori del capitalismo italiano dalla forte vocazione europeista. Ma rimarrebbero sullo sfondo a determinare comunque oscillazioni, quando non gli sbandamenti di cui sembra essere campione l'uomo di Arcore.

4) Perché i media insistono con forza sul pericolo dell'antiamericanismo?

Trattasi di una domanda-chiave. Infatti, mai come oggi è aperta la critica nei confronti del colosso americano. Una critica che, a ben vedere, risulta assolutamente maggioritaria nel mondo politico e nei media. Certo, essa si presenta in forme diverse a seconda degli organi di stampa considerati: una cosa è leggere le riserve rispetto all'unilateralismo americano espresse dall'imprenditore Carlo De Benedetti sul suo quotidiano (La Repubblica) e un'altra confrontarsi con gli atti d'accusa rivolti verso gli Stati Uniti da editorialisti come Sandro Curzi o Luigi Pintor su noti giornali "comunisti". Rimane il fatto che -con tutte le possibili differenze nei toni o anche nei contenuti- è una autentica maggioranza quella che, in questo paese come nel resto d'Europa, critica gli States.
Quel che ci si può chiedere, quindi, è perché si continua a condannare l'antiamericanismo quando, in sostanza e neanche troppo velatamente, lo si promuove, sia pure in forma soft. E perché, ancora, con l'eccezione rappresentata dal Manifesto e da Liberazione, da un giornalista come Antonio Gambino, quasi tutti insistono sul fatto che è pericoloso eccedere nella critica rivolta alla iperpotenza.
Diciamo che le ragioni di questo atteggiamento carico di ambivalenze sono diverse. Anzitutto, vi è una parte consistente delle forze politiche italiane ed europee che degli Stati Uniti criticano le maggiori asprezze e la spinta a fare da sé, a contrastare -attraverso l'unilateralismo- l'emergere di nuove potenze, il pieno manifestarsi, quindi, di un assetto multipolare nel pianeta. Ora, queste forze possono denunciare fino ad un certo punto gli USA. E' vero che esse sono lievemente divise, al loro interno, tra chi vuole un rapporto paritetico, non subordinato ma comunque stretto con gli States e chi ritiene vi siano già le condizioni perché l'Europa si muova in condizioni di totale autonomia. Però, nell'un caso come nell'altro, quel che si propone è un polo imperialista dal volto umano! Un Polo che redistribuisca un po' di reddito ai suoi sudditi, evitando le punte più aspre del liberismo. Un polo che promuova forme di relazione commerciale con l'America Latina o con altre aree del mondo, basate sul proprio tornaconto ma meno improntate ad una logica di scoperta rapina di quelle portate avanti dagli Stati Uniti.
Un soggetto politico economico, poi, che non disdegni di intervenire militarmente, dosando, però, le sue proiezioni militari, controbilanciandole con quegli strumenti della diplomazia di cui l'amministrazione yankee fa sempre più a meno. Ora, siffatto soggetto non risulta essere totalmente alternativo alla politica attuata dagli Stati Uniti, riprendendone aspetti significativi e smussandone quelli più contestabili. E' per questo, quindi, che si vuol frenare l'antiamericanismo. O, per meglio dire, è per questo che da un lato lo si promuove, dall'altro se ne vuole contenere il dilagare. Perchè la critica feroce agli Stati Uniti è anche la critica feroce di quel che potrebbe diventare un domani -e che già in parte si ritrova ad essere oggi- l'Unione Europea. Che dobbiamo fare noi in questo contesto?
Di certo non è nostro compito portare avanti una critica esclusivamente rivolta agli Stati Uniti d'America, al loro agire con prepotenza sulla scena planetaria o al modo di vita ed alla cultura di cui sono portatori. Le critiche agli Stati Uniti, l'opposizione alla principale potenza del mondo, condivise da milioni di persone in tutto il mondo, vanno collocate in un discorso diverso da quello propugnato dalle forze della sinistra istituzionale, in Italia e non solo. Occorre rendere il dissenso ormai di massa verso il cosiddetto strapotere yankee chiaro a sé stesso. Il nostro dovere è, in ultima analisi, quello di farlo sfociare nel rifiuto esplicito di ogni iniziativa imperialistica, da qualsiasi parte provenga, nonché nella denuncia radicale non solo dei furori liberistici che animano i Chicago Boys ed altre scuole di economisti americani, ma anche del capitalismo in quanto tale, in quanto modo di produzione basato su uno sfruttamento sempre più intenso delle persone e delle risorse naturali. In questo modo, avremo di fronte a noi un fenomeno meno carico di ambivalenze, meno controllabile dal potere costituito del cosiddetto antiamericanismo.
Meno ambiguo, perché l'antiamericanismo, soprattutto laddove si carichi di significati di contestazione culturale, può confondersi con i tradizionali messaggi sul ritorno alle nostrane e pure tradizioni lanciati da certa destra e da una parte consistente dell'universo cattolico.
Più eversivo, meno gestibile da chi vuole conservare l'esistente, perchè un nitido discorso contro il capitalismo e l'imperialismo non può esser fatto rientrare negli schemi di lorsignori. Non può esser vezzeggiato, incoraggiato, accompagnato quando risulti utile, per poi essere accantonato quando ne se ne riveli meno funzionale la spinta contestativa. L'antiamericanismo, per concludere, è in fondo l'unica forma di radicalità che ci viene concessa. Cerchiamo di creare qualcosa di diverso. Rifiutiamo i loro doni ed i loro vincoli, per produrre il nostro, autenticamente radicale, rifiuto dell'attuale stato delle cose.

5) Quali prospettive può avere il movimento contro la guerra?

La risposta a tale quesito necessita di una premessa. Dal nostro punto di vista, l'attuale movimento contro la guerra, forse il più grande della storia, è un fenomeno straordinario. Esso si va ad agganciare, d'altra parte, ad una istanza contestativa di massa a livello planetario che, manifestatasi in primo luogo in quel di Seattle, è andata crescendo sempre di più. Proprio da una valutazione su quest'ultima partiremo, per poi procedere verso una migliore considerazione del movimento contro la guerra. Ora, nel guardare al cosiddetto "popolo di Seattle" noi partiamo da quell'approccio materialistico, che risulta essere poco in voga tra le avanguardie autoproclamate, del resto spiazzate da un movimento che le ha scavalcate. Perciò non consideriamo i contenuti espliciti delle mobilitazioni in atto da anni come gli elementi più rilevanti per una corretta valutazione di una onda che sempre più agita il pianeta. La questione centrale è, a nostro avviso, la composizione sociale del cosiddetto movimento no global. Composizione che non rimanda, come si dice erroneamente, ai soli ceti medi insoddisfatti, alla piccola borghesia frustrata e quindi protestataria e via sciorinando un profluvio di stereotipi di bassa lega, per giunta spacciati per "analisi marxista". E' ovvio: vi sono dei settori sociali che si identificano immediatamente nelle attuali parole d'ordine del movimento no global. Vi è, ad esempio, il reticolo dell'associazionismo, la galassia delle ONG sul cui benefico agire abbiamo -con le dovute eccezioni- assai profondi dubbi. La critica rivolta dal marxista americano James Petras alle ONG, critica che abbiamo letto sulle pagine di Contropiano, è tutt'altro che infondata e la sua definizione delle stesse come portatrici di una sorta di "liberismo dal basso" risulta essere calzante.
Ma questo tessuto, pur importante, non esaurisce il movimento . Se noi lo osserviamo attentamente, quando si manifesta nei suoi immensi cortei, il movimento appare non solo variopinto, ma anche composito. In esso sono presenti tutti i settori di ciò che definiamo "proletariato universale", non solo gli intellettuali "di sinistra". Il problema è che questi segmenti della classe unica a livello planetario non sempre si autopercepiscono per quello che sono. Spesso, nei grandi cortei che attraversano le nostre metropoli (e parliamo proprio dell'Italia adesso) persone che vivono una condizione di estrema precarietà, legate come sono alle nuove forme del contratto di lavoro (co.co.co ecc.), si autorappresentano non come sfruttati, come parte della classe oppressa, bensì come insoddisfatti da questo sistema, difensori dell'ambiente che vogliono arginare lo strapotere delle multinazionali e via discorrendo. E' così. Però è un fatto che nel movimento il proletariato c'è. Non è ancora cosciente, non ha ancora effettuato il passaggio da classe in sé a classe per sé, ma è presente, scende in piazza. E, se si approccia la questione su un piano più generale, prendendo a riferimento tutti i continenti, si scopre che del movimento fanno prarte i contadini filippini che lottano contro le politiche della FAO, le donne nigeriane che si oppongono -a un tempo- alla Sharia islamica ed alle multinazionali petrolifere come la Shell e tanti, tanti altri soggetti sfruttati. Tutti interni al proletariato universale. Tutti interni ad una realtà capitalistica che ha superato qualsiasi confine, introducendo le modalità di produzione proprie del capitalismo avanzato nei "paesi in via di sviluppo" oppure arrivando a comprendere, nel circuito mondiale delle merci, prodotti che derivano da prassi artigianali o in origine legati all'autosussistenza delle singole comunità. Sì, questa è la base del movimento planetario attualmente in lotta contro i "nefasti effetti" della globalizzazione. Ed è una base che costituisce un nocciolo duro, una importante articolazione sociale dell'ancor più ampio movimento contro la guerra. Il che dimostra che si può agire con efficacia sia nella lotta contro la cosiddetta "globalizzazione", spingendo alla sua trasformazione in lotta contro il capitalismo sia nella lotta contro la guerra.
Con diversi gradi di difficoltà, è vero.
Lo testimonia, d'altronde, il caso italiano ed il ruolo esercitato dai Cobas e dagli altri sindacati di base nel cosiddetto movimento antiliberista. Esso è stato sin qui positivo, ma non tanto in virtù della linea concretamente portata avanti da queste strutture del mondo del lavoro, quanto in conseguenza di ciò che le stesse oggettivamente rappresentano. In sostanza, il loro stesso muoversi dentro il movimento in questione, ha portato molti giovani precari a rappresentarsi finalmente per quello che sono. Le grandi manifestazioni del sindacalismo di base ed autorganizzato del 2002 una funzione positiva l'hanno infatti avuta. Il loro ruolo è stato quello di far lottare per i propri bisogni precise componenti del proletariato, legate a quelle nuove figure sociali precarie che fino ad allora, se erano scese in piazza, lo avevano fatto in cortei genericamente antiglobalizzazione. Le manifestazioni di cui stiamo parlando, vissute da chi scendeva in piazza come non scisse da quelle svoltesi, poniamo, contro i summit del capitale e a sostegno dei palestinesi, hanno contaminato il movimento, hanno introdotto in esso la contraddizione capitale/lavoro. E' possibile che si verifichi un fenomeno simile anche per il movimento contro la guerra? Sì, anche se ci sono dei segnali non positivi e qualche difficoltà in più. I segnali negativi rimandano proprio al comportamento del sindacalismo di base ed autorganizzato, attestato -il più delle volte- su posizioni antiamericane, teso semplicemente radicalizzare quei termini diffusi di opposizione alla guerra che, informa soft, ritroviamo pure su Micromega. Dietro queste scelte possiamo individuare sia scelte tattiche sbagliate, sia limiti analitici; sta di fatto che -al di là dell'intenzionalità dei Cobas e degli altri- il loro effetto è pesantemente negativo sul movimento. E si ricollega alle difficoltà in più di cui prima dicevamo.Che derivano dall'atteggiamento di gran parte della classe politica e dei media nei confronti della mobilitazione contro la guerra. Un atteggiamento di incoraggiamento, volto a canalizzarne la spinta verso un sostegno attivo all'Unione Europea o alla causa di una ONU riformata. Insomma, se con il movimento "no global" si dosano -in parti uguali- il bastone e la carota, con quello contro la guerra la seconda predomina nettamente sul primo.
Se guardiamo al caso italiano lo capiamo meglio. Un quotidiano come La Repubblica dice di dialogare con i no global, ma poi ne rifiuta tutte le soluzioni ai mali del pianeta, anche quelle che noi -da un altro punto di vista- saremmo propensi a considerare misure palliative se sganciate da una più generale lotta contro il capitalismo. D'altra parte, il quotidiano dell'ingegner De Benedetti, sul piano dello smantellamento di ogni residua garanzia sociale picchia duro, anzi durissimo. L'imprenditore progressista e rampante di cui stiamo parlando, non è forse il più convinto assertore di una radicale riforma del sistema previdenziale?
Però alla guerra attuale La Repubblica si oppone. E' vero: editorialisti come Rampoldi sostengono chiaramente che l'Europa deve armarsi per conto proprio e fare il "lavoro sporco" in piena autonomia dagli USA dando ad intendere i veri obiettivi del "pacifismo dell'ultima ora" di quel quotidiano; ma le firme più prestigiose del principale organo di stampa della sinistra istituzionale, arrivano invece a confondere le acque, cercando di creare un legame col movimento contro la guerra più saldo. Bocca, rifacendosi ai suoi ideali da partigiano delle brigate Giustizia e Libertà, arriva a lambire la durezza del Social Forum nella critica agli USA "potenza imperiale". Scalfari, invece, individua nelle piazze del 15 febbraio il "popolo europeo", la base di una Unione seganta dai valori e non solo dalla moneta unica. Il loro gioco risulta chiaro e se ad esso assommiamo la retorica europeista da Il Manifesto, comprendiamo che presenta forti difficoltà veicolare un discorso diverso sulla guerra, far emergere una posizione contraria a tutti gli imperialismi.
Ma le difficoltà non ci debbono spaventare. Semmai devono tradursi in una sfida da raccogliere. Le grandi manifestazioni di piazza ci dicono che certi motivi (l'europeismo ecc.) hanno una certa diffusione presso chi si mobilita contro la guerra. Ma è una diffusione che coincide con la potenza dell'apparato mediatico che li amplifica e non con una loro convinta assunzione da parte delle masse, con una loro interiorizzazione da parte dei settori proletari.
In sostanza,, seppur difficile, il compito che si ha di fronte non risulta impossibile. Soprattutto se la prassi quotidiana di cui si è portatori, spinge ad un contatto quotidiano con i soggetti sfruttati, soprattutto laddove si sia riconosciuti o radicati nei territori e nei luoghi di lavoro. Infatti, in tal caso si è agevolati nell'individuare quei temi che maggiormente possono essere recepiti da chi scende in piazza ad anche da chi non si mobilita. Facciamo un esempio. Si è detto che La Repubblica sostiene la causa del riarmo europeo, da ottenere mediante l'aumento delle spese militari. Ora, una campagna tradizionale come quella contro le spese militari, normalmente ancorata alle conseguenze sociali delle stesse (taglio di altre voci della spesa pubblica ecc.), non può esser ripresa e nuovamente collocata, in una ottica di esplicita opposizione ad ogni imperialismo?
E' solo un piccolo esempio, per far capire quale dovrebbe essere -dal nostro punto di vista- l'atteggiamento dei militanti rispetto al movimento contro la guerra. Un atteggiamento che richiede pazienza, umiltà e l'onestà intellettuale di chi non attribuisce i propri insuccessi ad una presunta, congenita idiozia di chi scende in piazza.