Campagna di boicottaggio Coca-Cola

Il gigante USA continua a perdere colpi e richiama Isdell dalla pensione


COCA COLA E LA TEMPESTA IN LATTINA
Un mare di accuse: ieri di aver appoggiato le azioni dei paramilitari in Colombia; oggi di assetare l'India. Il colosso americano è sempre più sotto assedio

Testata: CorrierEconomia - Supplemento economico del Corriere della Sera
Autore: Massimo Gaggi
Data: 5 Dicembre 2005
Pagina: 17 - richiamo in prima

Vent'anni fa Roger Enrico, allora capo della Pepsi Cola, scrisse un libro: "How Pepsi won the cola wars".
Fu un po' precipitoso: la Coca Cola, che allora era stata superata dalla Pepsi dopo i pessimi risultati del lancio sul mercato della "New Coke", si riprese e nel giro di pochi mesi scavalcò di nuovo, e distanziò, il suo rivale.
La Pepsi si è rifatta negli ultimi anni: grazie alla diversificazione nelle bevande non gassate e nelle merende è diventata il quarto gruppo alimentare mondiale, lasciando molto indietro la Coca Cola.
Assediata dai contestatori di mezzo mondo, la società di Atlanta non ha nemmeno il tempo di pensare al primato perduto: oggi, quando parlano di Cola Wars, i media non pensano più alla Pepsi, ma alle accuse che piovono sulla Coca Cola da più direzioni. 

Sulla società continua a pesare il sospetto di aver appoggiato in Colombia l'azione di organismi paramilitari contro i sindacati locali.
Una serie di attacchi gravissimi, in uno dei quali è stato ucciso un esponente delle organizzazioni dei lavoratori.
La vicenda colombiana, all'origine del boicottaggio minacciato in Italia contro lo sponsor dei Giochi Olimpici, risale a qualche anno fa, e non è stata mai chiarita nonostante le proteste e le ripetute iniziative delle università americane che minacciano di mettere al bando le lattine di "Coke" dai loro campus fino alla soluzione del caso.
La Coca Cola si è sempre dichiarata innocente, sottolineando che nessun suo esponente è stato incriminato in Colombia. Ma alla fine, per fermare una campagna che la danneggia sul piano commerciale e dell'immagine, ha accettato di indagare su quanto accaduto in Sudamerica.
La ricerca, condotta da una società di investigazioni private, la Safety Compliance Corporation, si è risolta in un'assoluzione della Coca Cola. La cosa ha fatto ancor più infuriare gli attivisti, visto che l'indagine è stata commissionata e pagata dalla stessa Coca Cola.
Così nel giugno scorso la società ha concordato con l'Università del Michigan, anch'essa pronta a mettere al bando la popolare bevanda, l'avvio di un'indagine affidata ad un organismo indipendente. Le promesse ottenute in Italia sembrano ricalcare questo schema.

Ma non è la Colombia l'unico problema per la Coca Cola: oggi il fronte più caldo è diventato, per l'azienda, quello della "guerra dell'acqua" in India, un mercato in piena espansione nel quale il gruppo di Atlanta controlla ben 68 stabilimenti.
I guai - che in una certa misura riguardan anche la Pepsi - sono cominciati circa un anno fa quando i tribunali di alcune province indiane hanno cominciato a mettere sotto accusa i produttori di soft drink per la presenza di tracce di pesticidi  nelle loro bevande.
Cinque mesi fa la Corte Suprema indiana ha imposto alla Coca Cola (e alla Pepsi) di indicare sulle etichette la quantità di pesticidi contenuta nei vari prodotti imbottigliati.
Le due compagnie sono riuscite a dimostrare di non avere responsabilità dirette nella faccenda: il Paese, infatti, è letteralmente imbevuto id queste sostanze, visto che, ad esempio, l'India ha fatto massiccio uso del Ddt fino a tempi recentissimi.
Un certo livello di contaminazione è quindi inevitabile e le aziende americane sostengono che i limiti di legge non sono mai stati superati.
Ma la difesa della Coca Cola ha finito con lo scoperchiare una pentola ancora più pericolosa per la società di Atlanta: quella dell'utilizzo, nel processo di imbottigliamento, di enormi quantità di acqua, la risorsa più preziosa - e più scarsa - dell'India.
Dal Rajastan a Benares, villaggi e città si sono sollevati contro la multinazionale americana accusata di condannare popolazioni affamate a soffrire anche la sete; il tutto per poter confezionare le "bibite dei ricchi". La campagna è condotta da Amit Srivastava, un attivista indiano residente negli USA che ha fondato una Ngo in California (d cui è l'unico dipendente): da solo tiene in scacco il gigante di Atlanta.

La Coca Cola nega ogni addebito, sostenendo che i suoi stabilimenti assorbono meno del consumo di acqua delle zone in cui operano: il grosso viene assorbito dall'agricoltura. Ma ammette che, ad esempio, l'impianto di Benares consuma circa 600mila litri d'acqua al giorno. Negli ultimi anni il fabbisogno necessario per produrre un litro di bevanda gassata (compreso lavaggio delle bottiglie e pulizia degli impianti) è sceso da 3,1 a 2,7 litri di acqua. Sempre troppo, dicono gli ambientalisti, per l'India che è uno dei Paesi più assetati del mondo.
La Coca Cola promette di fare di più, recuperando anche l'acqua piovana, e lamenta di essere diventata il facile bersaglio di ogni contestazione e di ogni campagna populista, solo perché è un'icona della civiltà dei consumi che opera in 200 Paesi. Per gli agricoltori quel che conta è che fino a qualche anno fa bastava arrivare a 10-12 metri di profondità per trovare l'acqua, mentre dopo la costruzione degli stabilimenti della Coca Cola, per raggiungere una falda acquifera è divenuto necessario scavare pozzi di 50 metri.
Ma la Corte Suprema del Kerala ha respinto le richieste di risarcimento danni perché ha verificato che, anche mesi dopo la sospensione dell'attività degli impianti della Coca Cola, le falde dell'area hanno continuato a impoverirsi, probabilmente a causa della scarsità delle piogge monsoniche.

Neville Isdell, un irlandese 62enne richiamato dalla pensione per prendere le redini di un gruppo che continua a perdere colpi, sta cercando di disincagliare la Coca Cola e di riportarla in mare aperto.
Ma è costretto a combattere su tre fronti.
In primo luogo deve fronteggiare una struttura aziendale rigida - protetta dal "politburo" dei vecchi azionisti capitanati dal mitico Warren Buffet - contraria all'innovazione e alla diversificazione dei prodotti: l'ultima novità di successo, la Diet Coke, è del 1982, mentre la Pepsi ha affiancato al business declinante delle bibite gassate quello dei succhi (Tropicana), delle acque minerali e delle bevande sportive (Gatorade).
In secondo luogo Isdell deve fronteggiare le contestazioni relative alle attività estere della multinazionale: problemi che conosce bene, visto che in passato ha governato le attività del gruppo in Asia, Africa ed Est Europa, guadagnandosi il nome di Indiana Jones della Coca Cola.
La terza sfida è sul fronte interno: junk food e bibite che contengono fino a 16 cucchiaini di zucchero per bottiglia sono la causa principale dell'obesità. Il 60% degli americani è sovrappeso: questo sta portando a un lento calo di consumi di bevande gassate e spinge molti Stati a vietare o limitare la vendita di questi prodotti nelle scuole.

 

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