FINE DEL LAVORO
O LAVORO SENZA FINE?

3^ trasmissione: 'Il Biennio rosso 68-69''
a cura della redazione romana di "Vis-a'-vis"


Marina: Redazionale riassuntivo sulla prima parte dell'intervento di Gabriele Polo e introduzione al secondo intervento di Marco Melotti: il passaggio dalla composizione tecnica alla composizione politica.

Alessio: Nella prima parte abbiamo parlato della composizione tecnica del capitale in Fiat negli anni '60 anni, della produzione a catena che imponeva i ritmi e comandava la forza-lavoro. Ad un certo punto pero'la rigidita' del capitale si trova contro il suo opposto speculare, la rigidita' della forza lavoro: la catena si trasforma in uno strumento attraverso il quale gli operai riescono a misurare fisicamente l'andamento della propria produzione, a misurare in maniera visibile, fisica l'entita' dello sfruttamento. C'e'un episodio nel libro di Marco Revelli, che tu citavi prima, molto bello, in cui si descrive come Luciano Parlanti, facendo delle linee con il piede sulla terra battuta della fabbrica, riusciva a controllare i tempi della propria prestazione lavorativa vedendo dove iniziava e finiva a lavorare su di un pezzo. . Nel momento in cui non riusciva a lavorare piu' su quel pezzo all'interno di quelle due linee voleva si accorgeva che la catena aveva aumentato la velocita' e dunque il livello di sfruttamento a cui era sottoposta la forza lavora. La catena si trasformava da strumento di imposizione di un ritmo a strumento di misurazione dell'entita' dello sfruttamento. Ecco,ad un certo punto, e particolarmente alla Fiat Mirafiori, la rigidita' del capitale incontra la rigidita' della forza lavoro, che il capitale era stato costretto a porre in essere in virtu' di quella composizione tecnica.....

Gabriele : E' interessante vedere come si passa dalla pace sociale al conflitto continuo, partendo proprio dalla Fiat dove l'autunno caldo comincia molto prima, nella primavera del '69. C'era lo scoglio del dispotismo, del comando aziendale da superare per il conflitto e per questo furono necessari degli eventi, delle forzature, delle rotture. Si arrivo'a un livello di saturazione, di insopportabilita' ma fu necessario un di piu' di soggettivita', qualcuno che iniziasse.....

Marina: La soggettivita' di cui parli era interna alla fabbrica....

Gabriele: Si interna alla fabbrica. Poi esternamente alla fabbrica c'era chi lavorava e cercava di comunicare con gli operai come Raniero Panzieri. Pero'la comunicazione era molto difficile ed il suo non era un intervento che produceva immediatamente conflitto. Tornando a quanto si diceva prima, a Mirafiori tutto inizio'con uno sciopero dei carrellisti alle presse per motivi molto particolari di quella determinata categoria, che rallento'l'affluenza dei pezzi alle carrozzerie. Ad un certo punto questa vertenza di reparto inquino'il reparto successivo e fu proprio la cadenza del ciclo che comunico'l'esistenza del conflitto. Gli operai della......(?) non sapevano che cosa stava alle carrozzerie, e si accorgono che qualcosa non funziona perche'i pezzi non arrivano piu', i convogliatori iniziano ad arrivare vuoti. Allora hanno lo stimolo a prendere l'iniziativa andando a vedere che cosa stava succedendo nel reparto a monte. E la lotta si propaga cosė a macchia di leopardo, con un contagio continuo da un reparto all'altro sotto la direzione di alcuni operai che assumono un ruolo di avanguardia, che fanno delle forzature, impongono scioperi e vertenze (in Fiat per tutto il '69 ci sono oltre due milioni di ore di scioperi prima ancora che l'organizzazione sindacale intervenga e che si apra la stagione del rinnovo del contratto nel 69). Vertenze particolari, quelli della lastroferratura che chiedono la bottiglia di latte per poter 'digerire' meglio l'inquinamento a cui sono sottoposti, altri chiedono che la fabbrica fornisca loro le tute per non acquistare in proprio i vestiti per lavorare. Tutto questo procede fino a diventare un fenomeno collettivo. E finalmente si rompe il dispotismo aziendale, la paura dei capi viene superata, c'e'la dimostrabilita' che le lotte sono possibili (e qui i cortei interni sono molto importanti) e contemporaneamente si apre un livello di comunicazione che prima non c'era. In tutta la Fiat fra 60.000 operai c'erano 25 delegati che costituivano la Commissione interna, antica eredita'. Questi non avevano nessuna possibilita' di controllo e nemmeno nessuna comunicazione tra reparto a reparto. Le lotte smuovono tutto: nascono nuove avanguardie e nasce la comunicazione all'interno della fabbrica, si estende mano a mano come una sorta di marea e dalle carrozzerie ritorna alle meccaniche e fa nascere il conflitto. Su questo il sindacato rimane in parte spiazzato e in parte cerca di cavalcare quest'onda la quale fino all'autunno del '69 e'assolutamente spontanea. In Fiat, nell'estate, vengono firmati tre accordi sulle rivendicazioni (aperta la comunicazione si passa dalle rivendicazioni particolari alle rivendicazioni collettive), aumenti salariali inizialmente. Il conflitto non si ferma , gli scioperi continuano come se niente fosse successo, sintomo questo che c'era qualcosa di piu' in quella condizione che abbiamo cercato di descrivere prima.

Marina: C'era pero'un'altro elemento che era trasversale sia a tutte le testimonianze riportate, ad esempio anche nel testo curato da te, che a tutto il movimento della fine degli anni '60. In tutte le interviste si legge che sebbene ci fosse una motivazione di partenza che era di carattere materiale, salariale, perche'in Fiat il lavoro era era insopportabile, poi si faceva il corteo perche'c'era la gioia di sentirsi finalmente uomini liberi. Due erano le parole d'ordine in quei mesi, parole che erano trasversali,a tutto il movimento in quegli anni, 'siamo tutti delegati' e 'vogliamo tutto'.

Gabriele : si anche se forse la seconda precede la prima......

Marina: ed e'un grosso cambiamento perche'ad esempio nel ciclo del '20 '21 o nel '43 non c'erano. C'erano nel '68.

Gabriele: c'erano nel '68 perche'c'e'una classe operaia che non solo non ha niente da perdere, non e'professionalizzata, non ha strumenti di mediazione ma soprattutto qualcosa succede all'esterno delle fabbriche. Su questo 'vogliamo tutto', su questa gioia di liberta' si trova un momento di unita' con gli studenti e con quello che sta succedendo da qualche mese fuori dalle fabbriche. Il caso di Torino anche qui e'emblematico: dentro la fabbrica l'operaio aveva il padrone che gli imponeva quei ritmi produttivi, fuori dalla fabbrica nella la citta', aveva lo stesso padrone, la Fiat, che informava i ritmi della citta'. Torino e' l'unica citta' al mondo (toglila!) che abbia dei tram che funzionano soltanto nelle ore che corrispondono alle ore di cambi alla Fiat. E' una citta' che vive in funzione della fabbrica e, nel momento in cui gli studenti si ribellavano al dispotismo, trovano immediatamente un livello di collegamento con gli operai della fabbrica che si opponevano e si ribellavano ad un altro dispotismo. La parola d'ordine dell'antiautoritarismo, che esisteva nel movimento studentesco, trova immediatamente una corrispondenza dentro le fabbriche perche'li stava avvenendo una ribellione contro un dispotismo aziendale che viveva nella condizione materiale dei soggetti. Quindi questo elemento di liberazione e'il filo conduttore di quel biennio ed e'una cosa radicalmente nuova rispetto alla tradizione del movimento operaio: non ci si limita piu' ad una rivendicazione salariale o normativa e' una rivendicazione che mette in gioco tutto. Se la tua vita e' completamente subordinata al ciclo della fabbrica e alla cultura che la sottende, la tua ribellione e'una ribellione totale. In questo senso 'vogliamo tutto'. Si rovescia completamente quella che era la situazione precedente perche'per poter migliorare il tuo salario, la tua condizione di lavoro, il tuo modo di essere in fabbrica, ti rendi conto che hai la necessita' di rovesciare davvero tutto. Questa e'la vera peculiarita' di quel biennio di lotta.

Alessio: C'era poi la peculiarita' di quei settori operai provenienti dal meridione che vivevano nella fabbrica l'unico momento di socializzazione e al di fuori della fabbrica non avevano niente da perdere. Le famiglie erano lontane, non avevano relazioni sociali e la socialita' la costruiscono all'interno della fabbrica prima con i colleghi di lavoro e poi ancora di con i compagni di lotta, gli stessi colleghi di lavoro che sono diventati compagni di lotta. Alla base di questo c'e'anche il vogliamo tutto, l'assolutezza di quella parola d'ordine e di quelle lotte per chi ,come diceva Marx, non aveva che da perdere che le proprie catene. Il momento di socializzazione era all'interno della fabbrica.

Gabriele: Infatti questo poi si tradurra' in varie cose: non soltanto cambieranno le condizioni di lavoro dentro la fabbrica, ma cambiera' anche la socialita' interna alla fabbrica. Questa diventera' una zona, non dico liberata, ma un luogo in cui avveniva comunicazione, le persone si conoscevano. Di esempi ce ne sono tanti nei racconti: nella fabbrica nascevano le amicizie e gli amori, la fabbrica cambia e diventa il luogo della socialita' operaia in cui gli operai impongono una diversa organizzazione collettiva che ha risvolti individuali molto precisi. Credo che non sia sbagliato dire che nei primi anni '70 le fabbriche erano un luogo di avanguardia della comunicazione sociale, in cui si poteva non soltanto lavorare ma anche fare delle feste e tante altre cose e quegli operai che non avevano cultura industriale e che dovevano costruire tutto la loro condizione, l'organizzazione della loro condizione, trovarono per la prima volta in quel luogo, che li aveva costretti ad una comunicazione produttiva forzata, un luogo di comunicazione liberata.

Alessio: penso in particolare al protagonista di Balestrini 'vogliamo tutto' Alfonso, che viene dal meridione, si ritrova sperduto, in questa citta' immensa e in questa fabbrica immensa e alla fine del romanzo poi e'protagonista degli scontri di Corso Traiano dopo un percorso di crescita non solo politica ma anche soprattutto culturale e umana.

Gabriele: si anche ad esempio il Film di Scola 'Trevico-Torino', in qualche modo da conto di questo percorso....

Alessio: C'era anche un'altro aspetto alla base della rivendicazione del siamo tutti delegati una rivendicazione egualitarista, il rifiuto della delega. C'era un'inversione dei rapporti presenti all'interno della fabbrica, modellati sulla composizione del capitale che imponeva e modellava una composizione tecnica di classe. C'era l'uguaglianza delle mansioni alla base, questo riconoscere se stesso nell'altro, vedere nell'altro non solo un collega di lavoro che e'sottoposto ad una fatica di sfruttamento crescente, ma in lui riconosce anche il proprio sfruttamento e la propria fatica. Da questo nasce quella parola d'ordine.

Gabriele: si l'egualitarismo e' frutto proprio della composizione tecnica, dal fatto che le mansioni erano tutte intercambiabili e quindi, anche se formalmente diverse, erano uguali. La fatica era uguale per tutti e che quindi inevitabilmente le richieste dovevano essere le stesse per tutti. Il siamo tutti delegati dicevo prima viene un po'dopo perche'questo e'la conseguenza di questo tipo di richiesta: se gli aumenti devono essere uguali per tutti, le categorie devono essere uguali per tutti e'chiaro che l'organizzazione politica e sindacale di classe deve essere corrispondente a quel tipo di richieste e quindi 'siamo tutti delegati' anche perche'la memoria, la presenza di delegati precedenti era qualcosa che stonava con quel tipo di organizzazione del lavoro e di richiesta operaia. Era un organizzazione molto gerarchica piccola, non diffusa nelle fabbriche, staccata dalle condizione materiali della fabbrica, una sorta di gruppo dirigente molto burocratizzato del movimento operaio, di quello che restava di quel movimento operaio. E poi soprattutto perche'quell'Organizzazione sindacale aveva completamente fallito alla Fiat in maniera estremamente evidente con tutti gli anni di scioperi che non riuscivano ed era una reazione(?) completamente subalterna che poteva al massimo produrre qualche incentivo salariale quando il padrone te lo permetteva...(?). L'organizzazione che gli operai si dovevano dare era un'organizzazione corrispondente ad un nuovo ciclo, ad una nuova condizione e a nuove richieste da cui appunto la parola d'ordine 'siamo tutti delegati' che in parte rivisse anche dentro l'organizzazione sindacale del '69 laddove questa era permeabile al conflitto che c'era. I delegati nascono in parte, come ricordavo prima, come delegati di squadra, ma ovviamente la gestione politica centrale di quel tipo di organizzazione andava da tutta altra parte. Pero'la contaminazione ci fu o, se vogliamo, un uso sindacale di questa ci fu o comunque il sindacato di questo dovette tener conto altrimenti sarebbe rimasto tagliato fuori e l'organizzazione operaia avrebbe consolidato la sua forma. Questo non avvenne: i delegati di squadra eletti su lista bianca si trasformavano lentamente in delegati eletti su lista gia' formata, in delegati di reparto, in una sorta di parlamentino che poi divenne un parlamentino di carattere sindacale. Il consiglione.

Marina: Cio'ha determinato una grossa rottura culturale con la tradizione terzointernazionalista, tradizione che poi ci sembra purtroppo venne ripresa dai gruppi che nacquero sull'onda del biennio rosso....

Gabriele: tu dici la differenza che c'e'tra partito e sindacato l'intervento esterno come luogo di direzione della societa', questa cultura che in qualche modo si dirama anche nei gruppi, la considerazione che l'autonomia operaia non e'un luogo politico. Con questa tradizione il biennio rosso rompe, i suoi frutti migliori sono proprio estranei a questa tradizione e ipotizza che gli operai possono produrre cultura politica, che nella contraddizione tra la loro condizione materiale e il suo miglioramento sia il luogo della politica, luogo privilegiato della politica e quindi non soltanto per la composizione sociale della classe ma anche per questo motivo soggettivo per questa capacita' di conflitto di proposizione di idee, socialita' e cultura nuove, di potere diverso sia l'elemento fondante della possibilita' rivoluzionaria. E' questo il cuore della teoria dell'operaio massa. Cio'ha una brevissima stagione, perche'da un lato il sindacato, come abbiamo visto prima, che per non scomparire ha dovuto cambiare alcune cose ma cercando di indirizzarle in altre direzione, dall'altro la politica in senso proprio dal Pci ai gruppi, non avevano in testa questo schema bensė uno schema che usava la fabbrica come luogo di intervento da cui al massimo sottrarre le energie migliori, le avanguardie per potere gonfiare il proprio intervento, farlo diventare di massa e acquisire consenso. Io penso che questa stagione di autonomia operaia vera sia brevissima: si conclude nel 73 se non nel 71.

Marina: Luciano Parlati addirittura la fa concludere nel 70

Gabriele: Perche'l'identifica con il suo percorso personale.....siccome viene licenziato alla Fiat....

Marina: Non mi sembrava quello il motivo.......

Gabriele: Si certo la fa coincidere anche con la istituzionalizzazione dei delegati. Pero'al di la' dell'intervento esterno del sindacato e della politica delle tare della tradizione del movimento operaio, c'e'anche un elemento di debolezza in questa autonomia operaia. La sua forza e'quella di poter, essendone plasmato, bloccare l'organizzazione del lavoro, trasformandosi nel suo contrario, la sua debolezza e il non essere riuscita a superare il confine della fabbrica, a comunicare se non per pochi episodi, penso a Corso Traiano, ad alcune occupazioni di case, alle assemblee con gli studenti di architettura a Torino, alle assemblee della statale a Milano, di non essere riuscito a diventare soggetto politico in prima persona perche' prodotto da quell'organizzazione del lavoro e quindi molto autocentrato su di se. Alcuni tentativi furono fatti. Secondo me la colpa principale e'dell'esterno della fabbrica, del mondo della politica e del sindacato. La parola d'ordine di Lotta continua 'riprendiamoci la citta'' che traduceva , anche se in maniera primitiva, fuori dalla fabbrica, cio'che l'esperienza del '68 '69 aveva dimostrato, cioe' la possibilita' dell'autorganizzazione dei soggetti sfruttati e quindi del tentativo di costruire nelle citta' alcune 'zone liberate', esperienze di comunismo anche fuori della fabbrica (come nella fabbrica c'era il controllo della produzione da parte degli operai che imponevano accordi di un certo tipo, anche se non firmavano loro, che costringevano la fiat ad esempio ad abbassare i livelli di saturazione che facevano capire ai capi Fiat che loro no comandavo piu' in fabbrica), di potere anche sul territorio, avvalendosi del fatto che molto spesso i soggetti erano gli stessi, gli operai che non erano piu' produttori bensė 'cittadini'. Quel tentativo, per quanto primitivo, forse grezzo, era un tentativo di spostare l'asse della centralita' del movimento operaio da un ottica puramente salarialista, per quanto riguarda il rapporto con la controparte, e totalmente scissa tra aspetto sociale e politico per quanto riguarda la politica piu' in generale. Perche'poi c'era il partito che dirigeva e usava il partito in qualche modo...... un tentativo che viene sconfitto per motivi esterni. Non e'qui il caso di ricordarlo pero'succedeva di tutto l'autunno caldo finisce con la strage di Piazza fontana.

Alessio: Potremo concludere sul rapporto fordismo maturo - conflitto operaio, che e'il nodo sui cui si sta incentrando il dibattito attuale . Alcuni interpreti , in particolare Marco Revelli, pongono il rapporto tra fordismo e conflitto come necessario e immediato: il fordismo-taylorismo porta di per se immediatamente e necessariamente il conflitto operaio. Si parla di sistema dispotico e dualistico: ci sono due poteri che si contrappongono e la risultante e una sorta di compromesso tra questi poteri. Alcuni obiettano che storicamente non e'stato cosė: la lunga stagione di lotte di cui abbiamo appena parlato, concretizzatasi nel biennio rosso del '68 '69, e'stata preceduta da un lungo periodo di oblio in cui la soggettivita' operaia non si e' espressa Penso in particolare agli anni 50.

Gabriele: la cosa e'un po delicata perche'da un lato si parla di modelli e dall'altro di esperienze concrete. L'esperienza italiana dice che il fordismo maturo porta con se inevitabilmente il conflitto. Questo e'quello che e'successo: nel momento che quell'esperienza e'giunta a maturazione c'e'stato conflitto. Anche se questo non si e'prodotto automaticamente perche' e'necessaria anche la soggettivita', la capacita' di liberarsi da quel comando dispotico, sicuramente il modello fordista maturo contiene in se fortissimi elementi di conflitto e questo e'dimostrato anche da quello che succede dopo, da come avviene la ristrutturazione produttiva in Italia e dalle sue date. Nel '73, che e'il momento apice, la Fiat si rende conto di non poter piu' tenere sotto controllo gli operai (ricordiamoci l'episodio dell'occupazione alla Fiat nel marzo del '73, i picchetti ai cancelli, i fazzoletti rossi a Mirafiori) e sposta il suo asse di interesse con investimenti a carattere finanziario, comincia la ristrutturazione produttiva di carattere tecnologico, Agnelli va in Confindustria, viene firmato l'accordo per la scala mobile, elemento di mediazione di quel conflitto. Riprendera' il controllo della fabbrica solo dopo la sconfitta della classe operaia dell'80 di cui ne ha preparato il terreno. Il modello fordista italiano portava in se un elemento di conflitto fortissimo, ma bisogna che questo conflitto si possa esprimere superando quella barriera dispotica su cui il ciclo produttivo capitalistico.... (?).Pero'non e' vero il contrario, cioe' non e'vero che la fine del fordismo presuppone la fine del conflitto, non e'vero che il superamento del modello taylorsita puro, perche'poi stiamo attenti l'attuale 'postfordimo' contiene elementi di taylorismo esasperato al suo intero. Bisognerebbe analizzare situazione per situazione: le fabbriche hanno al loro interno delle permanenze dell'organizzazione del lavoro passata. E' come un grande museo, trovi dentro sistemi che vanno dalla prima rivoluzione industriale ....(?) Dicevo non e' vero che la fine del modello taylorista presuppone la fine del fine del conflitto sui luoghi di lavoro anzi sposta il terreno del conflitto non fuori dalla fabbrica, ma dentro la fabbrica su altri tipi di contraddizioni. Il discorso sarebbe lungo ed e'tutto da indagare, da capire, per il problema dell'identificazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, della densificazione della prestazione operaia, della richiesta maggiore di prestazione operaia in termini non soltanto manuali ma intellettuali, non come creativita', ma come capacita' di adattamento dei tuoi ritmi biologici e delle tue prestazioni fisiche alla flessibilita' del nuovo sistema. Questi sono fortissimi elementi di conflitto. Credo che anche questo filo conduttore non si sia spezzato, bensė articolato e che una nuova centralita' operaia possa essere ricostruita soltanto se noi ricostruiamo il ciclo della produzione delle merci e troviamo, come gli operai trovarono nelle fosse di convergenze il luogo critico su cui premere per bloccare quel tipo di controllo dispotico, i luoghi critici del nuovo ciclo delle merci. Questa e' una questione che attiene prima di tutto alla condizione di vita e di lavoro degli operai industriale. Questo e'forse vetero operaismo pero'io credo che la densificazione della prestazione operaia oggi ci dica questo.

Alessio: in conclusione possiamo dire come per quanto riguarda il fordismo e il taylorismo maturo all'oblio degli anni 50 sia poi seguito l'autunno caldo chiudiamo con una nota di speranza che all'oblio di questi ultimi vent'anni possa seguire un nuovo autunno caldo,un nuovo biennio rosso.

Gabriele : piu' che una nota di speranza si tratta di lavorare molto. Credo che oggi la produzione, ad esempio quando si parla di produzione a rete, di nuovi lavoratori subordinati che sembrano lavoratori autonomi ma che in realta' sono lavoratori subordinati, si dicano delle cose importanti, ma continuo a pensare che il tipo di vertenza(?) e di attenzione a questi nuovi processi produttivi senza una sponda forte all'interno dei luoghi centrali della produzione non possa andare da nessuna parte. Questo e'l'elemento di soggettivita' che io vorrei in qualche modo mettere al centro.

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